Recensione a: Francesco Tufarelli e Cristiano Zagari, Negoziando. Cassetta degli attrezzi per classi dirigenti, The Skill Press, Roma 2020, pp. 304, 29 euro (scheda libro)
Scritto da Alfredo Marini
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Ad ogni nuovo profilo di complessità che caratterizza il nostro presente corrispondono inevitabilmente nuovi fattori di scontro. L’instabilità che ne discende necessita di essere governata con consapevolezza, attenzione, cura e con un adeguato bagaglio di competenze. Con quest’opera gli autori trasmettono compiutamente l’efficacia del negoziato quale strumento per la composizione di interessi contrapposti al fine di contribuire a governare i conflitti generati dalla complessità.
«Un Governo moderno dovrebbe avere tra le sue ambizioni quella di promuovere a tutti i livelli il negoziato come nuovo stile di vita collettivo», così l’ex Presidente della Repubblica francese François Mitterrand si riferiva al negoziato, ed è con questa citazione che si apre Negoziando. Cassetta degli attrezzi per classi dirigenti, di Francesco Tufarelli e Cristiano Zagari. Gli autori, sposando il pensiero del Presidente Mitterrand, evidenziano altresì la dignità stessa della scienza della negoziazione, per troppo tempo derubricata in posizione ancillare nel nostro sistema accademico, nell’ordinamento giuridico e nella società. Avviene invece l’opposto oltreoceano, dove, già nel 1983, l’Università di Harvard – con il Program on Negotiation (PON) – fece partire il primo vero filone di ricerca grazie al quale gli Stati Uniti poterono intestarsi il ruolo di capofila nella creazione della teoria della negoziazione.
Nel gergo comune il negoziato viene paragonato ad un’arte, ma esso è prima di tutto una scienza, un metodo composto da fasi precise e strumenti specifici. Il negoziato trova negli esseri umani la propria cifra fondante e nella composizione di interessi contrapposti la propria ragione d’esistenza. Il negoziato, però, non si presenta in maniera univoca, essendo fortemente influenzato – ad esempio – dal retaggio culturale degli esseri umani che lo interpretano. Basti pensare ad uno dei fattori cruciali della negoziazione: il cosiddetto “fattore tempo”. In Asia notiamo un tipo di negoziatore che interpreta questo fattore secondo un’idea circolare, adottando un approccio flessibile del suo utilizzo; al contrario, nel mondo occidentale, si accoglie un’idea lineare del tempo, che conduce il negoziatore a conseguire il miglior risultato nel minor tempo possibile (il tempo è infatti visto come una risorsa limitata).
L’opera di Tufarelli e Zagari offre un’analisi sistematica del negoziato, con lo scopo di sondare in maniera organica tutte le sue fasi e i suoi strumenti mediante la descrizione di diversi casi pratici, grazie ai quali il lettore può meglio comprendere le caratteristiche e il metodo propri del buon negoziatore. Come si identifica, allora, la figura del buon negoziatore? Egli è, prima di tutto, la persona capace sia di porre a se stessa le giuste domande – grazie alle quali rafforza la consapevolezza dei propri mezzi – sia di porle al proprio interlocutore. Il percorso per sviluppare un negoziato efficace si struttura a sua volta in tre fasi: quella di raccolta delle informazioni, la fase di confronto e quella di conclusione dell’accordo.
Generalmente, quando ci si riferisce al negoziato, si commette l’errore di intenderlo solo nella sua accezione deteriore, quella del cosiddetto “negoziato di posizione”: un meccanismo totalmente inefficace in cui le parti coinvolte tentano esclusivamente di imporre la propria supremazia sull’altra. Il negoziato di posizione si caratterizza altresì per un alto livello di conflittualità ed è anche definito come “gioco a somma zero”, poiché ammetterebbe esclusivamente la vittoria di una parte sull’altra, escludendo la possibilità che l’accordo possa generare un valore aggiunto per tutti gli attori negoziali.
Gli autori sottolineano invece come il buon negoziatore debba perseguire il “negoziato ragionato”, il cui scopo precipuo è risolvere il problema con la cooperazione reciproca tra gli attori negoziali. Il negoziato, in questa prospettiva, seguendo l’adagio di Sun Tzu – «in guerra è meglio conquistare uno Stato intatto, devastarlo significa ottenere un risultato minore» –, si presenta come la ricerca cooperativa di soluzioni al problema, senza prevedere la sconfitta e l’umiliazione della controparte. Il negoziato ragionato richiede dunque che si parta innanzitutto da una mappatura degli attori negoziali (le parti presenti in trattativa), dopodiché risulta di grande importanza la raccolta di informazioni e lo studio meticoloso delle “posizioni negoziali”, le quali rappresentano le questioni oggetto del negoziato che sottendono gli specifici interessi degli attori in campo. Le posizioni negoziali, dunque, sono gli elementi concreti che le parti perseguono; perciò, come ricordano gli autori, individuare gli interessi in gioco e mappare il contesto in cui si negozia (con i relativi rapporti di forza) è il presupposto per iniziare qualsiasi negoziato di successo.
Tufarelli e Zagari sottolineano il peso della comprensione profonda dell’insieme delle motivazioni che conducono l’attore ad assumere una posizione negoziale specifica. Una volta compreso il rapporto tra posizioni negoziali e interessi concreti, il buon negoziatore sarà quello che indirizza il negoziato verso la conciliazione degli interessi in gioco, anziché cercare compromessi tra posizioni. Relativamente a questo aspetto, gli autori offrono all’attenzione del lettore l’esempio dei negoziati di pace tra Israele ed Egitto del 1978. Il contrasto riguardava il destino del Sinai dopo la Guerra dei sei giorni. In quel caso la diatriba sulla questione delle frontiere si trasformò in un negoziato di posizione da cui si uscì comprendendo gli interessi sottesi alle posizioni contrapposte. Se da un lato l’Egitto aveva interesse a riacquisire la propria integrità territoriale, dall’altro Israele vedeva nella sicurezza delle sue frontiere l’interesse principale. Il compromesso sugli interessi, anziché sulle posizioni, permise di restituire il Sinai all’Egitto e di creare una zona smilitarizzata per garantire la sicurezza di Tel Aviv. In casi del genere più informazioni si avranno a disposizione per comprendere le motivazioni altrui più sarà semplice individuare i punti in comune con la controparte e giungere ad un accordo soddisfacente. Perciò, affrontare un negoziato impone di presentarsi davanti alla controparte con obiettivi specifici, identificando le soglie negoziali utili a delimitare il margine di flessibilità di cui si potrà godere durante le trattative.
La fase conoscitiva del negoziato rappresenta l’inizio di ogni trattativa. In essa le parti creano un contatto tra di loro e verificano le reciproche attese. Gli autori raccomandano di avvalersi di un atteggiamento empatico come premessa per la ricerca di un comune denominatore con la controparte: in tal modo si potranno affrontare gradualmente i vari punti di divergenza[1]. Bisogna in effetti tenere sempre a mente che i negoziatori sono innanzitutto esseri umani e per questa ragione bisogna ricercare dei punti di riferimento, che esulino dal negoziato, grazie ai quali rompere le barriere psicologiche che ostacolano l’instaurazione del dialogo. Fu esattamente ciò che accadde nel 1977 con la visita di Sadat a Gerusalemme, con la quale si riuscì a convincere Tel Aviv a riprendere le trattative inerenti al Sinai e al Golan. Durante la fase conoscitiva del negoziato è richiesto altresì il cosiddetto “ascolto attivo”, strumento con cui instaurare un clima di reciproca fiducia ed empatia con la controparte, allo scopo di acquisire ulteriori informazioni da essa.
In Negoziando Tufarelli e Zagari danno spazio anche ad una descrizione dei diversi approcci al negoziato riscontrabili nelle varie culture. Una prima grande distinzione può essere tracciata avvalendosi del criterio geografico che differenzia i negoziatori asiatici da quelli occidentali. Il tempo, come anticipato, è un fattore cruciale all’interno del negoziato, grazie al quale possiamo già notare una differenza di approccio. In Cina e Giappone esiste una concezione circolare di tale fattore, per cui le scadenze passano in secondo piano rispetto all’instaurazione di un clima di reciproca fiducia – valore da conseguire prima di tutto. Anche il numero dei componenti delle delegazioni è influenzato da fattori culturali: in Asia molto spesso le delegazioni risultano essere numerose e caratterizzate da una forte impronta gerarchica, per cui è il capo delegazione a prendere le scelte definitive. Lo stesso non avviene – ad esempio – per il negoziatore statunitense, che si ispira ad una logica di ottimizzazione del fattore tempo ed è inserito all’interno di delegazioni non numerose ma sempre integrate da esperti della materia oggetto di discussione, il cui parere possiede carattere dirimente.
Una volta compreso il ruolo decisivo svolto dalla fase conoscitiva all’interno del negoziato, gli autori conducono il lettore verso l’analisi della “fase di orientamento e confronto”, riassumibile con la domanda: come mi oriento una volta seduto al tavolo? A partire da questo momento, i negoziatori cominceranno a valutare la tenuta della propria proposta negoziale, che dovrà essere fondata sul maggior numero di informazioni conoscibili. È la domanda lo strumento fondamentale per la raccolta delle informazioni; il Presidente Ronald Reagan – ricordano gli autori – ne era profondamente consapevole: «Reagan impressiona di primo acchito con la sua voce calda, dolce, felice. Egli passa sempre un filtro di ottimismo nei confronti di qualsiasi cosa, ma una volta passato l’ostacolo di questo fascino non fa che leggere minuscoli bigliettini che estrae dalla tasca sinistra della sua giacca. Spesso non contengono cinque parole e terminano sempre con un punto interrogativo» (p. 155). Con questa testimonianza di Jacques Attali, consigliere del Presidente francese Mitterrand, si evidenzia l’importanza strategica delle domande come strumento di acquisizione di informazioni, la cui efficacia, però, è subordinata alla brevità e alla precisione con cui esse sono poste all’interlocutore.
La rielaborazione delle informazioni raccolte rappresenta il gradino successivo: con questa tecnica le controparti negoziali riassumono gli argomenti esposti, chiedono eventuali precisazioni e iniziano – ove possibile – a consolidare una base comune negoziale. Per il raggiungimento dell’accordo resta però necessario condurre le posizioni negoziali ad una convergenza, attraverso un percorso capace di illustrare i mutui vantaggi conseguibili dalle parti. Come detto in precedenza, il negoziato non è un gioco in cui «a ciascun vincitore corrisponde un vinto, dove i vincitori possono esistere solo se esistono i vinti»[2], bensì un tentativo di convergenza in cui entrambi gli attori negoziali possono essere premiati dall’accordo.
«L’imagination gouverne le monde», affermava Napoleone Bonaparte, e il medesimo adagio può essere calato all’interno delle dinamiche negoziali, che richiedono il ricorso all’immaginazione per l’individuazione di una convergenza tra posizioni apparentemente antitetiche. Gli autori presentano l’inizio del percorso di integrazione europea (con la nascita della CECA) come esempio perfetto di convergenza negoziale basata sulla capacità di immaginare nuove vie su cui condurre le trattative. Fu nel contesto storico del secondo Dopoguerra che Jean Monnet si adoperò per superare lo schema di negoziato a somma zero tra Francia e Germania, cercando un minimo comune denominatore con cui avvicinare le parti. In quel caso, tra i fattori di convergenza ci furono Konrad Adenauer e Robert Schuman, personalità provenienti da regioni di confine che più di tutte avevano vissuto l’insensatezza e la distruzione prodotte dalle guerre susseguitesi tra i due Stati a partire dal 1870. Con abilità Monnet si fece altresì promotore di un negoziato segreto, senza coinvolgere le rispettive pubbliche amministrazioni gelose dei propri retaggi (fattori frenanti) e infine lavorò affinché la creazione della CECA fosse un’opportunità capace di moltiplicare i benefici per tutte le parti negoziali. La Francia, guidando questo processo, ebbe la possibilità di tornare a confrontarsi con Stati Uniti e Unione Sovietica, l’Italia e la Germania ebbero l’opportunità di rientrare nel consesso internazionale, Paesi più piccoli come Olanda, Lussemburgo e Belgio trovarono nella nuova organizzazione la credibilità per guadagnare potere negoziale nel consesso internazionale.
La convergenza risulta perciò essere la fase più delicata del negoziato: essa richiede una grande abilità relazionale ed è proprio per questa ragione che gli autori sottolineano l’importanza degli eventi a margine delle trattative negoziali – come le cene ufficiali – per lo scambio di opinioni e la strutturazione di legami umani volti ad una migliore comprensione reciproca. In questa fase, però, i negoziatori non sono i soli ad avere un ruolo, in quanto rimane sempre la possibilità per attori diversi di entrare in gioco: è la situazione del ricorso al cosiddetto “intervention game”, che si ha quando le parti non riescono a superare gli ostacoli negoziali. Qui assume un ruolo dirimente il cosiddetto “outsider”, un attore esterno alle parti negoziali che dovrebbe conferire fluidità al negoziato e introdurre un nuovo approccio alle trattative. Gli attori esterni sono di tipi differenti: innanzitutto c’è il “facilitatore”, il quale si avvale del proprio status e delle proprie capacità di persuasione per superare gli ostacoli che si frappongono durante il negoziato. Questa figura dovrebbe facilitare l’individuazione di opzioni creative, migliorare la comunicazione tra le parti negoziali e convincere gli attori a fare concessioni o aiutarli a salvare la loro reputazione durante e dopo le trattative. La seconda figura di outsider è il “mediatore” – chiamato ad accettare l’incarico solo se non sono in campo altri mediatori. Egli cerca di stimolare le controparti negoziali con continue proposte di compromesso, redigendo delle bozze da sottoporre a dibattito. Il ruolo del mediatore risulta avere un termine; una volta prodotta l’ennesima bozza di accordo che non vede le parti concordi egli deve infatti dichiarare la mediazione fallita e uscire dal negoziato. L’ultima figura di outsider è l’“arbitro”: egli, al contrario degli altri due attori esterni richiamati, può imporre la propria volontà alle controparti negoziali per giungere alla conclusione dell’accordo e permettere a queste ultime di tutelare la propria reputazione.
Il negoziato si conclude con l’accordo, il quale scaturisce dall’ultima fase di negoziazione, la “fase di concretizzazione”. In tal caso è richiesto al negoziatore di operare un bilancio ponendosi le seguenti domande: sono deciso a sacrificare la mia proposta ideale per avvicinarmi a quella della controparte? L’interesse collettivo sta prevalendo? Le divergenze tra le controparti sono definitivamente chiarite? Il fallimento del negoziato conviene di più rispetto alla conclusione di un accordo? Tufarelli e Zagari spiegano dunque come la conclusione di un negoziato potrebbe risolversi nel cosiddetto “compromesso accettabile”, con cui le parti dividono equamente perdite e profitti, oppure in un “regolamento parziale”, dove solo alcuni punti trovano una specifica risoluzione[3]. L’approdo di un negoziato potrebbe sostanziarsi poi nei “nobili intenti”, grazie ai quali le parti cooperano individuando dei comportamenti corretti da adottare senza alcuna garanzia. Infine, si potrebbe giungere ad un “regolamento temporaneo” di cui le parti decidono, in assenza di un accordo permanente, di convergere su una specifica soluzione per un periodo di tempo determinato.
Gli autori, infine, descrivono i tratti di solidità di un accordo. Per definirsi tale, un accordo deve essere pienamente accettato dalle parti, utile a prevenire ulteriori liti, capace di spiegare in maniera chiara ed univoca tempistiche di durata e attuazione, nonché i ruoli e le azioni che le parti dovranno adottare.
L’opera di Tufarelli e Zagari si conclude poi con alcune riflessioni su temi di stretta attualità, prima di tutto sul negoziato comunitario – un esempio di negoziato multilaterale di stampo moderno. Nel contesto europeo operano contemporaneamente una pluralità di attori all’interno di un’arena negoziale in perpetuo mutamento, in cui risulta complesso individuare sia i ruoli, sia i conflitti, sia la loro stessa dimensione. Il processo di integrazione europea si inserisce e germina sul solco di questa novità ed è proprio in questo aspetto unico che si esplica la sua modernità. La CECA nacque nell’humus del negoziato multilaterale, il che rappresentò la cifra stessa del suo successo, anche rispetto alle altre organizzazioni internazionali nate in quel periodo. Un primo status quo, che vedeva la Francia capofila, verrà a modificarsi prima negli anni Settanta, sulla spinta dell’ingresso del Regno Unito, poi negli anni Novanta e nei primi Duemila sull’onda del crollo del Muro di Berlino, dell’adozione della moneta unica e con l’ingresso dei Paesi dell’ex blocco sovietico. In questo contesto estremamente mutevole si sono sviluppati strumenti e prassi negoziali peculiari come la “carsicità comunitaria” (per cui alcuni Paesi membri collaborano tra loro attendendo il consenso altrui), la nascita di gruppi di lavoro specifici (ad esempio il COREPER) e il cosiddetto “consultation reflex”, con cui si demanda a dei rappresentanti permanenti a Bruxelles l’onere di trovare l’accordo negoziale avvalendosi di un maggiore margine di manovra.
Il libro si conclude con una riflessione sugli effetti che la digitalizzazione ha sprigionato sul negoziato. Gli autori riconoscono alle piattaforme digitali di comunicazione un ruolo dirompente. La loro diffusione, congiuntamente alla rapidità di fruizione delle informazioni che le caratterizzano, hanno condotto personaggi come Mohamed Bouazizi – il venditore ambulante tunisino il cui gesto estremo diede avvio, nel 2010, alle Primavere arabe – e Greta Thunberg ad essere, secondo Tufarelli e Zagari, dei “fattori di ribaltamento del tavolo negoziale”. I personaggi citati, grazie alla diffusione via social network delle proprie azioni, hanno modificato la posizione delle opinioni pubbliche di tutto il globo, determinando mutamenti politici di grande portata come le Primavere arabe e la nascita del movimento Fridays for Future. Un ultimo cenno viene fatto alla figura del leader parafulmine, soggetto capace di attrarre su di sé l’attenzione mediatica che dovrebbe invece riguardare il negoziato in corso. In tal modo si distoglie l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica dal negoziato, garantendo ai negoziatori maggiore tranquillità e margine di manovra durante le trattative. Rientrano in questa categoria, secondo gli autori, il Presidente russo Vladimir Putin e l’ex Presidente statunitense Donald Trump.
Quanto detto sinora ci ha permesso di comprendere come il negoziato rappresenti una scienza d’avanguardia che merita di essere studiata. La sua influenza è in continua crescita e non è un caso, infatti, che si stia facendo strada nel mondo accademico europeo. Lo stesso ordinamento italiano non è estraneo da tale influenza: nel 2019, per la prima volta, la Cassazione ha riconosciuto la figura dell’avvocato negoziatore. Ha fatto poi eco il legislatore il quale – sull’onda della riforma Cartabia (L. 206/2021) – ha previsto tale figura di esperto nella negoziazione per promuovere il ricorso a strumenti complementari alla giurisdizione.
Guerra, gestione di imponenti programmi di finanziamento quali il PNRR e molto altro ancora. La complessità del presente richiede di essere governata a partire da soluzioni fondate su un metodo nuovo, un metodo capace di restringere ulteriormente il ricorso alla forza quale mezzo di risoluzione delle controversie e che sia capace di affiancarsi e arricchire il sistema delle regole di diritto conferendogli maggiore duttilità. Il negoziato è questo metodo nuovo che, a parere degli autori di Negoziando, dovrebbe prima di tutto permeare, a qualsiasi livello, la forma mentis della classe dirigente.
[1] Gli autori si avvalgono dell’esempio dell’inizio del processo di integrazione europea. Konrad Adenauer e Robert Schuman trovarono nei propri luoghi di origine (Palatinato e Lorena) il collante umano e culturale per dare inizio al percorso che avrebbe portato alla nascita della CECA.
[2] Lester C. Thurow, The Zero-Sum Society. Distribution and the Possibilities for Economic Change, Basic Books, New York 1980.
[3] «Il risultato raggiunto non è sufficiente per poter parlare di un vero successo del vertice, ma è abbastanza per non considerarlo un fallimento» (p. 226), scrivono gli autori in riferimento alla posizione dell’Unione Europea relativamente ai negoziati OMC di Hong Kong del 2005.