Nel labirinto del neoliberalismo
- 27 Aprile 2015

Nel labirinto del neoliberalismo

Scritto da Tommaso Sasso

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Questo articolo si inserisce in un dibattito promosso da Pandora sulle categorie di liberalismo, liberismo e neoliberismo. Leggi gli altri contributi sul tema usciti finora:

1) Le due facce della medaglia neoliberale

2) Il neoliberismo di destra e di sinistra. Note a una presentazione

3) La sinistra italiana e il liberalismo

4) Brevi cenni sul neoliberismo

5) La società degli individui non esiste


Redigere un articolo sul neoliberalismo non è semplice, anzitutto per una ragione paradossale. Regna sovrana una confusione difficilmente districabile sulle origini, l’evoluzione e sopratutto la reale natura della dottrina neoliberale. Cioè proprio sul fronte di cui una sinistra sconfitta dovrebbe fare il principale campo di battaglia, in una lotta per l’egemonia i cui esiti decideranno, e credo di non esagerare più di tanto, della tenuta sistemica dell’Occidente democratico, almeno nella prima metà del XXI secolo.

La confusione è addirittura semantica: neoliberalismo, neoliberismo, neoconservatorismo, liberismo. Tanti lemmi per indicare la medesima cosa (?), usati spesso insieme in un unico articolo al solo fine di evitare ripetizioni. Ciò è straordinariamente indicativo del tasso di effettiva subalternità agli assunti neoliberali a cui le sinistre occidentali sono state variamente soggette.

Prima di proseguire, motivo brevemente perché il lemma che ho scelto di utilizzare è neoliberalismo e non neoconservatorismo o neoliberismo.

“Neoliberismo” è generalmente legato alla dimensione economica, laddove la dottrina di cui parliamo abbraccia altri campi, da quello sociale, a quello politico, fino a quello, come vedremo, antropologico.

“Neoconservatorismo” è quello che invece sarei portato ad utilizzare, se non fosse etimologicamente insoddisfacente. L’idea di “conservazione”, o addirittura di “restaurazione” (dello status quo ante i ’30 gloriosi’) è infatti almeno apparentemente estranea a un’ideologia che fa della mobilitazione permanente, dell’ininterrotta rivoluzione, uno dei propri miti mobilitanti e fondativi.

Si diceva delle origini e dell’evoluzione del neoliberalismo, su cui ho alcune idee più o meno sviluppate, che non farò che accennare. Se dovessi infatti affrontare con la dovuta completezza ciascuno di questi aspetti, non un articolo, ma un saggio, sarebbe forse sufficientemente esaustivo, sempre che preceduto da un lavoro di ricerca che chi scrive non ha i mezzi e la preparazione per condurre. Mi limiterò dunque all’analisi di alcuni dei tratti che ritengo fondamentali del neoliberalismo, al fine della comprensione della sua reale natura.

Per risonanza e ambizione, il primo vero documento programmatico neoliberale risale al 1973, in occasione del Rapporto della Trilateral Commission in cui si denunzia il sovraccarico di democrazia in Occidente, non funzionale allo sviluppo economico. È il primo grande passo verso il traguardo che vede “il capitale sottrarsi al compromesso di cui era parte, e quindi allo Stato del quale pone in atto una potente e radicale decostruzione” 1. Questa avviene attraverso una narrazione che insinua nel senso comune l’idea di Stato come vincolo da cui liberarsi per poter finalmente esprimere la propria volontà di potenza. E non è certo soltanto lo Stato a rientrare in uno schema di questo tipo, ma qualunque tipo di legame sociale e istituzionale. È impossibile non vedere il nesso tra quanto detto e la profonda crisi dei corpi intermedi occidentali iniziata non a caso in concomitanza con l’affermarsi su vasta scala delle idee di cui stiamo trattando. Qualunque entità o prassi preveda mediazione, costruzione, riflessione, è abbattuta in nome dell’immediatezza, della decisione, della (non disciplinata) mobilitazione.

Sembra non a caso di leggere i principi ispiratori dei programmi elettorali di M. Tatcher e R. Reagan, alfieri del neoliberalismo militante. Dunque “Starve the beast” da un lato, mercificazione di ogni aspetto della vita sociale all’insegna dell’agognata libertà degli individui (che si tradurrà inesorabilmente in assoluta precarizzazione, radicale contingentazione e strutturale atomizzazione della loro esistenza), dall’altro.

Tutto questo è stato venduto come necessario rilancio di una politica dinamica contro l’ordine statico del welfare (ancora oggi, quante volte ci sentiamo dire che è necessario “smuovere le acque” e “uscire dall’immobilismo”?). Ciò ha iniettato un’enorme dose di rischio, di insicurezza e di disuguaglianza nel corpo sociale.

Ora, il rischio, l’insicurezza e l’instabilità hanno bisogno, per essere contenuti, di Decisione. Un bisogno che ha trovato risposta nei venefici processi di verticalizzazione dei poteri costituzionali dello Stato che hanno segnato buona parte del dibattito pubblico, soprattutto europeo, nelle ultime decàdi.

Questo discorso ci permette di chiarire un aspetto importante, sfatando così un noto luogo comune. Non è affatto vero che lo strapotere soverchiante del capitalismo finanziario ha compresso i margini della politica democratica: è la politica ad aver clamorosamente abdicato al suo ruolo, assegnando al Mercato centralità sistemica, in quanto guidata da chi perseguiva un disegno politico che, come altri più autorevoli osservatori, sono tentato di inscrivere in un capitolo della lotta di classe. Sotto questo aspetto, il neoliberalismo ne sarebbe uno strumento, abilmente impiegato dalle classi dominanti.

Non è difficile scorgere l’impatto che l’applicazione di un disegno di questo tipo ha ben oltre il versante strettamente economico. La mercificazione di ogni aspetto della vita sociale sopra ricordata e la demonizzazione di tutto ciò che non è strettamente privato, fa sì che la soddisfazione per il tipo di esistenza che si conduce dipenda sempre meno dall’impegno in progetti collettivi, primo tra tutti il prendere parte alla vita politica del proprio Paese, e sempre più dalla ricerca di simboli vitali negli oggetti di consumo, che contribuisce al primato della funzionalità sul senso delle cose, al ripudio della lentezza e alla ininterrotta ricerca di sensazioni immediate.

Ecco dunque il neoliberalismo configurarsi come “sofisticata forma di controllo dell’immaginario collettivo”, in cui “l’ideologia si sedimenta in un’antropologia, là dove l’egemonia di una parte viene raccontata come il comportamento dell’uomo”2.

Vi è un’altra lettura possibile, che non confligge e anzi si interseca con quella fin qui molto brevemente descritta.

Essa guarda al neoliberalismo come a una volontà di potenza occidentale, come droga i cui effetti eccitanti hanno chiuso gli occhi all’Occidente democratico, immergendolo nella competizione verso tutto e tutti, dopando grazie ad un uso a tratti criminale della finanza gli indicatori economici, davanti al lento venir meno del suo ruolo egemone nel mondo in termini valoriali, geopolitici, di civiltà.

Solo oggi, con un ritardo che non esito a definire clamoroso, si acquista contezza del ruolo in prospettiva soverchiante delle potenze che ci ostiniamo a chiamare emergenti, nonostante siano emerse da un pezzo (contagiate in seguito anche loro dagli assunti di fondo del paradigma di cui dibattiamo, ma non desidero aprire un altro capitolo oltremodo difficile da approfondire). È una lettura più sfumata, sfuggente addirittura, ma che ben si inserisce nella tesi secondo cui esiste un nesso fortissimo tra rivoluzione neoliberale e crisi della modernità.

Di essa finora si è discusso in modo pressoché esclusivo in termini economici, dal momento che si è palesata, nonostante covasse da tempo, soltanto nel 2007 in occasione dell’inizio della Grande crisi. Tale crisi svolge dunque una funzione di ‘svelamento’, di ‘rivelazione’, di presa d’atto della parzialità di una dottrina egemonica che, come sopra ricordato, si poneva come oggettiva, ineludibile cornice dell’agire politico, dell’agire sociale, dell’agire umano.

La crisi ha riaperto domande di senso su come va il mondo, a partire dalla effettiva consistenza della democrazia in Occidente.

È innegabile, le categorie del Moderno vivono una crisi profonda. L’arretramento regressivo di cui siamo spettatori, infatti, non investe soltanto le conquiste sociali del XX secolo, ma intacca anche la sostanza di quelle politiche del XIX. È in crisi lo Stato, che fatica a distinguere gli interessi di cui è portatrice la sua fonte di legittimità dagli interessi sanciti in sede sovranazionale, ai quali vengono sacrificati parti della stessa sovranità nazionale e la stessa costruzione dello stato sociale. Sono in crisi le categorie di destra e sinistra, che sempre meno riescono a rappresentare il conflitto tra le parti. È in crisi l’idea stessa che nell’intrinseca inordinabilità del mondo, nel suo spontaneo e incomprimibile disordine, possa essere impiantato un seme di razionalità ordinatrice e antropocentrica.

Della crisi della modernità in atto vi sono anche effetti collaterali ben più visibili. Non è un caso, ad esempio, che in aree del mondo da noi poco distanti il conflitto sia stato riportato al suo elemento primario, quello religioso. Ossia all’elemento pre-moderno per eccellenza.

Tirando le somme, possiamo concludere che il neoliberalismo è la più solida costruzione egemonica mai realizzata, è pervasivo verso ogni campo dell’esistenza umana. La sfida consiste tanto in un’approfondita analisi della sua complessa genealogia e, per dirla con Carlo Galli, in una sua “decostruzione verticale”, quanto nell’immaginare, costruendo nuovo senso comune, una nuova e diversa configurazione delle cose del mondo. Pena per la Sinistra smarrire, in un lento stillicidio, la propria ragion d’essere.


1 C. Galli – Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia (2013)

2 W. Tocci – Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra (2013)


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Scritto da
Tommaso Sasso

Studia giurisprudenza all'università di Roma 3. È membro del Comitato di redazione di Italianieuropei.

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