Neo-mutualismo e nuove “convergenze”, per una normalità trasformata
- 24 Aprile 2020

Neo-mutualismo e nuove “convergenze”, per una normalità trasformata

Scritto da Paolo Venturi

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Rimettere in moto la fiducia

Così come stiamo ancora attendendo i dati che certificheranno la più grande recessione economica dal dopoguerra (si stima un calo di oltre il 13% del PIL nel primo semestre), non è ancora chiaro il futuro delle oltre 360 mila organizzazioni non profit, che mostrano più di 70 miliardi di entrate e che attraverso quasi 900 mila occupati e 6 milioni di volontari erogano servizi (spesso essenziali) a oltre 21 milioni di cittadini. Siamo immersi in uno scenario d’incertezza che per la prima volta ci mette di fronte ad uno shock che impatta contemporaneamente su domanda e offerta, producendo una profonda recessione economica e (cosa non secondaria) una molto probabile recessione sociale. Nella crisi economico finanziaria del 2008, abbiamo potuto contare sulla resilienza della società nel suo farsi comunità, ma oggi molte di quelle leve legate alla solidarietà e alla partecipazione (benché attive) sono fortemente depotenziate dal “distanziamento sociale” e in molti casi assistiamo a veri e propri processi in cui anche la “fiducia” viene messa in quarantena. Sono giorni cruciali questi, perché si sta decidendo il futuro del nostro Paese: la sua ri-partenza. La ricetta che serve non è solo un elenco di prescrizioni e protocolli, ma una spinta in avanti capace di “ri-attivare” percorsi di sviluppo a prova di futuro, percorsi pragmatici e trasformativi. Dopo questa fase, molto probabilmente si presenterà una lunga “fase di transizione”: sarà quello il momento privilegiato per sperimentare nuove soluzioni innovative capaci di “resistere” al tempo, soluzioni che l’emergenza ha fatto nascere e che auspicabilmente potranno proporsi come prototipi di un nuovo welfare e di una nuova economia più inclusiva. Lo shock che ha investito il mondo si sta dimostrando un fattore in grado di accelerare “la domanda di cambiamento” e di ridurre ulteriormente la platea di coloro che lottano per “continuare a fare come prima”. Il Coronavirus ha certamente dato un duro colpo al misoneismo (l’avversione all’innovazione), ma occorre ora capire il senso (il significato e la direzione) di una nuova strategia.

 

L’emergenza del “Fattore Digical”

Una delle strade da imboccare per aprirci positivamente al futuro è quella che vede la costruzione di una nuova ecologia (un ambiente comune) fra le organizzazioni non profit e la moltitudine di imprese e luoghi che costruiscono valore attraverso l‘innovazione digitale. Una strada questa che parte dal “doppio assunto” che l’innovazione “deve” essere sociale (in primis quella digitale) e che il sociale che rinuncia a co-produrre soluzioni attraverso l’intelligenza della propria comunità, rischia di perdere molto del suo valore e del suo impatto. Le numerose esperienze di questi giorni drammatici, nascono dalla collaborazione e dalla relazione per certi versi “obbligata” per altri “desiderata” fra imprenditori digitali e cooperatori sociali, fra Fablab e ospedali, fra sviluppatori di app ed il volontariato, fra piattaforme di crowdfunding e comunità ferite. Potremmo definirlo “fattore Digical” (Digital + Local) quell’elemento emergente capace di rilanciare un’alchimia fra produzione e consumo, fra luoghi e flussi, fra bisogni locali e soluzioni nate per scalare: “Digital First” e “Local First” sono i due imperativi di un nuovo scenario già in allestimento.

 

L’affermarsi del neo-mutualismo

L’emergenza infatti non è solo il tempo della resistenza, ma anche quello in cui si inizia a coltivare il cambiamento. Tutto quello che stiamo sperimentando in questi giorni drammatici è per certi versi un apprendimento e una palestra d’innovazione sociale. La spinta dal basso sta producendo la rinascita di nuove forme di “mutualismo” (neo-mutualismo) ben visibili nella capacità d’ingaggiare l’intelligenza collettiva per ridisegnate il lavoro, la cura e l’educazione. In questi mesi si rilancia spesso la nuova visione di un capitalismo sempre più sostenibile, ma occorre ricordare che le governance delle soluzioni in campo, non sono neutre. In questo senso occorre il coraggio (in particolare per la Pubblica Amministrazione) di alimentare non solo percorsi collaborativi e partecipativi, ma anche la radicalità di modelli di governance il cui potere è distribuito e decentrato: elementi questi fondamentali per alimentare il co-investimento a lungo periodo della comunità e dei potenziali stakeholder. Un potenziamento che dilata le risorse in campo e che produce un ampliamento dello spettro delle opzioni conosciute. In Italia siamo campioni del mondo in termini di biodiversità e peso del settore non profit e non ci manca neppure il talento: serve il coraggio di attivare un’azione corale, una convergenza capace di generare una nuova offerta di beni e servizi (ad alto valore sociale e comunitario e densi di tecnologia) per una domanda che si farà sempre più forte e intensa (già oggi la domanda di beni e servizi alla persona supera i 120 miliardi annui). Non basta “lanciare call” per progetti d’impatto sociale, occorre abilitare un processo (ben più faticoso ma anche più promettente) che incentivi e favorisca la co-produzione fra le imprese; percorsi che si infrastrutturino in filiere, contratti di rete, reti d’impresa in grado di favorire la nascita di nuove startup ibride dal “mindset digitale” e dall’orizzonte pubblico.

 

Nuove convergenze e prospettive d’investimento sociale

In un momento in cui le risorse stanno drammaticamente diminuendo e i fondi pubblici verranno destinati (giustamente) verso azioni di inclusione, sostegno al reddito e rafforzamento del SSN, è fondamentale orientare i finanziamenti, le risorse delle fondazioni, le progettazioni ministeriali, le donazioni e le risorse dei social venture verso progettualità capaci di potenziare le “infrastrutture sociali del futuro”, quelle capaci di avere il digitale nel proprio DNA, la comunità come motore propulsivo, modelli organizzativi agili e in grado di alimentare una nuova “grammatica di ciò che è valore”. La crisi di questi giorni ci sta dicendo che le organizzazioni di volontariato, i centri di produzione culturale, le cooperative sociali, le fondazioni, le reti sociali che “tengono” sono quelle più aperte, sono quelle che si dimostrano “Antifragili” (N. Taleb) ossia non solo in grado di resistere, ma anche di trasformarsi. Le economie ed i progetti sociali non possono più prescindere dall’integrazione fra la dimensione comunitaria/locale, quella culturale e quella digitale. Tanto il welfare in una prospettiva “community centered care”, quanto l’economia in una prospettiva “inclusivarichiedono una relaziona armonica e strategica e non semplici “partnership emergenziali o strumentali”. La consistenza dei beni relazionali può aumentare notevolmente, se il lievito delle nuove imprese e azioni sarà denso di intelligenza collettiva, tecnologia e soprattutto cultura. Non potrebbe esserci contesto più adatto per liberare il potenziale di cambiamento comportamentale della cultura: proprio quando le nostre capacità di disegnare il futuro si indeboliscono, ripete spesso Pierluigi Sacco, la cultura diventa l’ingrediente più importante per tracciare percorsi nuovi. Molti sono gli ambiti su cui fin da subito misurare questa nuova alchimia nel mondo del welfare. Il primo è il re-design dei modelli organizzativi per renderli più sicuri, agili e soprattutto più collaborativi nei confronti delle comunità. Il secondo è la radicale riprogettazione dei servizi socio-assistenziali amplificando l’uso di tecnologie capaci di favorire una maggior personalizzazione e autonomia dei beneficiari. Il terzo ha che fare con lo sviluppo e la nascita di piattaforme per un nuovo “terziario sociale”, piattaforme capaci di potenziare e qualificare: accesso, fruizione di servizi e la condivisione di risorse che diversamente sarebbero sprecate. Nel “post coronavirus” economia e welfare devono essere ricomposti, attraverso politiche e strategie che coltivino una nuova convergenza. Occorre fare sul serio, non basta più misurare il “Bene” del valore prodotto, è arrivato il tempo di dare Valore al “Bene” che si vuol generare.

Scritto da
Paolo Venturi

Direttore di AICCON e The FundRaising School. Docente di imprenditorialità sociale e innovazione sociale presso l’Università di Bologna (CAF in Welfare Community Manager - Master in Economia della Cooperazione) e numerose altre università ed istituzioni. Componente del Consiglio Nazionale del Terzo settore e del Comitato Scientifico della Fondazione Symbola, di «Corriere Buone Notizie», del CNV - Centro nazionale per il Volontariato e della Social Impact Agenda per l’Italia. Membro dell’Advisory Board di Nesta Italia, della Consulta della cooperazione Regione Toscana e della Consulta della cooperazione sociale della Regione Emilia-Romagna. Autore di numerose pubblicazioni fra cui “DOVE. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” e “Imprese ibride. Modelli d'innovazione sociale per rigenerare valori” editi da Egea. Collabora con numerose testate e blog fra cui «Il Sole 24 Ore», «Il Corriere della Sera» e «Vita Magazine».

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