Scritto da Giuseppe Cucchi
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Nel quadro di un percorso di approfondimento che prende le mosse dal colpo di Stato militare in Niger del 26 luglio, finalizzato a comprendere le sue ripercussioni sul Sahel e sull’Africa occidentale e a chiarire le dinamiche della regione, iniziato con un’intervista a Luca Raineri, pubblichiamo come ulteriore contributo alla discussione questo articolo del Generale Giuseppe Cucchi che riflette, a partire da quanto avvenuto in Niger, sulla strategicità dei rapporti tra Europa e Africa.
Non appena è giunta notizia di quanto sta succedendo in Niger mi sono chiesto se l’Italia, in qualche maniera, non rischiasse di rimanere coinvolta in questo ennesimo colpo di Stato africano, ricevendone danni in maniera diretta o mediata. Al medesimo tempo, come sempre succede in queste occasioni, mi sono anche domandato se ci fosse qualcosa che avremmo potuto fare o per sfruttare a nostro vantaggio qualche particolare aspetto della situazione o per ridurre al minimo eventuali inevitabili ricadute negative. Si è trattato di due domande cui è risultato difficilissimo rispondere. Oltretutto gli interessi italiani nell’area non sono, nella maggior parte dei casi, interessi esclusivamente nazionali, ma presentano una componente europea che non può assolutamente essere trascurata. Inoltre, il Niger fa parte di quel complesso di Stati africani che sono ancora definiti – o perlomeno lo erano fino a ieri – come Africa francofona, un’area in cui l’influenza francese è rimasta assolutamente predominante dalla decolonizzazione in poi. In termini strategico-geografici, inoltre, il Niger si è imposto da tempo come la vera e proprio placca tornante dell’intero Sahel, un Paese il cui controllo risulta determinante per chiunque speri di poter combattere con efficacia l’instabilità dell’intera zona subsahariana. Come se tutto questo non bastasse, poi, il Niger rischia ora di fare, a seguito del colpo di Stato in atto, la medesima fine del Mali e della Repubblica Centrafricana, uscendo dalla tutela francese soltanto per entrare, tramite i mercenari del gruppo Wagner, in un’area africana di influenza russa che si sta estendendo con eccessiva rapidità. Un passaggio che finirebbe a breve scadenza con l’incidere sulla destinazione delle sue esportazioni, specie di quelle dell’uranio di cui il Paese è il quarto produttore mondiale. Il provvedimento avrebbe certamente riflessi negativi per la Francia, che con l’uranio del Niger mantiene in vita la sua force de frappe nucleare e alimenta le 18 centrali atomiche francesi che producono energia elettrica. È bene comunque ricordare che dopo la Brexit la componente nucleare francese è ormai l’unica di cui dispone l’Unione Europea. Il problema dei rifornimenti di uranio non sarebbe più quindi esclusivamente francese ma assumerebbe una ben diversa dimensione. Inoltre, l’elettricità prodotta dalle centrali nucleari francesi, sovrabbondante fino ad oggi, non è consumata interamente in Francia ma viene venduta anche a Paesi vicini, fra cui l’Italia, che ne dipende per circa il 5% del suo fabbisogno. Non si tratta di una percentuale molto elevata, ma comunque al momento essa risulta insostituibile, anche perché destinata ad aree fra le più fortemente industrializzate del nostro Paese.
Sin qui dal punto di vista strategico ed economico: esiste però un altro elemento di valutazione che rende il Niger particolarmente importante per l’Europa tutta, ma in particolare per noi italiani. Il Paese è infatti un vero e proprio crocevia delle migrazioni, soprattutto quelle che provengono da tutto il Golfo di Guinea, nonché dalla parte sud del continente. Si tratta di una condizione che ci ha portato, e ben più di una volta, a stringere con il Niger accordi bilaterali in materia di migrazioni – ovviamente mirati al contenimento dei flussi – e che ci ha indotti ad inviare in loco un nostro contingente di truppe che ha raggiunto con il tempo una consistenza di circa 300 uomini. La decisione sull’invio del reparto, fortemente ostacolata dal governo di Parigi, che avrebbe voluto che i nostri militari fossero inseriti nell’operazione francese Barkhane, essenzialmente mirata alla sicurezza, e posti quindi alle dipendenze dei transalpini, ci ha portati così alla fine da un lato a stringere un accordo bilaterale con il governo nigerino e, dall’altro, ad appoggiarci al più numeroso e attrezzato contingente americano (circa 1.300 uomini) operante anch’esso nel Paese. Alla luce di quanto sta succedendo attualmente, il nostro rifiuto di inserirci nel quadro dell’azione francese appare ora come una scelta estremamente opportuna, che tra l’altro ha già dato i suoi primi risultati favorevoli nei giorni scorsi, allorché lo sgombero dei nostri connazionali indotti dai torbidi in atto a lasciare il Paese è avvenuto senza alcuna difficoltà e in un quadro di piena collaborazione con le forze armate locali. Non è affatto detto, comunque, che questo clima di fattiva collaborazione sia destinato a durare a tempo indefinito. L’Unione Europea sostiene infatti la decisione della ECOWAS, l’Organizzazione Economica dell’Africa Occidentale, che ha intimato agli autori del colpo di Stato militare in atto di rientrare nei ranghi permettendo il pronto ripristino di una democrazia che stava per essere cancellata – come tra l’altro già avvenuto di recente in altri Paesi africani un tempo di influenza francese. Nel caso di un rifiuto da parte dei rivoltosi, l’ECOWAS, forte di una decisione di alcuni anni fa dell’Unione Africana che delega alle sue organizzazioni regionali la soluzione di crisi locali, entrerebbe nel Paese con reparti armati, forniti soprattutto dalla Nigeria – il colosso dell’Africa occidentale – per riportare l’ordine nell’area. Come membro dell’Unione Europea anche l’Italia, quindi, è già in questo momento decisamente schierata contro il golpe, cosa tra l’altro più che naturale visto che dietro di esso si intravede la grande ombra della Russia, che agisce per il tramite della Wagner, il suo braccio armato tanto ufficioso quanto purtroppo efficace.
Al di là di tutte le rassicurazioni fornite con faciloneria forse un po’ troppo estiva dal nostro governo, esiste quindi una concreta possibilità che in Niger si vada ad uno scontro che rischierebbe di coinvolgere, per fortuna più indirettamente che direttamente, il nostro contingente in loco. Di chi è la colpa? In primo luogo, certamente di un Occidente che da troppo tempo sta trascurando l’Africa ed evitando di dedicarvi tutte le energie e le risorse che la situazione richiederebbe. Per rendersene conto basta da un lato vedere come l’interesse della NATO si concentri da circa trent’anni esclusivamente sui suoi confini di Nord-Est, mentre il Sud e in particolare il Mediterraneo, che dell’Africa è la grande porta, sono del tutto dimenticati. Indicativo in tale ambito risulta il fatto che il Comando Militare per l’Africa del più grande membro dell’Alleanza abbia sede a Stoccarda, in Germania, e non in un Paese africano. Dall’altro lato, è altresì indicativo il ridottissimo numero delle iniziative adottate dall’Unione Europea per coinvolgere l’immenso mondo africano. In numero ridotto e per di più decisamente modeste, al punto tale che persino le limitate iniziative avviate di recente dall’Italia possono apparire per confronto di rilievo. In secondo luogo, vi è da segnalare un comportamento francese tanto beceramente nazionalistico per quel che riguarda l’Africa un tempo chiamata francofona da risultare in pratica suicida. Un’apertura della zona all’influsso europeo a tempo debito, vale a dire nel corso degli ultimi dieci anni, avrebbe infatti probabilmente salvato la democrazia nell’intera sconfinata area saheliana, creando tra l’altro un clima di forti interessi convergenti tra gli Stati locali e i membri dell’Unione. Parigi non ha però ricercato questa apertura, la ha anzi avversata, continuando in quella politica “franco-française” che potrà forse soddisfare ancora “Monsieur François moyen”, e quindi portare voti alle elezioni, ma che conduce solamente al suicidio allorché si tratta di giocare delle carte in ambito internazionale. Che cosa si può fare adesso? La strada principale è forse quella di sostenere l’ECOWAS con tutto il peso che un appoggio europeo può conferire alla sua azione. Al di là di ciò incombe però la necessità indilazionabile di varare quanto prima una politica che tenga conto di come – anche se fino ad ora soltanto pochi se ne sono accorti – nei prossimi decenni la vita e la sopravvivenza dell’Africa e dell’Europa risultino strettamente collegate.