Recensione a: Mariantonietta Colimberti (a cura di), Nino Andreatta. Ricordi, analisi, documenti inediti a 25 anni dal suo silenzio, «AREL la rivista», 2-3/2024, pp. 464, 12 euro (scheda rivista)
Scritto da Giulio Pignatti
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A un quarto di secolo dal malore che colpì Beniamino Andreatta nel corso di una seduta parlamentare notturna (era il 15 dicembre 1999 e alla Camera si lavorava al bilancio), l’AREL – Agenzia di Ricerche e Legislazione tributa al suo fondatore, una delle maggiori figure politiche dell’Italia repubblicana, un numero speciale della sua rivista. Nino Andreatta. Ricordi, analisi, documenti inediti a 25 anni dal suo silenzio («AREL la rivista», 2-3/2024) costituisce un ricco lavoro, curato dalla direttrice della rivista e stretta collaboratrice di Andreatta, Mariantonietta Colimberti, intorno alla figura del politico democristiano (poi PPI), più volte ministro, accademico ed economista tra i più innovativi e influenti del suo tempo.
Ad Andreatta ha sempre dato del “Lei” e non ha mai smesso di chiamarlo “Professore”, neanche quando, diventato presidente del Consiglio, lo volle come suo ministro della Difesa. Ad aprire il numero della rivista è un’intervista a Romano Prodi, che testimonia di uno scambio intellettuale e personale mai interrotto, a partire dal primo incontro all’Università Cattolica di Milano nel 1958 (dove il futuro presidente della Commissione Europea era studente). E che ebbe come frutto più significativo per la vita politica italiana l’invenzione dell’Ulivo a metà anni Novanta, coalizione sorta dalle ceneri della Prima Repubblica con l’ambizione di riunire le forze del centro-sinistra in risposta all’ascesa di Silvio Berlusconi. Caduto il Muro di Berlino, l’idea era quella di federare i riformismi, e di coinvolgere il più possibile i cittadini e le energie della società civile – un’idea molto cara ad Andreatta. «La nostra inferiorità mediatica era incolmabile. Fu rovesciata con un lavoro dal basso, quello che penso si debba fare anche oggi, non più col pullman ma con la rete, promuovere una sensibilizzazione analoga», dice Romano Prodi nell’intervista. «Oggi ce n’è ancora più bisogno di allora» (p. 18).
A emergere dai ricordi che omaggiano Andreatta, così come dai testi di archivio recuperati, è innanzitutto la caratura intellettuale, che non mancava di incutere un certo timore e che si tingeva – nelle parole di Prodi – tanto di intransigenza quanto della generosità di chi non rifiutava, anche da ministro, lunghe discussioni e appassionati scambi di opinioni – (era la sera il suo momento ideale). «Uno degli uomini migliori che la vita mi ha permesso di conoscere e frequentare» (p. 24): così il banchiere Giovanni Bazoli, nominato presidente del Banco Ambrosiano in seguito alla sua rifondazione nel 1982, ricorda Nino Andreatta. «Dei protagonisti politici vengono di solito ricordati gli atti compiuti (se e quando hanno lasciato traccia), assai più raramente il pensiero, mentre il significato più importante dell’impegno politico di Andreatta è consistito proprio nell’apporto di idee da lui profuso» (p. 25).
Un rigore morale prima ancora che intellettuale che ha forse la sua espressione più emblematica nella vicenda dello scandalo del Banco Ambrosiano, di cui Andreatta dispose la messa in liquidazione nel 1982, denunciando le responsabilità dello IOR del monsignor Paul Marcinkus e dunque del Vaticano. In quell’occasione non esitò a scontrarsi con i vertici del proprio partito, con le pressioni per evitare la liquidazione e i malumori per la chiamata in causa della Santa Sede, in particolare dopo un intervento in parlamento l’8 ottobre 1982. Nella rivista si racconta di come Andreatta, a inizio agosto, si svincolò da una convocazione da parte della “Trimurti” (Giulio Andreotti, Amintore Fanfani e Flaminio Piccoli) con la scusa di andare a comprare il tabacco per la pipa – soggetto immancabile, quest’ultimo, nelle tante e preziose fotografie di archivio che accompagnano i testi –; invece tornò in via XX Settembre e firmò la liquidazione dell’Ambrosiano. In una lettera a Ciriaco De Mita, allora segretario della DC, del 19 agosto Andreatta denunciava i «bacucchi dell’Ufficio Politico» (p. 172) e si intestava il merito di aver almeno in parte salvato il partito dallo scandalo davanti all’opinione pubblica. Un altro episodio inedito emerge dalle testimonianze raccolte: quando Andreotti in un incontro aveva tentato di persuaderlo a non procedere con la liquidazione del Banco, sostenendo che una cordata fosse pronta a ricapitalizzarlo con oltre un miliardo di dollari, Andreatta rispose: «Una cifra così ce l’ha soltanto la mafia». Andreatta pagherà per il suo rigore: nel governo Fanfani V, nato a dicembre 1982, non figura più tra i ministri (e dovrà aspettare una decina d’anni perché il suo nome torni nelle compagini governative).
Economista keynesiano in origine, convertitosi poi a una linea più rigorista («ma alla fine era un keynesiano» [p. 21], secondo Prodi), nella prima veste Andreatta è stato, prima di entrare in Senato, consigliere di Aldo Moro durante la stagione del “centro-sinistra”, per poi diventare «l’incubo dei colleghi di governo e della Commissione Bilancio» (p. 133) negli anni Ottanta. Quando, da ministro del Tesoro, sancì lo storico divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro con uno scambio di lettere con l’allora governatore (era il 1981) Carlo Azeglio Ciampi. La separazione significò la fine dell’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare automaticamente i titoli di Stato invenduti, garantendo così l’autonomia della politica monetaria rispetto alle esigenze di finanziamento del debito pubblico.
Il racconto della vita di Andreatta, nato a Trento l’11 agosto 1928 e spentosi a Bologna il 26 marzo 2007, sette anni dopo il malore che lo costrinse al silenzio, passa anche attraverso le sue lungimiranti creazioni, frutto di un’immaginazione sempre protesa al futuro, come l’Università della Calabria (con un campus a Rende in stile anglosassone, in un’idea di valorizzazione del Mezzogiorno), l’associazione Prometeia a Bologna (centro studi per le previsioni econometriche all’avanguardia in Italia), la Facoltà di Sociologia a Trento. E soprattutto la costituzione dell’AREL – Agenzia di Ricerche e Legislazione, a Roma nel 1976, insieme a senatori DC appena eletti e provenienti dal mondo delle professioni e dell’accademia. Nell’elaborazione andreattiana della distinzione tra “politica” e “politiche” – distinzione che è anche alla base della Scuola di Politiche, nata nel 2015 da un’idea di Enrico Letta, uno dei frutti più recenti e fortunati dell’AREL –, mirava a portare un rinnovamento profondo in particolare del “partito-Stato” che era la Democrazia Cristiana, sempre più anchilosata nelle dinamiche di corrente. Si prometteva di farlo, nella sua indipendenza, attraverso l’articolazione tra politica e saperi, con l’apertura a una cultura moderna, provenienti in molti casi dai contesti anglosassoni, oltre che dalla migliore cultura cattolica. Si prometteva, nelle parole di Mariantonietta Colimberti, di «incarnare un nuovo modo di fare politica, con l’idea che la competenza sia più importante dell’appartenenza, che la sapienza anche tecnica sia indispensabile per svolgere un lavoro legislativo in modo efficiente e utile al Paese» (p. 329). Col risultato che, negli anni Novanta e con le svolte politiche quale il tentativo di Rocco Buttiglione di “portare in dote” a Berlusconi il PPI, tutta una serie di personalità di primo piano – da Andreatta a Leopoldo Elia, da Rosy Bindi a Sergio Mattarella – finiscono a riunirsi «in Piazza S. Andrea della Valle quanto più Piazza del Gesù diventa impraticabile» (p. 333).
Nel numero speciale della rivista AREL c’è anche posto per «l’Andreatta che non ti aspetti» (p. 229): il giovane docente di Economia politica che nel 1967 contribuisce alla stesura di un Piano Urbanistico Provinciale (PUP) per la Provincia di Trento, di cui era presidente il sodale Bruno Kessler. C’era la consapevolezza di quanto l’urbanistica – ma anche l’architettura e la tutela ambientale e paesaggistica – fosse un mezzo di sviluppo sociale, o addirittura un’«operazione di pedagogia collettiva» (p. 232), tanto più in una terra all’epoca dalla forte emigrazione e nelle cui valli aveva faticato a incunearsi il miracolo economico italiano. L’attenzione per la dimensione abitativa, per il diritto alla casa, così come per la tutela del suolo e la qualità degli spazi pubblici accompagneranno Andreatta in tutta la sua carriera politica e intellettuale, nella consapevolezza di dover coniugare la responsabilità collettiva verso il futuro e il pragmatismo delle decisioni – o, con le sue parole, «da un lato un tempo che abbraccia una solidarietà tra generazioni, che impedisce a una generazione di indebitarsi per trasferire sulle generazioni successive i propri problemi, ad esempio finanziari, dall’altro il senso che la politica viene misurata in una capacità di risposta che deve essere, appunto, in tempi valutabili dalla gente, corrispondenti all’ansia della gente» (p. 254).
Un pragmatismo che non dimentica mai di abbeverarsi alla fonte della responsabilità e degli ideali. È questa la cifra che caratterizza anche la visione della politica internazionale, come testimonia un intervento di grande interesse (riprodotto nella rivista), tenuto all’Università di Bologna da ministro degli Esteri nel luglio 1993: «Va chiarito che parlare di interesse nazionale non significa orientarsi verso strategie geo-politiche unilateralistiche, nazionalistiche, verso giochi a somma zero nei confronti degli altri Paesi, soprattutto limitrofi. Inoltre la politica degli interessi deve intrecciarsi ed armonizzarsi con la politica dei principi e delle responsabilità internazionali» (p. 300). Sull’Europa e sul progetto comunitario Andreatta esprimeva forse le sue posizioni maggiormente all’avanguardia: lo ricorda, tra gli altri, Enrico Letta, che ne tratteggia la figura di protagonista nel passaggio all’euro e al mercato unico europeo: «Grazie a personalità come Andreatta l’Italia si agganciò per sempre all’euro, lasciò la lira e prese la testa delle istituzioni europee attraverso i leader che guidarono la nascita della moneta unica. […] Quell’aggancio definitivo, strutturale e senza ritorno ha modernizzato l’Italia e reso possibile che il Paese, nonostante le tentazioni e le tensioni, non sbandasse e non si facesse prendere dalle pulsioni isolazionistiche e nazionaliste» (p. 32). Ma non si possono non menzionare anche le intuizioni innovative sulla difesa comune europea – «solo una comune difesa europea, prova evidente e concreta di una rinuncia, anche solo parziale, alla sovranità nazionale in un settore che ne è il simbolo stesso, potrebbe determinare lo strappo indispensabile fra il passato individuale e un destino collettivo» (p. 286) – e sull’allargamento verso Est dell’Unione.
Insomma, Nino Andreatta incarnava una visione moderna anche delle sfide globali che iniziavano allora a presentarsi. In un testo scritto alla fine del secolo scorso in vista del nuovo millennio – nuovo millennio a cui egli, drammaticamente, non ha potuto regalare la propria intelligenza –, Andreatta mostra la consapevolezza della necessità di articolare, innanzitutto su un piano istituzionale, i differenti livelli di appartenenza dei cittadini, presi in una contraddizione sempre maggiore tra le spinte universalistiche e transnazionali della globalizzazione e la sentita esigenza di tutelare le specificità e le culture particolari. Contraddizione che per Andreatta poteva essere risolta solo attraverso una cultura della convivenza e uno spirito di solidarietà che lui vedeva, tra l’altro, incarnato nella natura più profonda dell’Italia e degli altri Paesi mediterranei: «Nel terzo Millennio, in altri termini, dovremo nello stesso tempo rispettare, tutelare, promuovere le diverse culture e anche difendere una visione unitaria dell’umanità e dei suoi diritti fondamentali. Solo se saremo capaci di operare su questo duplice terreno potremo sfuggire alla funesta (e spero falsa) profezia dello “scontro di civiltà”» (p. 416). Parole che in quest’epoca di conflitti risuonano ancora con grande peso, a testimonianza di un pensiero, quello di Nino Andreatta, che non cessa di interpellare il presente.