“Noi pochi, noi felici pochi”: la democrazia e le ragioni dell’astensionismo
- 06 Agosto 2023

“Noi pochi, noi felici pochi”: la democrazia e le ragioni dell’astensionismo

Scritto da Francesco Nasi

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Possono essere individuate due lenti attraverso cui studiare la crisi delle democrazie. La prima vede la democrazia come insieme di procedure, e quindi si concentra sulle varie difficoltà che le istituzioni stanno vivendo in termini di tentazioni autoritarie, messa in discussione del principio della divisione dei poteri, contestazione delle elezioni, ecc. La seconda pensa la democrazia come un insieme di valori, e guarda pertanto all’aspetto più sostanziale della vita in uno Stato democratico, come la forza delle associazioni e dei corpi intermedi, l’orizzontalità delle relazioni e le opinioni dei cittadini. Un tema che unisce questi due filoni è quello dell’astensionismo elettorale.

Negli ultimi decenni la partecipazione al voto è infatti diminuita in quasi tutte le democrazie nel mondo occidentale. Come mostra una ricerca condotta dall’IDEA[1], a livello globale l’affluenza alle urne si è costantemente ridotta tra il 1945 e il 2015, con un’accelerazione della tendenza a partire dalla metà degli anni Ottanta, soprattutto in Europa e Oceania. Se la partecipazione media era circa dell’80% nel 1945, nel 2015 si attestava intorno al 66%, senza considerare quindi l’ulteriore diminuzione degli ultimi anni.

L’Italia non fa eccezione. Il livello di partecipazione elettorale è rimasto molto alto (intorno al 90%) fino agli anni Ottanta, per poi diminuire gradualmente e raggiungere il livello più basso durante le elezioni politiche del settembre 2022, quando si è recato alle urne meno dei due terzi (il 63,85%) degli aventi diritto. È importante notare che questi dati sono validi per le elezioni nazionali, ovvero quelle con la maggior affluenza, mentre le elezioni regionali e locali registrano quasi ovunque livelli di partecipazione ancora più bassi. Ne sono un ottimo esempio le elezioni regionali del 2023 in Lombardia e Lazio, avvenute a pochi mesi dalle elezioni politiche, che hanno visto una delle partecipazioni più basse della storia italiana, sotto il 40%.

I teorici della democrazia hanno da sempre sostenuto l’importanza di un’ampia partecipazione ai processi decisionali, non solo per legittimare il sistema ma anche per garantirne un funzionamento ottimale. In quest’ottica, la crescita dell’astensionismo diventa un fenomeno da osservare con attenzione ed emerge la necessità di indagarne le cause.

 

Alle radici dell’astensionismo

Gli studiosi hanno individuato numerosi elementi che possono influenzare la decisione di un individuo di astenersi dalla partecipazione politica, che vede la sua forma più tradizionale nel momento del voto. Una prima spiegazione si lega ai fattori sociodemografici. Il “modello delle risorse” di Verba[2], per esempio, si concentra sul valore delle risorse personali. Variabili quali reddito e istruzione sarebbero pertanto decisive nel determinare le condizioni che spingono una persona a recarsi o meno alle urne. I cittadini con un reddito elevato e un alto livello di istruzione, infatti, tendono a disporre di maggiori risorse a loro disposizione e, in virtù di ciò, sono dotati di più strumenti per partecipare alla vita politica, sia tramite il voto, che mediante donazioni o attività di attivismo politico. Queste ipotesi sono confermate anche dai dati più recenti. Come evidenziato da Dario Tuorto[3], in Europa tra il 2008 e il 2018 la partecipazione elettorale del 20% più povero della popolazione era in media 17 punti percentuali più bassa rispetto al 20% più ricco.

Oltre alle risorse strettamente materiali, anche quelle legate al capitale sociale e culturale giocano un ruolo. In particolare, i soggetti dotati di una maggiore accessibilità alle informazioni politiche e alle reti sociali (perché, per esempio, vivono in centro rispetto che in periferia, o perché vengono da famiglie ben posizionate all’interno del proprio ambiente) tendono a mostrare un maggiore grado di coinvolgimento nella vita politica, rispetto a coloro che invece ne sono sprovvisti.

Gli studiosi hanno dedicato la loro attenzione anche ad alcuni fattori contestuali. Ad esempio, sembra che il tasso di affluenza alle urne sia più alto quando l’elezione precedente non è troppo recente. Inoltre, se aumenta la percezione che la competizione elettorale sia rilevante, è più probabile che gli elettori si recheranno alle urne[4]. In questo senso, un caso da manuale è rappresentato dalle ultime due elezioni regionali in Emilia-Romagna. Nonostante sia considerata una terra di forte partecipazione civica e politica, alle elezioni del 2014 il livello di affluenza si fermò al 37,71%, il più basso di sempre (battuto solo recentemente dalle regionali in Lazio del febbraio 2023, con il 37,2%). Poco più di cinque anni dopo, nel 2020, l’affluenza alle elezioni in Emilia-Romagna tornò però a salire, arrivando al 67,88%. Quali sono le regioni di una differenza così marcata? Si potrebbero ricercare alcune motivazioni nel fatto che quella tornata elettorale fu contrassegnata da una forte mobilitazione politica e mediatica legata all’intervento diretto del segretario della Lega Matteo Salvini e alla nascita del movimento delle Sardine, così come da una maggior possibilità che il centrodestra potesse trionfare in una delle ultime regioni stabilmente in mano al centrosinistra. Tutto ciò contribuì ad aumentare la salienza dell’appuntamento elettorale, mentre nel 2014 gli scandali giudiziari e la mancata competitività contribuirono probabilmente a ridurre il livello dell’affluenza.

Oltre agli elementi strutturali e contingenziali, ci sono poi le attitudini personali. Questo è il focus, ad esempio, del recente The Motivation to Vote. Explaining Electoral Participation di Blais e Daoust[5]. I due autori sostengono che se un cittadino possiede un personale interesse per la politica e un forte senso del dovere civico è molto più probabile che voti rispetto agli altri. Sembra un ragionamento banale, ma porta in realtà alcuni elementi di interesse all’interno della discussione. Questa correlazione è infatti dimostrata a parità di altri variabili più “strutturali” come il reddito, l’età, il genere e il titolo di studio. Ciò significa che non sono soltanto gli aspetti sociodemografici o quelli contingenziali a influenzare il voto, ma anche quelli legati alla percezione personale e ai valori portati avanti dai cittadini. Su questa falsariga, si inserisce anche il lavoro Bali, Robinson e Winder[6], che hanno analizzato cinque motivi psicologici fondamentali per il voto. Hanno scoperto che l’altruismo, il dovere e l’appartenenza sono i motivi più riportati per la partecipazione, mentre l’egoismo gioca un ruolo minore. Gli studi sembrano pertanto evidenziare che il famoso “voto con il portafoglio”, ovvero orientare il proprio voto in base a motivi squisitamente personali e materiali, molto spesso non si verifica. È molto più probabile che un cittadino si rechi alle urne cercando di tutelare una certa idea di interesse nazionale o di bene comune, sia essa spostata più a destra o a sinistra, piuttosto che per difendere un proprio specifico interesse.

Se parliamo di attitudini e opinioni dei cittadini, c’è un altro aspetto da tenere in considerazione, e che può aiutare a fornire una chiave teorica per leggere anche le motivazioni avanzate in precedenza. Alcuni studiosi si sono infatti recentemente concentrati sulla relazione tra la soddisfazione soggettiva di vita e il comportamento politico. Questa relazione è in qualche modo ambigua. Da un lato, si potrebbe sostenere che coloro che sono più felici saranno meno propensi a votare, poiché sono già soddisfatti dello status quo e non avranno incentivi a cambiare. Come ha suggerito Veenhoven[7], la felicità potrebbe portare ad uno “svuotamento della democrazia”. Tuttavia, ricerche più recenti sembrano suggerire che sia vero l’opposto. Negli Stati Uniti[8] coloro che sono più soddisfatti della propria vita sono più propensi a votare e, in generale, a partecipare al processo politico. Questa relazione è valida anche a parità di altre variabili correlate alla felicità, come l’età, il reddito e l’istruzione. Secondo un’analisi condotta sui dati del World Values Survey[9], quando si controlla per queste variabili, le persone molto felici hanno il 9,3% in più di probabilità di essere interessate alla politica rispetto a coloro che non sono affatto felici. I dati confermano numeri simili anche per l’Europa: più si è infelici, più si è insoddisfatti di come stanno andando le cose per ciò che concerne ambiti come la democrazia, l’educazione, l’economia e la sanità, meno è probabile che ci si rechi alle urne.

 

L’impotenza politica e le sue conseguenze

Alla luce dei fattori sociodemografici, contingenziali e personali, diventa più facile trovare chiavi di lettura per comprendere la crescita dell’astensionismo negli ultimi anni. Per ciò che concerne le variabili sociodemografiche, l’aumento delle disuguaglianze economiche e la stagnazione (se non addirittura l’abbassamento, come nel caso dell’Italia) dei redditi della classe medio-bassa può aver spinto molte persone ad allontanarsi ulteriormente dalla partecipazione politica. Sugli aspetti contingenziali, in molti Paesi la partecipazione al voto rimane ostacolata da alcuni passaggi burocratici (si pensi alla registrazione obbligatoria negli Stati Uniti, o alla mancata possibilità di voto per i fuorisede in Italia). Inoltre, la salienza degli appuntamenti elettorali sembra gradualmente diminuire con l’avanzare della sensazione che “nulla cambi davvero”, indipendentemente da quale formazione politica sia al governo (un aspetto su cui torneremo più avanti). Infine, sul lato degli aspetti personali e psicologici, il susseguirsi di una crisi (economica, energetica, pandemica) dopo l’altra, la consapevolezza che il futuro sarà probabilmente più difficile di quanto lo è stato il passato, la mancanza di grandi visioni per affrontare sfide epocali come il cambiamento climatico o la trasformazione digitale portano probabilmente ad aumentare quello stato di insoddisfazione che, come abbiamo visto, non si lega più ad una volontà politica di cambiare le cose, ma piuttosto alla rassegnazione e alla delusione.

Se dovessimo cercare un filo rosso che leghi tutti questi aspetti sarebbe probabilmente la percezione della futilità del voto. Ciò che tiene insieme aspetti sociodemografici, contingenziali e personali è la sensazione che nulla possa davvero cambiare. È l’idea di impotenza politica (political powerlessness, in inglese) che la letteratura politologica fa rientrare nel concetto di “alienazione politica”[10]. Si tratta in sostanza di una più o meno percepita incapacità di agire, di contare, di essere in grado di influenzare il corso degli eventi dal punto di vista politico. Per fare un esempio pratico, un sondaggio condotto in Francia dopo il primo turno delle elezioni presidenziali del 2022 ha chiesto ai cittadini che si erano astenuti il perché della loro scelta. Il 30% ha risposto dicendo che “sembra che vengano perseguite le stesse politiche indipendentemente da chi è al potere”. Il 12% ha affermato invece che “il voto nell’elezione presidenziale è semplicemente inutile”. Questi sono esempi lampanti di una diffusa percezione di impotenza politica. Si trattava, tra l’altro, di elezioni con un tasso di partecipazione relativamente alto (73,69%), mentre le elezioni legislative tenutesi soltanto un paio di mesi dopo avrebbero registrato un numero di votanti inferiore alla metà degli aventi diritto (il 47,5%).

Le persone più politicamente alienate tendono ad essere coloro che, per una serie di ragioni, vivono già una situazione di difficoltà. Questo è un punto rilevante non solo da una prospettiva di giustizia sociale, ma anche perché mette in discussione il senso ultimo per cui si vive in un Paese democratico. L’esclusione (fattuale e non formale) di sempre più cittadini dalla competizione politica interroga nel profondo la democrazia, che nasce con l’obiettivo di dare a tutti la possibilità di partecipare al gioco del potere. La vita politica nelle democrazie rappresentative tende a diventare un affare ad uso e consumo di una sempre più sparuta minoranza, fatta tendenzialmente di cittadini privilegiati con i mezzi per potersi interessare alla cosa pubblica, dedicando tempo ed energie a qualcosa che non riguarda il proprio sostentamento. Si rischia così di trasformare la democrazia in una forma di oligarchia mascherata, in cui a tenere le redini della partita sono sempre “pochi, felici pochi”[11]. Pochi, perché sempre meno rispetto al totale della popolazione. Felici, perché in media sono quelli con più mezzi, economicamente più abbienti, che più hanno studiato e che più sono soddisfatti dallo stato presente delle cose, e che quindi tenderanno a mantenere le cose così come sono, in un pericoloso circolo vizioso. In questo modo proprio le persone che nella teoria dovrebbero trarre vantaggio dalla democrazia, ovvero coloro che sono scontenti e “senza potere” (sia esso espresso in termini di capitale economico, culturale o sociale), finiscono per essere sistematicamente sottorappresentati.

In passato, l’insoddisfazione della cittadinanza era riuscita a trovare un’espressione politica grazie ad intermediari come sindacati e partiti politici, che avevano fatto da catena di trasmissione e aiutato ad aggregare interessi altrimenti dispersi, incanalando e politicizzando lo scontento. Oggi questo meccanismo sembra essersi rotto, sia per responsabilità degli stessi partiti che per tendenze storiche di carattere più complessivo, come la riduzione della politica a oggetto di consumo e la crisi delle identità collettive alimentata da uno Zeitgeist postmoderno. In questo modo, sembra incrinarsi una delle caratteristiche salienti della democrazia: dare la possibilità alle persone di migliorare la società (e la loro vita) attraverso la politica e le istituzioni.

C’è anche, però, chi non vede con preoccupazione l’aumento dell’astensionismo. Il filosofo americano Jason Brennan, autore di Contro la democrazia[12], suggerisce che dovremmo salutare con entusiasmo la diminuzione della partecipazione politica. Per Brennan la partecipazione non è un valore di per sé, come sono invece soliti sostenere i teorici della democrazia. L’unico valore della politica sta nel garantire il miglior governo possibile, non nel coinvolgimento o nel vero e proprio empowerment di persone e comunità. Per questo bisognerebbe favorire un sistema epistocratico, il cosiddetto “governo dei competenti”, in cui il corpo elettorale è ridotto sulla base di accertate prove di competenza sui temi oggetto di policy. È chiaro che adottare questa prospettiva significa mettere in discussione i fondamenti valoriali su cui poggia l’intero edificio democratico. Se però si condividono gli assunti alla base della democrazia rappresentativa, la crescita dell’astensionismo elettorale sembra allora configurarsi come un problema di primaria importanza.

 

Quanto può durare una democrazia senza partecipazione?

Nonostante i livelli sempre più elevati di astensionismo e l’importanza riconosciuta del tema, sembra che la questione stia ottenendo poca attenzione da parte delle élite politiche e intellettuali. Forse perché mancano gli strumenti (di analisi e di azione) per provare a invertire una tendenza che, al di là della contingenza di un appuntamento elettorale particolarmente rilevante, sembra molto difficile da contrastare. In fondo, si tratta di rispondere a due domande estremamente complesse: quali elementi impediscono alle democrazie di operare con efficacia? Come coinvolgere le persone in processi di partecipazione, facendo sentire loro che possono veramente contare?

Sul lato degli aspetti sociodemografici e contingenziali alcune soluzioni possono essere facilmente individuate (anche se, forse, difficilmente perseguite) in una crescita economica che vada a vantaggio soprattutto di chi è rimasto indietro negli ultimi decenni, nell’aumento degli investimenti in istruzione, in una legislazione che faciliti il più possibile le operazioni di voto e in nuovi progetti di coinvolgimento della cittadinanza nei processi decisionali. Per quanto riguarda le attitudini e i valori personali, invece, sembra più complesso trovare strategie efficaci. Si tratta, infatti, di cambiare quello che ormai sembra essersi consolidato come un senso comune di avversità rispetto alla politica e le sue istituzioni, che ha radici profonde nei mutamenti culturali della contemporaneità. L’azione degli attori interessati (associazioni, partiti, sindacati, istituzioni, semplici cittadini) potrebbe non essere sufficiente a cambiare una struttura mediatica, informativa e sociale che ad una politica intesa come costruzione di comunità e agire collettivo tende a sostituire la politica come distante oggetto di consumo, su cui i cittadini possono discutere ma non realmente intervenire.

Dall’altro canto, una progressiva diminuzione della partecipazione elettorale potrebbe presentare scenari ambigui, ma non necessariamente negativi. Se è vero che l’aspetto più sostanziale della democrazia viene messo in discussione dall’aumento dell’astensione, è altresì vero che tanti elementi formali e procedurali potrebbero invece continuare a funzionare. La democrazia è composta infatti di molte “membra” (per rifarsi alla metafora paolina) che vanno oltre il momento del voto (divisione dei poteri, tutela dei diritti, libertà di espressione e di associazione). Inoltre, come sostengono elitisti come Mosca o Michels, le democrazie hanno sempre avuto una dimensione elitaria nella forma sostanziale della gestione del potere. Pertanto, potrebbe contare relativamente poco che il più ampio numero possibile di persone si rechi alle urne, quanto che questo diritto rimanga garantito.

Si potrebbe prospettare, quindi, uno scenario in cui le democrazie si abitueranno a bassi tassi di partecipazione, entrando definitivamente in una società post-massificata e iper-targettizzata, almeno per ciò che concerne la sfera politica. La cittadinanza continuerebbe ad essere per lo più distaccata e disillusa, e allo stesso tempo incapace di politicizzarsi (o essere politicizzata) e quindi di cambiare le cose. Almeno finché non emergerà una vera alternativa. E forse è proprio questo ciò che oggi permette a tante democrazie di rimanere tali: la mancanza di una strada credibile e percorribile rispetto alla sicurezza dello status quo. In questo scenario, il quesito da porsi diventerebbe: quanto può durare una democrazia senza partecipazione?


[1] Abdurashid Solijonov, Vote Turnout Trends around the World, International Institute for Democracy and Electoral Assistance, 2016.

[2] Henry E. Brady, Sidney Verba e Kay Lehman Schlozman, Beyond SES: A Resource Model of Political Participation, «American Political Science Review», 89(2), (1995), pp. 271-294.

[3] Dario Tuorto, I ceti popolari tra protesta e non voto, «rivistailmulino.it», 27 ottobre 2022.

[4] André Blais e Agnieszka Dobrzynska, Turnout in Electoral Democracies, «European Journal of Political Research», 33: 239–61; 13 (1998); Mark N. Franklin, “Voter Turnout and the Dynamics of Electoral Competition in Established Democracies since 1945”, Cambridge University Press, Cambridge 2004.

[5] André Blais e Jean-François Daoust, The Motivation to Vote. Explaining Electoral Participation, UBC Press, Vancouver 2020.

[6] Valentina A. Bali, Lindon J. Robison e Richard Winder, What Motivates People to Vote? The Role of Selfishness, Duty, and Social Motives When Voting; SAGE Open, ottobre-dicembre 2020, pp. 1-18.

[7] Ruut Veenhoven, The utility of Happiness, «Social indicators Research», 20(4), (2018), pp. 333-354.

[8] Patrick Flavin e Michael J. Keane, Life Satisfaction and Political Participation: Evidence from the United States, «Journal of Happiness Studies: An Interdisciplinary Forum on Subjective Well-Being», 13(1), (2012), pp. 63-78.

[9] George Ward, Happiness and Voting Behavior, in World Happiness Report, 20 marzo 2019.

[10] Ada W. Finifter, Dimensions of Political Alienation, «The American Political Science Review», Vol. 64, No. 2, (1970), pp. 389-410.

[11] Il riferimento è al celebre discorso di San Crispino dell’Enrico V di William Shakespeare.

[12] Jason Brennan, Contro la democrazia, Luiss University Press, Roma 2018.

Scritto da
Francesco Nasi

Dottorando in Sociologia della cultura e dei processi comunicativi all’Università di Bologna. Ha lavorato presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il Centro Studi di Politica Internazionale (CESPI). I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’impatto politico e sociale delle nuove tecnologie, in particolare per quanto riguarda l’IA e l’innovazione democratica.

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