Scritto da Nicola Dessì
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Questo articolo compare in seguito ad un altro intervento sul tema delle leggi elettorali dal titolo “Perchè nessuno parla del proporzionale?“
I pochi coraggiosi che si stanno appassionando alla discussione parlamentare sulla legge elettorale sanno bene che il principale oggetto della contesa riguarda il metodo di individuazione dei candidati eletti: in sostanza, la scelta fra preferenze, collegi uninominali e liste bloccate. In compenso, si tende a trascurare l’altro, fondamentale, elemento della legislazione elettorale: il metodo di assegnazione dei seggi. Gli oppositori del disegno di legge governativo non ne contestano tanto la natura maggioritaria, quanto la previsione dei capilista “bloccati” – cioè, sicuri dell’elezione. Il rischio è che si perda di vista la principale caratteristica del disegno di legge: trasformare una maggioranza relativa di voti in una maggioranza assoluta di seggi. Questo aspetto accomuna il maggioritario “classico” – quello di collegio, a turno unico o a doppio turno – e le leggi che assegnano un premio di maggioranza alla lista vincitrice.
Non è chiaro se questo dipenda da un’implicita accettazione del metodo maggioritario da parte della minoranza del PD – il che, del resto, sarebbe coerente con le posizioni ufficiali che il PD a guida Bersani aveva assunto nel 2011 – o se, invece, si stia evitando di scegliere fra maggioritario e proporzionale, considerando i costi e i benefici dell’uno e dell’altro metodo.
Questo breve articolo non è finalizzato a sostenere le ragioni di uno dei due macro-sistemi elettorali. Si possono assumere alcuni punti fermi: è innegabile che il proporzionale sia il metodo migliore per rappresentare tutti gli interessi e le sensibilità; tuttavia, i sostenitori del maggioritario dispongono di un argomento molto solido, quando agitano lo spettro delle “larghe intese” – con tutto ciò che ne consegue – come conseguenza dei sistemi proporzionali. Ciò premesso, chi scrive non ha gli strumenti per fornire una risposta: la scelta fra maggioritario e proporzionale dipende – oltre che da una scelta di valore tutta soggettiva – da una valutazione di ordine politologico.
L’obiettivo è verificare l’esistenza di istituti giuridici che consentano la compatibilità del metodo maggioritario con la Costituzione italiana. Com’è noto, nelle Repubbliche parlamentari come l’Italia, l’esistenza del Governo dipende dalle decisioni del Parlamento, che ha il potere di sfiduciarlo; le leggi maggioritarie, agevolando la formazione di una maggioranza monocolore, riducono le probabilità che le votazioni parlamentari abbiano un esito sfavorevole all’esecutivo. La possibile conseguenza è un’attenuazione della separazione fra i due poteri.
Una semplice comparazione fra gli ordinamenti stranieri consente di individuare almeno una democrazia parlamentare in cui vige una legge elettorale maggioritaria: la Gran Bretagna. Non una democrazia parlamentare qualsiasi, ma la più longeva democrazia parlamentare in Europa. Questo è sufficiente per affermare che il metodo maggioritario può essere adottato anche nella Repubblica parlamentare italiana?
La risposta più istintiva a questa domanda è l’impossibilità di esportare determinati istituti giuridici al di fuori di un ordinamento e del contesto che lo caratterizza. È una risposta pertinente, nonostante – talvolta – dia l’impressione di essere influenzata da un retropensiero: l’Italia è una democrazia troppo fragile per potersi permettere ciò che esiste nelle democrazie più mature. Ciò detto, è indubbio – e affermarlo è persino banale – che il sistema giuridico di una nazione è strettamente connesso con il suo sistema politico e culturale. Nondimeno, il “contesto” in cui vige una norma giuridica è formato anche, e innanzitutto, dagli altri istituti presenti nello stesso ordinamento.
Anche prescindendo dalle differenze sociali e culturali del contesto di riferimento, la stessa operazione di comparazione fra ordinamenti giuridici è operazione complessa. Tanto più se riguarda il Regno Unito che, per più di un aspetto, è un unicum in Occidente. È noto che in quel Paese non esiste una Costituzione scritta; il funzionamento delle istituzioni è disciplinato da leggi ordinarie e da un insieme di consuetudini.
Fatta quest’ulteriore precisazione, resta fermo che la democrazia nel Regno Unito continua a qualificarsi come “parlamentare” nonostante la legge maggioritaria rafforzi sensibilmente il Governo. Questo dipende solo da fattori non strettamente istituzionali, oppure – anche – dall’esistenza di organi e istituti in grado di preservare la centralità del Parlamento, nonché di riequilibrare un assetto favorevole all’esecutivo?
Chi scrive propende per la seconda ipotesi.
Innanzitutto, il Parlamento britannico – diversamente da quello italiano – non elegge il Capo dello Stato. Di per sé, la monarchia, cioè l’ereditarietà di una pubblica carica, non è garanzia di maggiore democraticità. Nondimeno, la forma di Stato monarchica fa sì che il Capo dello Stato non sia espressione della maggioranza parlamentare, e possa quindi rappresentare un contrappeso a essa e al Governo da essa sostenuto. Si badi che la Corona del Regno Unito non è del tutto priva di poteri: nomina il Primo ministro e, secondo la dottrina, può revocarlo qualora questi metta in pericolo l’ordine democratico; inoltre, può rifiutare di promulgare le leggi, sebbene questa eventualità non avvenga dal 1707.
Corona a parte, il vero elemento che valorizza il Parlamento britannico, compensando l’esistenza di una larga maggioranza, è il ruolo dell’opposizione. Il suo leader è una figura espressamente riconosciuta dal Ministers of the Crown Act del 1937, che lo rende un organo necessario al pari del Primo ministro; è il leader dell’opposizione che, utilizzando l’istituto della parlamentary question, interroga il Primo ministro sulle questioni politiche di maggiore rilevanza. Infine, bisogna considerare che il maggioritario di collegio costringe il singolo membro del Parlamento a misurarsi con gli elettori della propria constituency; ne consegue che l’eventuale rielezione del parlamentare non dipende solo dal leader del suo partito, ma anche dal gradimento popolare del suo operato: ciò rafforza la sua indipendenza rispetto al suo leader, anche nel caso in cui questi ricopre la carica di Primo ministro.
In conclusione: il caso britannico autorizza a ritenere che la legge elettorale maggioritaria sia compatibile con la democrazia parlamentare – e, dunque, con la Costituzione italiana del 1948 – con l’unica condizione di adottare determinati istituti giuridici?
Di per sé, la sola ipotesi di trasportare in Italia le caratteristiche dell’ordinamento giuridico del Regno Unito – un ordinamento diverso dal nostro, per giunta fondato in larga parte sul diritto consuetudinario – sarebbe semplicemente folle. Folle e, per certi versi, insufficiente. La vita parlamentare britannica si caratterizza per uno stringente controllo sull’attività dell’esecutivo, per mezzo di istituti come il c.d. question time; sebbene sia presente anche nei regolamenti parlamentari italiani, è evidente che esso non ha assunto, nella nostra prassi politica, lo stesso significato: lo dimostra il frequente spettacolo delle aule parlamentari semivuote mentre i parlamentari italiani rivolgono domande ai membri del Governo.
Tuttavia, non è così insensato trarre dalla lezione britannica alcuni insegnamenti generali. L’elemento rilevante è l’esistenza di una democrazia parlamentare in cui la legge elettorale è maggioritaria, ma il Capo dello Stato non è espressione della maggioranza parlamentare; l’opposizione e il suo leader sono istituzionalizzati – dalle norme giuridiche e dalla consuetudine – nel senso di garantire il loro potere di operare in Parlamento e di controllare il Governo; il metodo di individuazione dei candidati stabilito dalla legge elettorale aumenta l’indipendenza dei membri del Parlamento, compresi quelli della maggioranza, riducendo il rischio che essi agiscano sotto la condizione di un vincolo di mandato imposto dal loro partito.
Non è impossibile adattare il nostro ordinamento allo scopo di raggiungere questi obiettivi. Del resto, anche in assenza di una legge elettorale maggioritaria, la previsione costituzionale di un quorum maggiore per l’elezione del Capo dello Stato e degli altri organi di garanzia – nonché per la modifica dei regolamenti parlamentari – avrebbe il positivo effetto di rafforzare i partiti di opposizione e, di conseguenza, il ruolo del Parlamento. Analogo beneficio deriverebbe dall’adozione di una legge costituzionale che assicuri certezza nell’esame delle proposte di legge avanzate dall’opposizione. Idem per lo stesso riconoscimento giuridico del capo dell’opposizione, operazione che – tutto sommato – non sarebbe impossibile, per quanto si tratti di un istituto peculiare dell’ordinamento britannico.
Per concludere, l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria, in astratto, non prelude ad una trasformazione occulta della forma di governo, né – tantomeno – a una svolta autoritaria. Nondimeno, può alterare l’equilibrio fra i poteri, se non è inquadrata in una più ampia riforma delle istituzioni volta ad accrescere i poteri del Parlamento. Purtroppo, l’attuale disegno di legge di revisione costituzionale non va in questa direzione, se si esclude il meritorio emendamento – approvato dalla Camera – con il quale si alza ai tre quinti dell’assemblea il quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica nel quarto, quinto e sesto scrutinio: fermo restando che, a partire dal settimo scrutinio, il disegno di legge si limita a richiedere la maggioranza assoluta dell’assemblea.
Infine, scegliere il sistema maggioritario, e dunque un sistema che consolida il partito di maggioranza, implica necessariamente l’esigenza di preservare l’indipendenza dei suoi rappresentanti in Parlamento. E, sotto questo profilo, l’esistenza di parlamentari “nominati” comporta un rischio reale.
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