Recensione a: AA.VV., Non si può più dire niente? 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture, UTET, Milano 2022, pp. 256, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Chiara Visentin
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Recensendo un libro sul “politicamente corretto” come Non si può più dire niente?, edito per i tipi di UTET, è d’obbligo – anche se quasi superfluo per via della sua scontatezza – esordire constatando la polarizzazione talora eccessiva, avvelenata, spasmodica nel dibattito intorno a questi temi. Le reazioni viscerali sembrano precedere il ragionamento che si configura, allora, come loro più o meno raffinata razionalizzazione, o giustificazione a posteriori. Sorge dunque spontanea la domanda: siamo condannati in partenza a un dialogo tra sordi, l’unico criterio di soluzione del quale sarebbe la forza di imporre la propria versione come fait accompli? O può il gioco delle argomentazioni e controargomentazioni condurre a una chiarezza foriera se non di riconciliazione, almeno di una maggiore pacatezza, apertura, capacità di compromesso e confronto costruttivo? Questo volume cerca di «mettere gli argomenti sul tavolo» (p. 10) e, si potrebbe aggiungere, di farlo in condizioni ideali o, quantomeno, meno nefaste rispetto al clamore e le pressioni dei media di massa vecchi e nuovi, scommettendo sulla capacità dello «scarto mediatico» (p. 10), con il maggiore spazio per l’articolazione e la riflessione che il libro per sua natura tende a offrire sia a chi scrive che a chi legge, di recuperare in qualche misura lo spirito di una «sfera pubblica ideale»[1].
Lo fa riunendo i contributi di 14 figure di spicco nel panorama culturale e accademico italiano che articolano i propri punti di vista, coprendo un ampio spettro sia per posizioni prese, sia per provenienze e percorsi biografici e professionali. In una scelta molto interessante che presenta vantaggi e svantaggi, questa varietà, che è uno dei meriti principali del volume, è offerta ai lettori allo stato grezzo, senza integrazione o sintesi, come successione di capitoli che si snodano sulla base dell’accidente dell’ordine alfabetico. Il lavoro di organizzazione ricade quasi interamente sulle spalle di chi legge, libero di sviluppare i collegamenti e le implicazioni che preferisce, ma anche, potenzialmente, un po’ confuso da una giungla di immagini e stili, impliciti rimandi, affinità e opposizioni su fronti molteplici, in cui decifrare una logica o identificare un proprio percorso di senso può risultare non facile. Per questo, prima di procedere con una valutazione d’insieme del contributo del libro, si traccerà in breve un possibile percorso di lettura che tocchi e ordini in maniera più lineare alcuni dei principali temi, posizioni e argomenti.
Per individuare alcuni assi portanti trasversali del dibattito, può essere utile separare tre fondamentali tipi di argomentazione, sulla base delle loro finalità. Il primo[2] tipo corrisponde (1) ai tentativi di spiegare il fenomeno, assunto come un dato, sulla base di determinati fattori “oggettivi”. Gli altri due tipi corrispondono da un lato (2) al mostrare il valore dei recenti sviluppi presi di mira con espressioni come “politicamente corretto” e “cancel culture”, o screditarne o smascherarne gli avversari; dall’altro, (3) all’esprimere critiche più o meno radicali e totalizzanti di tali sviluppi e i programmi e le teorie a cui si richiamano. Per evitare alcuni fraintendimenti che queste categorie potrebbero generare è fondamentale ricordare che, sebbene una lunga tradizione positivistica ci abbia abituati a considerare lo sguardo oggettivante come il più adatto a raggiungere conclusioni esatte, questo mito è stato sfatato in maniera più che convincente da innumerevoli teorici, specialmente per quanto concerne le realtà umane e sociali, e dunque è meglio inteso come una strategia retorica tra le altre e, al pari delle altre, non scevra di implicazioni politico-valoriali particolari. Analogamente, lo schema non deve indurre a credere che gli argomenti più “schierati” manchino di rigore; al contrario, essi spesso si basano su analisi storiche e teoriche di alto livello e qualità, a cui l’essere guidate da intenti politici – nel senso migliore del termine – più espliciti non solo non toglie, ma può aggiungere forza, chiarezza e valore. Ad ogni modo, è evidente anche che la grande maggioranza dei ragionamenti concreti, inclusi quelli contenuti in questo volume, non possono attenersi solo a uno di questi tipi ma sono costruiti con varie combinazioni di essi. Tuttavia, è spesso possibile identificare un contributo prominente e classificarlo secondo questo schema.
Per fare un esempio, quasi tutti i contributi, nonostante le loro divergenze anche radicali, sembrano concordare sul fatto che c’è almeno un fattore esterno al merito del dibattito che gioca un ruolo cruciale nel conferirgli quelle caratteristiche, universalmente deprecate, con cui anche questa recensione ha esordito: i media, e in particolare i nuovi media e i social media. I social, o almeno quelli oggi prevalenti, sembrano essere costitutivamente inclini a favorire la polarizzazione, la semplificazione, lo scandalo, la decontestualizzazione. Per alcuni, questo aspetto di determinazione del dibattito da parte delle condizioni tecnologiche e le dinamiche di psicologia delle masse che mettono in moto rappresenta la chiave della questione: è questo il caso del conduttore radiofonico e televisivo Matteo Bordone, secondo cui “shitstorm” o ondate di indignazione massiccia online di fronte a certe affermazioni o gesti giudicati offensivi non sono in fondo altro che «la risposta naturale a un difetto di progettazione dello spazio dei social network», che, come tale, «[n]on va pres[a] troppo sul serio» (p. 19).
Anche le logiche interne di altri media e tipi di comunicazione pubblica sono indagate nel loro plasmare il perimetro di quel che si può e che non si può (più) dire. La sceneggiatrice e autrice televisiva Laura Tonini, ad esempio, analizza il mondo della televisione, suggerendo come le diverse esigenze e posizioni di mercato di grandi piattaforme di streaming, reti private e reti pubbliche diano luogo a diverse configurazioni di incentivi e limitazioni, con esiti molto diversi sulle scelte comunicative in merito al “politicamente corretto” e più in generale sulla capacità di proporre contenuti di critica sociale. Lo scrittore, fumettista, traduttore e produttore Giulio D’Antona, invece, si concentra sul mondo del teatro comico, notando come le resistenze di alcuni professionisti del settore ad adattarsi ai mutati gusti del pubblico contrastino con i dettami della comicità stessa. Un tentativo più ambizioso di integrare il panorama mediale in un più ampio affresco sociologico delle dinamiche istituzionali e socioculturali che determinano il carattere e la traiettoria delle tensioni sul politicamente corretto è contenuto nel contributo del saggista Raffaele Alberto Ventura, secondo cui «[q]uesto processo di mutamento appare inevitabile e irreversibile, stanti le condizioni sociali e tecnologiche che si sono venute a creare» (p. 211). Nel contesto di una «lotta planetaria del riconoscimento», e di dinamiche di circolazione e sostituzione delle élite, in cui il veloce mutamento socio-tecnologico crea situazioni inedite e foriere di anomia e conflittualità esplosive, il “politicamente corretto” è lo strumento più adatto a re-istituire una forma di mitigazione o mantenimento sotto controllo delle tensioni necessaria per la convivenza civile – «non c’è alternativa» (p. 218) –, con la riconfigurazione delle distribuzioni di capitale culturale e delle strategie di distinzione[3] e le nuove esclusioni che ne conseguono, e il risultato che la lotta politica si polarizza intorno alla sua accettazione o al suo rifiuto.
Negli scenari appena delineati il “politicamente corretto” appare quindi come una reazione di fronte a condizioni date, che si tratti di un riflesso psicologico o dell’esito di un calcolo utilitarista. I contenuti ideologici passano in qualche modo in secondo piano rispetto alla rappresentazione di equilibri di forza “oggettivi”. Tali contenuti ideologici, tuttavia, riacquistano il centro della scena negli argomenti di tipo critico e in quelli di tipo favorevole ai cambiamenti in oggetto.
Gli argomenti del secondo tipo, favorevoli ai cambiamenti, partono da una critica della locuzione stessa di “politicamente corretto”, che, lungi dall’essere la neutrale designazione di un «fatto sociale»[4], con il suo tono di implicita disapprovazione è carico di stratificati significati politicamente costruiti. L’italianista Federico Faloppa, ad esempio, ricostruisce la storia dell’espressione, dalle sue origini in seno alla sinistra alla sua appropriazione, a metà degli anni Ottanta, dalla destra statunitense, come potente arma nella lotta per l’egemonia. Sulla stessa linea, la giornalista e scrittrice Jennifer Guerra spiega come collocare un fenomeno in un «frame»[5] piuttosto che in un altro abbia profonde implicazioni per come lo percepiamo, valutiamo e per come agiamo, e quelle dell’uso del frame del “politicamente corretto” rispondano a una visione conservatrice, riducendo istanze di cambiamento al loro aspetto di correttezza moralistica e lasciando fuori dall’orizzonte il tema, politico e ben più dirompente, della giustizia. Per questo, altri contributi che evidenziano gli aspetti virtuosi dei cambiamenti in atto scelgono altri frame, come ad esempio quello di inclusione, o democrazia, o ancora decolonizzazione. La sociolinguista Vera Gheno parla di inclusione, argomentando a favore di interventi volti a rendere la lingua maggiormente in grado di dare centralità ai gruppi tradizionalmente svantaggiati nelle gerarchie di genere, come donne e persone con identità di genere non binarie. Lo scrittore e traduttore Christian Raimo, soffermandosi sul contesto educativo e sulla necessità di sradicare usi linguistici italiani dai profondi risvolti discriminatori in particolare nei confronti di Rom e Sinti, invita a recuperare l’idea, anch’essa italiana, della «educazione linguistica democratica», insieme a tendenze americane come i disability studies. La professoressa di letteratura Neelam Srivastava, infine, sostiene che monumenti connessi ad un passato di oppressione e violenza come quello coloniale non debbano restare un oggetto estetico intoccabile e depoliticizzato, ma diventare «palinsesto» (p. 188), oggetto di riscritture e archiviazioni volte a tematizzarne le problematicità.
Risulta più difficile, invece, trovare una logica comune per gli argomenti di tipo critico, che variano innanzitutto per la comprensività della critica. Al limite inferiore di questa scala, quasi più un ammonimento che una vera e propria critica, possiamo collocare la nozione di abusi del politicamente corretto suggerita dal drammaturgo e attore Liv Ferracchiati. Ci sono poi contributi che, pur rivendicando un’affinità di orientamento con i fautori del “politicamente corretto”, ne identificano alcuni limiti costitutivi che renderebbero queste impostazioni incapaci di essere pienamente all’altezza delle promesse del miglior progressismo. È questo il caso della critica cinematografica e ricercatrice Elisa Cuter, che, da una prospettiva dichiaratamente marxista, sostiene che il principale problema delle battaglie per l’inclusione simbolica non sia l’eccessivo radicalismo di cui spesso le si accusa, ma al contrario che queste non siano abbastanza radicali, in quanto trascurano temi fondamentali per la sinistra come lo sfruttamento, l’opposizione tra capitale e lavoro e le dinamiche di classe, generando un discorso di opposizione che non mina alla base l’oppressione capitalista ma rimane con essa compatibile. Analogamente, la giornalista Cinzia Sciuto critica la identity politics sulla base di una concezione “illuminista” dell’universalismo progressista, per cui le identità e appartenenze a gruppi o categorie che ci sono toccate in sorte non devono diventare il fine dell’agire politico, che deve mirare invece all’eguaglianza e alla libertà degli individui – sebbene eliminare le discriminazioni su basi identitarie sia un passo fondamentale per raggiungere la meta. Dall’interno del campo femminista, la giornalista Federica D’Alessio critica il dogmatismo di correnti radicali della galassia dei gender studies, il cui atteggiamento di ostilità senza quartiere nei confronti di forme più tradizionali di femminismo, scettiche sulla dissoluzione del binarismo, sembra escludere a priori la possibilità di un dibattito costruttivo. Infine, una critica più radicale e totale è offerta dallo scrittore Daniele Rielli, che diagnostica un pernicioso settarismo germinato in un clima di vuoto culturale in seguito al distacco dalla tradizione, in cui nichilismo, post-strutturalismo e anti-illuminismo nutrono un vittimismo borghese auto-referenziale e regressivo, che, rifiutando la competenza come principio legittimo di gerarchia, dà luogo a situazioni grottesche come l’accettazione da parte di alcune riviste accademiche umanistiche di articoli senza senso.
Nel complesso il volume, pur non esaurendo lo spettro delle possibili posizioni e ragioni, ne offre uno spaccato significativo, utile per avvicinarsi, o riavvicinarsi, al dibattito attraverso una serie di proposte argomentate. Esso risulta anche molto interessante in quanto consente di osservare come tesi e controversie di portata internazionale e originatesi altrove, soprattutto nei paesi anglofoni, vengano creativamente declinate e fatte proprie nel contesto italiano, con le sue peculiarità storiche e culturali, che, se non impediscono a certi temi e concetti di risultare rilevanti e finanche polarizzanti, vi infondono significati non necessariamente coincidenti con quelli di partenza – ma non per questo più provinciali e meno validi. Questione, quest’ultima, legata a come le differenze di contesto (e non solo nazionale o linguistico) influenzano la ricezione di idee e dibattiti su inclusione e “politicamente corretto”, che meriterebbe probabilmente maggiore attenzione in generale. Se, come notano vari contributi nel volume, la “perdita del contesto” è uno dei principali difetti dei social media responsabili dello scadimento della qualità della discussione, il recupero del contesto si configura come un compito primario per invertire la tendenza. Capita non di rado che i fraintendimenti vengano dissipati e le animosità smussate da un’attenta, onesta ed empatica considerazione dei sostrati esperienziali in cui posizioni contrastanti si radicano, facendo lo sforzo di trattenersi dall’imporre a priori le proprie griglie o i propri linguaggi. Perché, come lo storico e influente esponente della teoria postcoloniale Dipesh Chakrabarty insegna, le idee politiche non restano mai immutate nel trasferimento da un contesto a un altro, un trasferimento che, allora, è meglio inteso come traduzione, affetta da un residuo di incommensurabilità ineliminabile per apprezzare il quale è necessario padroneggiare entrambe le lingue coinvolte[6].
Non si intende tuttavia così suggerire di approdare a un relativismo rassegnato che, essenzializzando l’incomunicabilità come inevitabile, dissipi il potenziale fecondo delle tensioni senza peraltro necessariamente alleviarne la durezza. Come i contributi del volume convergono, come tasselli di un mosaico, nell’aiutare a vedere, una rete complessa, stratificata e multidimensionale di relazioni, antefatti, asimmetrie, disuguaglianze al tempo stesso plasma e limita le nostre possibilità discorsive. Cercare di decifrarla è un compito collettivo di importanza capitale. Tuttavia, è anche un compito di una complessità smisurata, il cui completamento non è pensabile come prossimo, alla portata di singoli individui o singole scuole di pensiero. Esso indica una direzione verso cui muoversi, più che un oggetto di cui sia mai possibile appropriarsi una volta per tutte. E nel movimento collettivo in questa direzione, il disaccordo, lungi dall’essere un danno collaterale, è un motore fondamentale. Il disaccordo è spiacevole, può essere imbarazzante, persino scandaloso, ed è naturale cercare di sbarazzarsene difendendo la propria verità contro gli “errori” altrui. La sfida, tuttavia, è farlo prendendo sul serio diversità e contraddizioni, attraverso una dialettica produttiva che arricchisca il nostro comune patrimonio intellettuale e culturale invece di impoverirlo.
[1] Un’influente immagine idealizzata della sfera pubblica borghese come luogo di un dibattito critico, razionale e libero è contenuta nel classico Storia e critica dell’opinione pubblica del filosofo Jürgen Habermas (Laterza 1962/2002).
[2] L’ordine numerico non deve suggerire alcuna priorità concettuale, e ha il solo scopo di organizzare il discorso.
[3] Sul capitale culturale e le strategie di distinzione attraverso cui gli attori sociali, in particolare le classi superiori, cercano di “distinguersi” dalle classi inferiori in virtù di preferenze e pratiche culturali giudicate più raffinate o all’avanguardia, si veda in particolare il classico La distinzione. Critica sociale del gusto, del sociologo Pierre Bourdieu (il Mulino, 1979/2001).
[4] L’espressione «fatto sociale» viene da Emile Durkheim, uno dei padri fondatori della sociologia, e designa una «maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esteriore; o anche (un modo di fare) che è generale nell’estensione di una data società pur possedendo una esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali» (Le regole del metodo sociologico, Einaudi 2008; edizione originale 1895).
[5] L’idea di framing nelle scienze sociali si attribuisce al sociologo Erving Goffman che, nel libro Frame Analysis (Armando Editore 1974), teorizza i frame come schemi di organizzazione dell’esperienza, e designa spesso la presentazione di un’informazione all’interno di un particolare orizzonte di significato che ne favorisce alcune interpretazioni e implicazioni. L’idea fu ripresa ed elaborata in modo influente anche dal linguista George Lakoff, alle cui formulazioni Guerra fa principalmente riferimento.
[6] Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004; edizione originale Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000.