Recensione a: Alessandro Vanoli, Note che raccontano la storia. I suoni perduti del passato, il Mulino, Bologna 2022, pp. 200, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Matteo Camerini
6 minuti di lettura
Al principio fu il silenzio. Un istante immobile, silente e misterioso, come quello che si raccoglie in un teatro nel momento prima dell’inizio, dell’overture. Poi, dopo una pausa della durata di miliardi di anni, ecco comparire il genere umano e, con esso, la musica. Un’attesa infinita ma necessaria: d’altronde, se dal punto di vista fisico il suono è semplicemente aria che vibra, il movimento di un intero universo potrebbe comunque non bastare, fino a che non nasca qualcuno capace di ascoltarlo. Così, varcando la soglia di quell’originario silenzio, lo storico e scrittore Alessandro Vanoli introduce il lettore ad un viaggio lungo i suoni perduti della storia umana. Un viaggio originale e suggestivo, ascetico e corale, necessario e, per certi versi, impossibile. Sì, perché al contrario di tracce materiali come affreschi o tavolette d’argilla, i suoni non lasciano impronte, svaniscono al loro passaggio. Eppure, quei suoni ignorati dalla storia hanno segnato l’esperienza umana sin dai suoi albori, hanno accompagnato battaglie e rivoluzioni, hanno assistito alla nascita del mito, del teatro e della letteratura. Seguire l’autore in questo cammino, dunque, significherà correre il rischio di rimettere in discussione, per prima cosa, l’idea che comunemente abbiamo di storia. Un’apertura di senso (e dei sensi) che promette in cambio la costellazione inesplorata di una nota fondamentale della nostra esistenza. Un rischio, in altre parole, che vale la pena correre. Ma andiamo con ordine.
In Note che raccontano la storia, edito da il Mulino, si possono ritrovare tre discorsi, tre linee che si intersecano, come trame ed orditi, all’interno dell’unico tessuto del libro. Ognuna di queste linee offre notevoli spunti di riflessione su piani differenti, oltre a quelli, ovviamente, della storia e della musica. Dalla filosofia alle neuroscienze, passando per la matematica, l’arte e la tecnica, le pagine di Vanoli non mancano di sorprendere anche il lettore più esperto, attraverso un gioco di stratificazioni e di rimandi che, pur conservando uno stile accattivante, supera la semplice divulgazione aprendo spazi di riflessione inaspettati.
Per prima cosa, come già accennato, si ritrova immediatamente una meditazione sulla storia che, ponendosi sulla scia di pionieri come Jared Diamond e Daniel Lord Smail[1], considera la nostra dimensione naturale e la nostra evoluzione biologica degli elementi essenziali per comprendere le vicende storiche del passato e per meglio affrontare le sfide del mondo contemporaneo. Un approccio che rifiuta la dicotomia tra la storia, scritta dai manufatti culturali, e la preistoria, come regno di una natura inaccessibile. Queste storie profonde, infatti, non vanno alla ricerca di reperti, bensì di quelli che potremmo definire gli irreperibili: forme, colori, emozioni e, in questo caso, suoni.
L’ossidiana del museo è, nonostante le trasformazioni, la stessa ossidiana. I suoni, invece, emergono e svaniscono nel presente, sono prodotti in un ambiente specifico e sono, dunque, non oggettivabili. Vivono della compartecipazione corporea e mentale di chi partecipa all’ascolto. Così come all’origine non può esserci suono, così questo non può ripetersi neppure due volte in modo identico. Il suono, in altre parole, vive nel regno della differenza più di ogni altra esperienza. È per questi motivi che gli storici sono sempre stati restii ad utilizzare i suoni come fonti nelle proprie indagini.
Anche etimologicamente, del resto, il verbo “reperire” deriva dalla radice “par” (la stessa di partorire), ossia “portare alla luce”. Sempre semanticamente legato al concetto di visibilità, il reperto è solitamente considerato come ciò che riappare alla vista. È dunque naturale che il suono sia considerato irreperibile, invisibile, perso eternamente nel passato. Ma questo primato della vista va quantomeno messo in discussione. L’importanza dell’invisibile si impone alla storia e Vanoli cerca proprio di riportare in vita, di riattivare il senso di congiunzione tra gli avvenimenti storici e l’ambiente sonoro che li circondava. Perché gli irreperibili sono stati molto spesso «pervasivi, motivanti, determinanti, legati ad ogni agire umano, come la guerra, la festa, la meditazione, il rito religioso» (p. 181) e continuare ad ignorarli non può che essere una privazione, un limite.
E così ogni capitolo di Vanoli si apre con un’ambientazione, una descrizione semplice ma molto efficace che immediatamente ci trasporta in un mondo completo. O quasi. Perché subito dopo aver creato tutti i presupposti di quella istantanea, di quell’immersione storica, che corrisponde pressocché al modo in cui tutti noi abbiamo sempre sentito raccontare di quel passato, ecco che allora l’autore fa notare un’assenza: i suoni. Come se tutta la storia raccontata sinora fosse stata un film muto e finalmente Vanoli abbia scoperto il sonoro.
A partire da qui, può essere delineato un secondo punto chiave del libro: una riflessione sui sensi e sul loro sviluppo. Ogni senso predispone un certo tipo di relazione con ciò che ci circonda. Il tatto e il gusto, ad esempio, possono essere visti come i sensi della prossimità soggettiva e del contatto uno-a-uno. La vista, al contrario, come il senso più oggettivo e scientifico (basti pensare alla quantità di espressioni comuni che associano il vedere al conoscere). L’udito, in quest’ottica, appare invece come il senso decisamente più immersivo, non dicotomico, compartecipativo.
Nel libro di Vanoli si ritrova spesso il connubio tra luoghi e suoni, come nel caso delle grotte rupestri, dove gli affreschi venivano dipinti nei punti dove l’eco era più presente. Una scoperta degli anni Ottanta del secolo scorso che, a partire dal labirinto di grotte di Arcy-sur-Cure, risalenti a circa 30.000 anni fa, stabilì una relazione molto interessante tra il rito della pittura e la dimensione sonora e musicale. Un ulteriore esempio per notare come la maggior parte di quegli affreschi sia rimasta, mentre poco o nulla ci resta invece di quei suoni, prodotti da flauti di ossa cave e percussioni primitive. Eppure, in quel luogo e in quel tempo, la musica era presente. Una suggestione che non ha mancato di cogliere neppure il regista Werner Herzog che, nel suo rinomato Cave of Forgotten Dreams, fa risuonare un flauto preistorico nella Grotta di Chauvet, uno dei principali siti preistorici europei.
Alla base della nostra relazione e conoscenza dell’alterità – per quanto la categoria di «Altro» sia certamente da problematizzare, come anche Vanoli non manca di ricordare[2] – i suoni rimangono un elemento fondamentale e ineludibile. Ed è così che il viaggio prosegue, fuori dalle grotte preistoriche per passare in Grecia, con la nascita della musica come hybris, un uscire fuori di sé, un’esperienza estatica oltre che estetica. Non solo un ricevere, un essere “colpiti” – come dalle frecce delle fascinatio medievali – ma anche un perdersi. Da questo gli sciamani, primi musicoterapeuti; da questo, allora, anche i tentativi di razionalizzare quella sensibilità incontrollabile: le armonie pitagoriche, lo scetticismo di Platone nei confronti della mousiké, fino al quadrivium medievale, dove la musica era studiata assieme alla matematica, alla geometria e all’astronomia.
Infine, c’è un’altra linea che viene a svilupparsi parallelamente a quella della narrazione cronologica, ed è una linea tematica. Vanoli, ne suo racconto, costruisce dei rimandi interni, infra-storici, tra figure ricorrenti: come quella del mito di Orfeo che, dalla sua nascita nella mitologia greca, come musico e inventore della lirica, viene ripreso da Claudio Monteverdi nel 1607, segnando l’inizio del melodramma barocco, per giungere, infine, al compositore contemporaneo Jordi Savall. Poi c’è il tema delle stagioni, a cui l’autore ha dedicato recentemente le sue ricerche, sempre nell’ottica di una storia profonda[3]. Qui, dal classico Vivaldi si passa ai bandoneon e al tango di Astor Piazzolla, fino a Max Richter e a Philip Glass. Inoltre, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo, c’è l’incontro con l’«Oriente» (altra categoria che Vanoli tiene a decostruire) musulmano: dagli ‘Ud, gli antenati del liuto, nei giardini arabi, fino a Mozart e a Il ratto dal serraglio. La storia dell’incontro tra le culture deve alla musica molto più di quanto non si pensi, a partire da un altro luogo cardine delle ricerche di Vanoli: il Mediterraneo. Se, infatti, il rapporto tra letteratura europea e araba come base per lo sviluppo di una cultura meticcia è noto, poco si parla ancora del ruolo svolto dalla musica in questo processo.
È la musica, forse più di ogni altra cosa, che può farci scoprire quanto sia falsa la nostra idea di una tradizione fissa e chiusa in se stessa, l’idea di un’origine o di un originario. Falsa come l’idea di un Oriente unitario e opposto all’Occidente. Anche se Vanoli non lo cita espressamente, non si può che pensare a Edward Said e alle letterature postcoloniali quando l’autore afferma che con la nostra musica “classica” è successo lo stesso che «per il caffè o per il divano: pieno di persone pronte a giurare che queste cose ci appartengano da sempre. Perché alla fine dei conti la cosa più difficile da ammettere è che la nostra cultura venga da fuori: da altri mondi che un giorno si incontrarono, si scontrarono e si mescolarono. E che così facendo crearono nuovi suoni» (p. 90).
Per concludere, Note che raccontano la storia di Alessandro Vanoli ci permette di riascoltare la storia umana attraverso una musica antica ma con nuove categorie; abbandonando ogni “centrismo” – che sia euro-, ego- o antropocentrismo – e insegnando una prospettiva capace di narrare la differenza senza bisogno di piantarsi dentro un’identità. La prospettiva profonda di spettatori che assistono insieme al concerto del mondo.
[1] Di Jared Diamond ricordiamo, ad esempio, il celebre Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 1998 / 2014. Di Daniel Lord Smail, invece, il più recente Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
[2] Rimandiamo a Alessandro Vanoli – Geografie dell’alterità, Videopodcast dei Dialoghi di Pandora Rivista – episodio 20.
[3] Alessandro Vanoli, Inverno. Il racconto dell’attesa (2018), Primavera. La stagione inquieta (2020) e Autunno. Il tempo del ritorno (2020), tutti editi da il Mulino.