Recensione a: Lorenzo Mesini, Stato forte ed economia ordinata. Storia dell’ordoliberalismo (1929-1950), il Mulino, Bologna 2023, pp. 240, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Monika Poettinger
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Qualche parola iniziale per chiarire al lettore cosa sia e cosa non sia il volume di Lorenzo Mesini. Non è questo, infatti, e non vuole essere, un trattato storiografico sull’ordoliberalismo. Su questa corrente di pensiero economico, sviluppatasi in Germania tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, hanno scritto, infatti, approfonditamente, sia Adelino Zanini[1], in Italia, che, in Germania, Alexander Nützenadel[2] e Nils Goldschmidt[3]. Non un trattato, dunque, ma nemmeno un testo meramente divulgativo, piuttosto un tentativo di comprendere (verstehen) e far comprendere (verstehen lassen) o aiutare a comprendere (verstehen helfen) una forma di teorizzazione economica che, scomparsa da tempo dalle aule universitarie, continua a permeare la politica tedesca e di riflesso europea. È un tentativo ben risuscito, poiché rappresenta l’ordoliberalismo nella sua evoluzione storica, sottolineandone nel tempo le persistenze e le differenze. Mesini immerge, insomma, la teoria nella storia, unica vera via per spiegare un pensiero che è stato ed è ancora oggi più storicista che logico-matematico e che trova, dunque, la sua ragion d’essere non nella linearità causale dei ragionamenti ma nella rispondenza ai fatti, in continuo mutamento. Per far questo, Mesini offre al lettore anche una sintesi della storia, particolarmente economica, della Germania dal ’29 fino ad oggi. Il volume è, rispetto al suo oggetto, ben ricercato e ben scritto. I refusi sono quel minimo che corrisponde alla odierna distrazione delle case editrici e l’unico dubbio metodologico lo suscita il tentativo controfattuale di comparare la Germania nazista ordoliberalizzata con la Cina di Deng Xiaoping.
Qual è invece l’idea dietro o, meglio, dentro il libro di Mesini? La scelta interpretativa, si è accennato, è storicista, poiché al contrario della teoria di un Vilfredo Pareto che può ben essere letta nell’evoluzione della teoria economica prescindendo da qualsiasi riferimento alla storia, il contesto è essenziale nell’origine e nell’evoluzione dell’ordoliberalismo. Sulla nascita dell’idea ordoliberale, Mesini offre, allora, una teoria generazionale. Secondo questo canone interpretativo, vi sono eventi che caratterizzano l’esperienza e il pensiero di una intera generazione diventandone categoria di pensiero e chiave di lettura sia per il passato che per il futuro. Tale sarebbe stata, per Mesini, la crisi del ’29, percepita sia come vera e propria crisi del capitalismo sia come sistema economico che valoriale. Forse, in questo ambito interpretativo, valeva sottolineare anche la Prima guerra mondiale e la correlata crisi della Germania bismarckiana, prima, e la fallimentare esperienza repubblicana di Weimar con la connessa crisi del liberalismo parlamentare, poi. Crisi, insomma, che precipitano una nell’altra come cumulonembi prima di una tempesta, una situazione che influenzò, oggi lo comprendiamo con troppa facilità, la psiche e l’universo interpretativo di un’intera generazione. Così come oggi, anche allora si diffuse il bisogno di “ordine”. Ci voleva coraggio, morale e intellettuale, ad ammettere che il mondo ordinato del passato (se mai c’era stato) non sarebbe più tornato: morto Dio, la civiltà occidentale al tramonto, i dati scientifici preda della relatività. Questo coraggio lo ebbero altri, non i liberali raccontati da Mesini, apostoli del mercato libero, ma stretto da regole inflessibili, e di una politica illiberale o almeno non democratica. Mesini cita Alexander Rüstow che auspicava «la dittatura entro i confini della democrazia» (p. 63), ma non fu certo questo economista l’unico preda del ducismo che si fece, appunto, carattere generazionale. Tutti gli ordoliberali furono contro una politica alla John Stuart Mill, che rappresenta tutti e media tra interessi particolari. Attraversando le Alpi, d’altra parte, questa fu la posizione anche di Vilfredo Pareto e Roberto Michels. Un altro liberalismo, dunque – al proposito Mesini offre un interessante confronto con gli economisti Austriaci – rifiuto di quel laissez faire laissez passer ottocentesco che voleva uno Stato minimo. Lo Stato doveva, anzi, per gli ordoliberali, essere forte, al punto che Mesini può citare persino Hobbes come riferimento fondante. Lontanissimi, dunque, dal ritenere il mercato una forma di associazione umana dalla moralità intrinseca, gli ordoliberali credevano ad un mercato che educa e costringe ad una moralità scelta dallo Stato e sancita dalla sua costituzione. Stato etico, allora, per il quale Ordnung macht frei. L’ordine imposto dalle regole e il mercato come unico spazio di libertà, questo il credo ordoliberale. Una vera e propria ideologia che la Germania, dal dopoguerra, ha imposto all’Europa, pur praticandola, in patria, con poca convinzione.
In ultimo bisogna chiedersi, ed è la domanda più controversa di ogni recensione, se l’oggetto del volume, l’ordoliberalismo, meritasse ancora studio e attenzione. Perché, insomma, parliamo ancora, al di fuori della storiografia accademica del pensiero economico, di una dottrina che Mesini stesso definisce un “paradigma ossificato”? Il volume, non esimendosi da possibili critiche, dà un giudizio coraggiosamente normativo sul pensiero ordoliberale e sulle politiche che ne sono conseguite. Un giudizio sostanzialmente negativo. L’intento del volume, in questo senso, è quello di aprire un dibattito sull’opportunità, oggi, di continuare a validare questo pensiero subordinandogli l’intero costrutto istituzionale europeo. Discussione opportuna e doverosa che si gioverà dello studio di Mesini come solida base interpretativa. Ciò nonostante, proprio la storicizzazione che nel volume ha aiutato il lettore nella comprensione dell’ordoliberalismo offre ben pochi appigli nel giustificare, oggi, un cambio di rotta. Le crisi dell’oggi, infatti, riflettono, quasi in uno specchio e come se un secolo fosse trascorso invano, quelle descritte da Mesini. Tanto che il bisogno di sicurezza, il dilagare di nuovi nazionalismi, il ducismo di ritorno, il ritorno di Dio e la sfiducia nella democrazia rappresentativa e parlamentare sono gli stessi di allora, anche se forse più globalizzati, informando tutto il globo e non solo l’Occidente. Così anche per una caratteristica fondamentale dell’ordoliberalismo: togliere ai popoli, rappresentati da un governo parlamentare, il controllo sulla politica economica. Tali governi, infatti, sono ritenuti deboli e preda di interessi particolari o della volontà di una maggioranza che è considerata incapace di scegliere la politica (economicamente) migliore. La risposta degli ordoliberali fu affidare la politica economica a regole immutabili iscritte nell’ordinamento costituzionale. Altri fecero e fanno oggi affidamento ad uno Stato non democratico che definisce, tra l’altro, lo sviluppo economico di un Paese. In entrambi i casi del benessere economico decidono pochi o nessuno, con le più diverse conseguenze. Mesini con ragione sottolinea come su questo le scelte – fondamentali e fondamentalmente politiche – almeno in un’Europa ancora democratica, dovrebbero essere oggetto di una discussione meno ideologizzata e più consapevole. A questo scopo il suo volume porta una fondamentale capacità di comprensione ed è dunque da consigliare come ausilio sia per i decisori politici che per un pubblico ampio.
[1] Adelino Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), il Mulino, Bologna 2022.
[2] Alexander Nützenadel, Stunde der Ökonomen. Wissenschaft, Politik und Expertenkultur in der Bundesrepublik 1949-1974, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005.
[3] Nils Goldschmidt, Entstehung und Vermächtnis ordoliberalen Denkens. Walter Eucken und die Notwendigkeit einer kulturellen Ökonomik, LIT-Verlag, Münster 2002.