“Of Scatterlings and Stakeholders” di Lucilla Spini
- 10 Giugno 2021

“Of Scatterlings and Stakeholders” di Lucilla Spini

Recensione a: Lucilla Spini, Of Scatterlings and Stakeholders. Diversity, inclusion and transnational governance for sustainable development, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 2020, pp. 120, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Giuseppe Palazzo

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They are the scatterlings of Africa
Each uprooted one
On the road to Phelamanga
Where the world began

 

 

Queste sono alcune strofe della canzone “Scatterlings of Africa”, scritta da Johnny Clegg. Lucilla Spini, antropologa con esperienza ventennale nell’ambito dello sviluppo internazionale, si definisce una scatterling dal 1986. Non a caso il suo libro, Of Scatterlings and Stakeholders, pubblicato in lingua inglese da Angelo Pontecorboli Editore, è dedicato al musicista e antropologo sudafricano. La canzone parla di persone in movimento, dirette verso Phelamanga, dove il mondo è iniziato. Scatterlings, ovvero persone senza fissa dimora, vagabondi, se si cerca la parola sul Collins English Dictionary. Innegabilmente lo spostarsi fa parte della storia umana, dall’Homo erectus, che lasciò l’Africa 1,8 milioni di anni fa, fino a chi oggi lascia il proprio Paese per miseria, guerra e crisi ambientali. Ma, per estensione, siamo tutti scatterlings, in cerca di noi stessi, con identità mutevoli e appartenenze trasversali. Proprio per questi elementi, che ci caratterizzano tutti come esseri umani, Spini ritiene che la parola scatterlings possa essere molto utile a livello antropologico e possa dare una nuova natura partecipativa, e più efficace, all’implementazione di un modello di sviluppo sostenibile.

Come spiega l’autrice nella prefazione, l’umanità è stata distinta in categorie in base a caratteristiche fisiche, culture, lingue, religioni e, oggi, in base alle informazioni ricavabili dai big data. Dividere in categorie significa dare un’etichetta alle persone e strutturare le società. Occorre superare certi modi di etichettare, così da porre fine a molte ingiustizie. Inoltre, è difficile dare a una persona un’etichetta che tenga conto di tutte le sue peculiarità, comprendendo gli elementi che la rendono simile e diversa dagli altri. Tuttavia, l’etichetta è uno strumento indispensabile per raccogliere gruppi di persone attorno ad azioni collettive. I processi di partecipazione ne hanno bisogno. Tra le azioni da portare avanti insieme vi è l’implementazione di strategie di sviluppo sostenibile. L’autrice propone il concetto di scatterlings proprio per la sua natura inclusiva. Senza dubbio il concetto tiene conto anche degli elementi esistenziali e filosofici che caratterizzano tutti gli esseri umani, elementi spesso sottovalutati.

Un altro concetto utile è quello di stakeholder (traducibile come “portatore di interesse”), parola oggi di uso comune in vari ambiti, anche se raramente definita in maniera rigorosa. Si tratta di un concetto prezioso in quanto ha contribuito a modificare il dibattito pubblico, promuovendo coinvolgimento e partecipazione di diversi gruppi di persone nelle decisioni sullo sviluppo sostenibile. Ma bisogna assicurarsi che tutti gli scatterlings siano coinvolti.

Partendo da queste premesse Lucilla Spini, in un inglese scorrevole e accessibile, fornisce un quadro interessante sulle modalità con cui le organizzazioni legate alle Nazioni Unite hanno coinvolto gli stakeholders nei processi di governance. L’autrice conclude con una proposta per impostare il dibattito globale sullo sviluppo sostenibile in un modo nuovo, che valorizzi le differenze e che non lasci indietro gli scatterlings, identificati nel corso del saggio con le persone più marginalizzate e vulnerabili. Prima di tutto l’autrice inquadra il concetto di sviluppo sostenibile, la nostra meta, poi riepiloga brevemente la storia del ruolo degli stakeholders, che si intreccia con quella della partecipazione, per passare, infine, all’analisi del rapporto tra l’ONU e gli stakeholders.

 

Sviluppo sostenibile e stakeholders

Il concetto di sviluppo riguarda il creare le condizioni per favorire la crescita economica nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo. Invece, lo sviluppo sostenibile è un concetto più ampio, riguardante non solo le esigenze del presente, ma anche quelle delle future generazioni, il cui benessere non va pregiudicato da una visione di breve periodo. Questo concetto ha quattro pilastri: sociale, ambientale, economico e culturale (spesso dimenticato)[1].

I pilastri sono legati alle necessità delle persone, in tutto il mondo. Tutti abbiamo bisogno di risorse economiche, abbiamo bisogno di un ambiente sano e della natura, abbiamo bisogno di relazioni sociali e di comunità. A ogni pilastro corrispondono anche diversi tipi di risorse, da gestire saggiamente: il capitale umano (human capital), il capitale naturale (natural capital), il capitale della produzione (manufactured capital) e il capitale della conoscenza (knowledge capital). Maggiore è la diversità dei capitali, più soluzioni questi rendono possibili.

Tutti gli Scatterlings devono partecipare all’impegno per lo sviluppo sostenibile, non solo perché ne hanno diritto ma anche per le risorse che possono mettere a disposizione. Non si tratta infatti solo di stabilire degli indicatori e delle soglie, ad esempio produrre una certa quota di energia da rinnovabili e contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5/2°C. Oltre gli aspetti tecnici, si tratta di costruire un mondo nuovo affrontando i cosiddetti wicked problems, ovvero i grandi problemi come il cambiamento climatico e la fame nel mondo. Sono problemi interdipendenti che accompagnano l’umanità e che richiedono diverse soluzioni nel corso del tempo. Soluzioni impossibili da declinare in qualche formula definitiva in quanto si hanno visioni incomplete, mutevoli e contraddittorie di queste sfide[2]. Anche solo per inquadrare nel modo migliore questi problemi occorre il contributo di tutti. Inoltre, il coinvolgimento di tutti è importante perché, proprio come la pandemia da Covid-19 ci insegna, tutti siamo stakeholders e scatterlings, tutti siamo soggetti all’andamento degli eventi e, allo stesso tempo, possiamo influenzare questi eventi tramite i nostri comportamenti. Questo vale per la curva dei contagi come per il cambiamento climatico e le disuguaglianze.

 

Ma cosa vuol dire stakeholder?

Pare che il concetto sia usato in ambito aziendale sin dagli anni Trenta, ma la parola è stata introdotta dallo Stanford Research Institute nel 1963. Un concetto che ben si attaglia agli avvenimenti negli USA di quegli anni: cresce l’impegno dei consumatori, nascono i primi movimenti ambientalisti e le battaglie per i diritti civili vivono momenti storici. Così l’attenzione per l’ambiente si intreccia con la sensibilità per altri temi legati a un’idea di giustizia e partecipazione. Di conseguenza gli stakeholders vengono sempre più coinvolti. L’autrice ricostruisce la graduale istituzionalizzazione degli stakeholders, partendo dalla nascita del World Wildlife Fund (WWF) nel 1961 e passando per i vari documenti firmati a livello internazionale. Il summit di Rio del 1992 vede la partecipazione di migliaia di ONG e l’importanza del coinvolgimento degli attori non statali informa tutti i documenti adottati in quella sede, tra cui l’Agenda 21, sulla quale torneremo. Un ruolo importante per la legittimazione degli attori non statali è svolto dalle partnership pubblico-privato, sempre più centrali, dato il peso crescente degli attori non statali in generale, in particolare le grandi aziende[3]. Queste partnership costituiscono un meccanismo efficace nell’implementare progetti per salute, ambiente, nutrizione ed educazione.

Nonostante questo processo lungo sessant’anni, ancora oggi non esiste una definizione rigorosa e condivisa di stakeholder. Dalle prime definizioni accademiche generali, che identificano gli stakeholders in chiunque possa influenzare o sia influenzato dalle attività di un’organizzazione, si è arrivati a definizioni più precise, ponendo l’accento sull’interesse degli stakeholders per ciò che un’organizzazione fa, per come lo fa e con quali risultati. Al centro vi è quindi l’organizzazione (focal organization), in base alla quale gli stakeholders sono identificati. Se la focal organization è un’azienda, gli stakeholders sono i clienti, i fornitori, le istituzioni e determinati territori, che possono essere influenzati dall’attività dell’azienda e/o che possono influenzare questa attività (sostenendola o ostacolandola). Se per focal organization si intende il pianeta Terra e il sistema economico globale, non solo tutti gli esseri umani sono stakeholders, ma anche piante, animali e tutta la natura, nonché le future generazioni.

Nell’Agenda 2030, che reca i 17 obietti di sviluppo sostenibile (sustainabile development goals – SDG) la focal organization è l’Assemblea Generale dell’ONU, e gli stakeholders, pertanto, sono gli attori non statali. Pur avendo così circoscritto i soggetti da coinvolgere, resta la difficoltà di identificarli adeguatamente e di costruire un dialogo con loro.

 

Agenda 21, Agenda 2030 e oltre

L’ONU, in ambito di sviluppo sostenibile, non ha ancora un approccio chiaro per effettuare la mappatura degli stakeholders[4]. Tuttavia, l’Agenda 21 e l’Agenda 2030 hanno reso possibili significativi passi avanti e Spini vi si sofferma particolarmente. L’Agenda 21 ha identificato in maniera dettagliata ed efficace nove categorie di stakeholders da coinvolgere nel dibattito globale sullo sviluppo sostenibile. I nove gruppi, detti Major Groups, riguardano: donne, bambini e giovani, popolazioni indigene, ONG, autorità locali, lavoratori e sindacati, terziario e industria (business and industry), comunità scientifica e tecnologica, agricoltori.

L’Agenda 2030 ha definito gli obiettivi da raggiungere, i 17 SDGs. Inoltre, pone molto l’attenzione sulle categorie di persone che il libro chiama scatterlings, categorie vulnerabili e marginalizzate: poveri, bambini, persone con disabilità, anziani, indigeni, rifugiati, migranti, persone residenti in aree colpite da emergenza o terrorismo o sotto occupazione straniera, ecc. Sottolinea i legami tra queste vulnerabilità e i disastri ambientali, l’uso di fonti fossili e il cambiamento climatico. Tutti elementi, vulnerabilità e sfide globali, declinati nei vari SDGs. In particolare si sottolinea il ruolo delle donne: tutti gli SDGs sono realizzabili solo permettendo alle donne di esprimere il loro potenziale. L’autrice in più passaggi ricorda come le donne siano fra gli stakeholders più organizzati e più attivi.

Il libro non manca di soffermarsi anche sulle lacune dell’Agenda 2030. Infatti lo sguardo adottato è molto focalizzato, secondo l’autrice, sugli aspetti socio-economici afferenti al pilastro economico dello sviluppo sostenibile, dando poco spazio agli altri pilastri. La natura è descritta come mero oggetto dell’azione umana, da tutelare e da utilizzare con equilibrio. Spini suggerisce che la natura sia invece concepita come uno stakeholder. D’altronde non mancano esempi che attestino come alla natura si possa riconoscere una soggettività[5]. È stato fatto, ad esempio, dalla costituzione dell’Ecuador, mentre in Nuova Zelanda il fiume Whanganui è dotato di personalità legale ed è rappresentato da due “guardiani”, uno scelto dal governo e uno dai maori[6]. Infine nell’Agenda 2030 è praticamente assente la transizione digitale.

Pur con i suoi limiti, il documento fornisce un quadro importante sui diversi stakeholders e, partendo dai Major Groups dell’Agenda 21, ha posto le basi per l’istituzionalizzazione del coinvolgimento degli stakeholders nella governance internazionale sullo sviluppo sostenibile. Il MGoS (Major Groups and other Stakeholder) Coordination Mechanism organizza la partecipazione dei Major Groups presso l’High-Level Political Forum on Sustainable Development (HLPF), in seno all’ONU. I gruppi possono organizzarsi autonomamente e possono attivarsi per includere anche gli scatterlings, che, essendo spesso marginalizzati, rischiano di essere esclusi dal processo. Tuttavia non sono forniti metodi per identificare chi rischia di essere lasciato indietro e nemmeno vi sono mezzi per verificare l’impegno dei gruppi per coinvolgere gli scatterlings. Solo gli Stati (probabilmente neanche tutti) hanno le risorse per effettuare una mappatura adeguata. Gli scatterlings sono spesso ignari del lavoro dell’ONU e non si sentono rappresentati da questi meccanismi, o le autorità del loro Paese non li supportano.

Spini propone di passare da una governance intergovernativa dell’agenda relativa allo sviluppo sostenibile ad una governance transnazionale (transnational governance). Per governance transnazionale si intende un’impostazione in cui gli attori non statali non sono coinvolti solo per consultazione e lobbismo (come è oggi in molti contesti, ONU inclusa), ma sono bensì parte integrante del processo[7]. Gli stakeholders devono avere lo stesso spazio degli Stati membri.

Alla base i gruppi degli stakeholders devono, tramite una struttura che abbia dei livelli regionali e locali, coinvolgere gli scatterlings col supporto di un effettivo UN Non-Governmental Liaision Service e di risorse adeguate fornite dagli Stati. L’approccio intergovernativo è efficace nel dare risposte tecniche a problemi tecnici, l’approccio transnazionale invece permette di affrontare i wicked problems, che richiedono una struttura in grado di adattarsi[8].

Il libro si conclude tornando a Johnny Clegg. La meta degli scatterlings è Phelamanga, che in Zulu vuol dire “la fine delle bugie”. Phelamanga è stata ormai raggiunta: è finita l’illusione che il pianeta abbia risorse infinite, che l’uomo possa dominare la natura senza conseguenze. È anche la fine dell’illusione dell’antropocene, secondo Spini, in quanto è un’immagine che propugna una visione antropocentrica del mondo, mentre dobbiamo smettere di concepire la natura come mero oggetto di nostro studio e utilizzo. Le “bugie terminano” e il mondo può ricominciare.


[1] A proposito di cultura e sviluppo sostenibile, si ricorda quanto sollevato da Paolo Venturi di AICCON nel dibattito “Sfera pubblica e generazioni” dell’ultimo festival di Pandora: fra i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’ONU, relativi a tante dimensioni dello sviluppo, acqua inclusa, non c’è la cultura. Eppure è questa che permette di immaginare e costruire il futuro. Secondo Venturi occorre declinare la cultura all’interno di ognuno dei 17 obiettivi e per farlo potrebbe essere utile osservare i temi con un approccio multidisciplinare e vicino alla popolazione locale (scatterlings inclusi). Link al video del dibattito (riflessione di Venturi dal minuto 12 circa).

[2] “[…] wicked problems: problemi che rimandano a sfide complesse, multidimensionali, che intrecciano più livelli di scala e che non hanno soluzioni lineari e semplici; problemi che coinvolgono interessi contrastanti e giochi a somma negativa dove – almeno nel breve periodo – si generano vincenti e perdenti. Soluzioni, quindi, non gestibili attraverso un approccio tecnocratico di ingegneria sociale, ma che richiedono la costruzione del consenso politico e la definizione condivisa di orizzonti temporali di lungo periodo, non basati sul calcolo costi/benefici immediato.” Filippo Barbera e Tania Parisi, Innovatori sociali, il Mulino, Bologna 2019, p.72.

[3] Si veda Vittorio Cino Vittorio e Andrea Fontana, Corporate Diplomacy, EGEA, Milano 2019. Anche in questo libro si pone molta attenzione sul tema degli stakeholders, dal punto di vista delle grandi aziende “transnazionali”.

[4] La stakeholder analysis (in ambito cooperazione allo sviluppo) è descritta come un processo in cinque fasi: 1) identificare il problema che si vuole affrontare con il progetto; 2) identificare tutti i gruppi di stakeholders che hanno un interesse significativo rispetto al potenziale progetto; 3) definire quali sono i ruoli, gli interessi, il peso e la possibilità di intervenire che i diversi gruppi hanno; 4) determinare il livello di cooperazione o conflitto tra i gruppi; 5) incorporare i risultati delle fasi precedenti nella definizione del perimetro e delle caratteristiche fondamentali del progetto stesso, in modo che: le risorse siano usate in modo appropriato per conseguire obiettivi di equità e distribuzione dei benefici e per venire incontro ai bisogni dei gruppi di stakeholders principali; si promuova la partecipazione degli stakeholders; i conflitti tra i gruppi di stakeholders non siano ignorati ma affrontati.

In questa sede non si approfondisce ulteriormente, si fornisce giusto un quadro del livello di complessità relativa alla gestione dei rapporti con gli stakeholders. Più il tema al centro di un progetto è vasto, più l’analisi e la mappatura degli stakeholders diventa impegnativa. Si veda EuropeAid Cooperation Office, Development DG, Aid Delivery Methods Volume 1 – Project Cycle Management Guidelines, Bruxelles, marzo 2004.

[5] In merito a questi temi si vedano: Natalino Irti, L’uso giuridico della natura, Editori Laterza, 2013; Giulio Pennacchioni “La natura in politica: la sfida ecologica in filosofia”, pandorivista.it, 19 settembre 2020.

[6] La cosiddetta riverlution in Edoardo Borgomeo, Oro blu. Storie di acqua e cambiamento climatico, Editori Laterza, Roma-Bari 2020, pp.39-50.

[7] Lucilla Spini riprende la definizione proposta in Thomas Risse, Transnational Governance and Legitimacy, 2004, consultabile qui.

[8] Si veda la nota 2.

Scritto da
Giuseppe Palazzo

Laureato in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, si è poi specializzato nel settore energetico, conseguendo un MSc in Global Energy and Climate Policy presso la SOAS University of London e un master in Energy Management presso il MIP Politecnico di Milano. Ha intrapreso percorsi legati alle politiche pubbliche ed europee, presso ISPI e Scuola di Politiche, e legati alla regolazione del settore energetico italiano presso l’Università di Siena. Ha lavorato come consulente in BIP, ora è project manager per le attività internazionali di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), dipartimento Sviluppo sostenibile e Fonti energetiche.

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