Scritto da Federico D'Ambrosio
5 minuti di lettura
Oggi i Paesi Bassi tornano al voto per rinnovare la Seconda Camera. Se già all’ultima occasione nel 2012 il quadro che gli elettori restituirono era di estrema frammentazione ed erosione del consenso storico dei grandi partiti, come un po’ in tutta Europa, questa volta l’apprensione europea scaturisce dal consenso di un particolare partito di estrema destra, il PVV, che potrebbe diventare la prima forza politica in Olanda per consensi e deputati. Ma andiamo con ordine.
In Olanda il Parlamento si compone di due camere. Vi è da un lato un Senato eletto indirettamente dai Consigli Provinciali, che non ha un rapporto fiduciario col Governo, ma che può rallentarne la legislazione e bloccarne il bilancio. Dall’altro è presente una Camera di centocinquanta membri eletti direttamente.
Il sistema elettorale è un proporzionale puro: basta un centocinquantesimo dei voti, pari a circa lo 0.67%, per eleggere un deputato. Non sorprende, quindi, che dal 1900 nessun partito abbia avuto la maggioranza assoluta e si siano sempre formati dei governi di coalizione, anche molto improbabili, con un processo lungo e tortuoso, importante forse quanto le elezioni stesse.
Il Parlamento nomina un informatore, inizialmente di nomina regia, che avvia le consultazioni tra i vari partiti per formare una maggioranza. Le trattative possono protrarsi a lungo e diversi informatori possono succedersi, come avvenne nel 2010 quando il processo di formazione durò 127 giorni e vide sette cambi di informatori. Una volta chiuso l’accordo, che solitamente è esplicito, dettagliato e pubblico, l’informatore comunica al Sovrano il nome di chi procederà a formare il Governo, quasi sempre il futuro Capo del Governo.
Questo sistema, per quanto tortuoso e bizantino possa apparire a un osservatore esterno, funziona e tiene unito il Paese ed è generalmente accettato, o sopportato, dall’opinione pubblica.
Per parlare del PVV, bisogna parlare del suo leader Geert Wilders, per un motivo molto semplice: è tutto il partito. Wilders non è solo il leader ma è anche l’unico iscritto al partito, garantendo così il controllo completo.
Geert Wilders inizia tra le file del VVD, il partito liberale di governo, che lo elegge in Parlamento nel 1998. Dopo l’11 Settembre inizia a radicalizzarsi, avvicinandosi alla destra xenofoba, assumendo posizioni sempre più estreme fino a quando nel 2004 fonda il suo partito. Da questo momento la sua retorica fa un salto di qualità, divenendo una delle più pericolose d’Europa. In questo assomiglia più a Trump che a Le Pen: invece di lanciare messaggi che sottintendono un pensiero razzista, Wilders è esplicito e diretto.
Condannato per razzismo per la sua affermazione “Vogliamo meno marocchini in Olanda? Certo che sì”, non attacca l’estremismo islamico, ma vuole eliminare l’Islam e vietare il Corano. Non sottintende che l’immigrazione incontrollata possa essere un problema per l’ordine pubblico, ma parla di testosteronbommen, “bombe di testosteroni”, riferendosi agli immigrati di colore o di origine mediorientale.
A differenza di quanto avviene in altri populismi europei, non c’è un messaggio popolare che nasconde e rinforza il razzismo. Alcuni elementi della sua retorica appaiono poi fuori posto e incoerenti con il resto, come il totale e completo appoggio ad Israele. A questo si aggiunge il fatto che non sono chiare le modalità di finanziamento del PVV, che non può accedere a gran parte del finanziamento pubblico proprio per la sua struttura priva di democrazia; sappiamo che l’unica grande donazione ricevuta negli ultimi tre anni è dal David Horowitz Freedom Center, una fondazione che finanzia movimenti anti-Islam e filo-Israele.
D’altra parte va segnalato che il PVV svolge una campagna elettorale estremamente economica, esclusivamente online o per strada, senza mai affittare spazi per eventi, sapendo che la sicurezza sarà comunque garantita dalla polizia: Wilders è infatti sotto scorta da molti anni, essendo, com’è facile comprendere, bersaglio di numerose minacce.
La sensazione è comunque quella di un movimento fasullo quanto la chioma bionda di Geert Wilders, diventata un simbolo, tanto quanto quella di Trump o di Boris Johnson: utilizza infatti una tinta per coprire i capelli mori, che apparirebbero forse troppo poco “olandesi” per il suo messaggio xenofobo.
Il forte successo del PVV rilevato da molti sondaggi, secondo i quali si classificava come primo partito con forte distacco fino a poche settimane fa, ha allarmato molti in Olanda ed Europa. Ma Geert Wilders ha realistiche possibilità di influire sulla politica in Olanda? L’ascesa del PVV è il tema principale di queste elezioni?
Dopo le elezioni 2012 è nato in “soli” 54 giorni il secondo Governo Rutte, guidato dal partito liberale VVD (appartenente, a livello europeo, all’ALDE), con il sostegno del partito socialdemocratico PdvA, il più a destra del PSE, che ha adottato senza molte proteste politiche con un forte impianto di austerity.
Privo di una maggioranza al Senato, il governo ha dovuto trovare di volta in volta accordi con i partiti all’opposizione per approvare il bilancio, spesso con ulteriori concessioni a destra.
Gli effetti del sostegno a questo governo sono stati assolutamente disastrosi per i partiti che ne hanno fatto parte: secondo gli ultimi sondaggi il VVD passerebbe da 41 seggi a 27, grazie ad un improvviso rimbalzo, mentre le cose andrebbero peggio per il socialdemocratico PvdA che passerebbe da 38 a solamente 8.
Il crollo del PvdA rende difficile ogni previsione: moltissimi elettori storici sono ora “liberi” e non è chiaro se andranno a votare e cosa voteranno.
Probabilmente non voteranno SP (GUE/NGL), un dinamico partito socialista che, con un atteggiamento anticonformista, una certa mancanza di rispetto per le convenzioni olandesi e una serie di proposte chiaramente di sinistra è riuscito a guadagnare molti consensi, la cui crescita si è però fermata intorno al 10%.
Forse i consensi degli elettori “liberi” andranno ai Verdi, che in Olanda storicamente sono un partito di sinistra, ma che ora, presentandosi con un programma all’insegna di ecologia e generico rinnovamento, tendono a sfumare il loro impianto tradizionale e, secondo i sondaggi, a quintuplicare il proprio consenso, passando dal 2 all’11%. Tutto questo li renderebbe forse appetibili per una coalizione con partiti più liberali.
Se l’ascesa del PVV e dei Verdi prefigurava un lungo e burrascoso interregno, negli ultimi giorni circostanze come il rimbalzo del VVD, l’ascesa dei democristiani di destra del CDA (PPE), alleati naturali del VVD, e dei liberali riformisti del D66 (ALDE), aprono la strada anche ad una tradizionale coalizione di centrodestra. Quella che si è conclusa è stata una strana campagna elettorale, cominciata con il PVV primo partito e proseguita con diversi fuochi di paglia, come il partito dei pensionati 50+ arrivato a 13 seggi per poi ritornare ad una inconsueta ma più sensata stima di 5 seggi, o il partito dei diritti degli animali che in una rapida e vana ascesa sembrava stare superando i socialdemocratici. Ma le ultime ore fanno pensare ad un risultato più tradizionale. Il complesso sistema di formazione del governo rende difficile intuire la possibile composizione del nuovo governo ma appare sempre più probabile che il VVD ne sarà al centro.
Nelle ore che ci separano dalla chiusura dei seggi rimangono solo due certezze.
La prima è che il PVV è di fatto escluso dal governo: quasi tutti i partiti hanno giurato di non allearcisi e lo scontro frontale di questi ultimi giorni tra il primo ministro del VVD e Geert Wilders sulla questione turca di sicuro non apre sicuramente la possibilità di un ingresso del PVV in un governo di centrodestra.
La seconda è che il discutibile sostegno ad un governo impopolare di austerità ha inflitto ai socialdemocratici un colpo al quale difficilmente sopravviveranno, senza che, al tempo stesso, vi sia un chiaro erede che possa raccoglierne il consenso perduto.
Ed è forse questa la più importante questione in gioco in queste elezioni.