Scritto da Francesco Saraceno
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«Perché la lotta all’inflazione si è trasformata in una faccenda che coinvolge solo le banche centrali?».
In Oltre le banche centrali. Inflazione, disuguaglianza e politiche economiche – edito da Luiss University Press – Francesco Saraceno affronta uno dei temi economici cruciali del presente: l’inflazione. Saraceno ricostruisce storicamente i fenomeni legati all’inflazione, per poi riflettere sugli strumenti che è possibile dispiegare per contrastarla, anche andando oltre una concezione che vede le banche centrali come unici attori di questi processi e le politiche monetarie e gli interventi sui tassi come i soli strumenti a nostra disposizione.
Saraceno insegna macroeconomia internazionale ed europea presso le Università Sciences Po di Parigi e a Luiss di Roma ed è Vicedirettore dell’OFCE, l’osservatorio francese di congiunture economiche. Tra le sue precedenti pubblicazioni: La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela (Luiss University Press 2020) e La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia (Luiss University Press 2018). Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, l’introduzione del suo ultimo volume.
John Maynard Keynes nel 1936 concludeva con queste parole la sua opera più famosa[1]: «gli uomini pratici che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale sono generalmente schiavi di qualche economista defunto». L’economista defunto di cui sono schiavi gli uomini pratici di oggi è il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, al cui nome è associata, oltre a “imprese” di dubbio valore come quelle dei cosiddetti Chicago Boys, la controrivoluzione teorica che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso ha fatto tabula rasa delle idee keynesiane. Gli “uomini pratici” che (erroneamente) “si ritengono completamente liberi” sono oggi i banchieri centrali e molti esperti di economia.
Dopo i “gloriosi Trenta”, il lungo periodo di dominio della teoria keynesiana che ha seguito la crisi del 1929, Milton Friedman è stato il maggior artefice del ritorno in auge dell’idea che i mercati siano quasi sempre in grado di fare meglio della mano pubblica. Il nome dell’economista di Chicago è indissolubilmente legato alla teoria monetarista, che legava l’inflazione alla quantità di moneta in circolazione, dando quindi alle banche centrali la colpa di aumenti dei prezzi eccessivi (e, al contrario, il merito di tassi di inflazione moderati).
Il monetarismo ha avuto vita breve in accademia ed è stato apparentemente dimenticato da banchieri centrali e policy maker, forse complice il lungo periodo di tassi d’inflazione moderati che ha caratterizzato l’economia mondiale tra i primi anni Ottanta e oggi. Tuttavia, il ritorno sulla scena di Friedman è stato spettacolare e inarrestabile appena l’inflazione si è riaffacciata, nel 2021. L’idea per cui questa è essenzialmente un fenomeno monetario è riapparsa prepotentemente, nonostante tutto sembrasse indicare che gli aumenti dei prezzi fossero legati a scarsità, colli di bottiglia, tensioni sui mercati dell’energia e dei beni alimentari.
I prezzi hanno iniziato a impennarsi nel 2021 con la ripresa successiva alla pandemia e sono in seguito stati alimentati dalla crisi energetica e dall’invasione dell’Ucraina. La fiammata dei prezzi di energia e beni alimentari è durata poco più un anno, dalla metà del 2021 fino alla fine dell’estate del 2022, ma si è lentamente diffusa nell’economia. L’energia, infatti, è un input essenziale di produzione nei processi industriali e per molti servizi, che hanno quasi tutti visto i loro prezzi aumentare. Il biennio 2021-2022 ha riportato in auge il termine stagflazione, la coesistenza di un’economia in stagnazione e prezzi che aumentano[2].
Pochi, tra economisti, policy maker e commentatori mettono in dubbio il fatto che lo spettacolare aumento dei prezzi sia stato causato da fattori destinati a esaurirsi. È sicuramente temporanea la necessità delle imprese di rimpolpare le scorte dopo il Covid. Si prenda ad esempio il settore dell’autonoleggio: gli operatori durante la pandemia avevano di molto ridotto la dimensione del loro parco macchine, nel tentativo di evitare che si deprezzassero eccessivamente durante l’inattività forzata. Con il ritorno dell’attività economica, il tentativo di riportare le flotte ai livelli precrisi ha provocato un aumento vertiginoso della domanda e dei prezzi sia sul mercato delle auto nuove (dove, tra l’altro, i produttori erano in difficoltà per la penuria di semiconduttori), sia di quelle usate.
Un altro fattore indubbiamente temporaneo era per molti beni il disallineamento tra domanda e offerta, a seguito della ricomposizione dei panieri di consumo delle famiglie cui le imprese non avevano la capacità di adattarsi istantaneamente. Così, ad esempio, nel settore dei semiconduttori la domanda è esplosa già durante il Covid, a causa dell’aumento di acquisti di materiale informatico e di home entertainment, per poi continuare ad aumentare durante la ripresa, quando sono ripartiti i consumi di beni manufatti come ad esempio le automobili. Siccome i casi in cui la capacità produttiva può essere aumentata rapidamente costituiscono rarissime eccezioni e non la norma, questo ha provocato scarsità e aumenti dei listini.
Anche gli aumenti dei prezzi dell’energia apparivano, fin da prima dell’invasione dell’Ucraina, temporanei, frutto di un eccesso di domanda dovuto alla ripartenza dell’economia e ad altri fattori contingenti (le temperature estreme prima nell’estate e poi nell’inverno del 2021). Un eccesso di domanda che a medio termine (come puntualmente è avvenuto) sarebbe stato riassorbito dalla mobilizzazione di altre fonti di energia, dall’aumento della capacità di immagazzinamento, da misure di risparmio energetico. Al momento in cui scriviamo (luglio 2023), questi fattori temporanei sono quasi completamente rientrati. Sia gli indicatori di tensione sulle catene del valore (i colli di bottiglia, le scarsità di materie prima e via di seguito), sia i prezzi dell’energia sono tornati a livelli che non si vedevano dalla pandemia. Ciononostante, l’inflazione di fondo, quella depurata dai prezzi dei beni più volatili, scende con troppa lentezza.
Per questo, come già negli anni Settanta, economisti e policy maker dibattono animatamente su quali siano gli strumenti migliori per far fronte all’aumento dei prezzi. Alcuni ritengono che gli strumenti principali per affrontare un’inflazione alimentata dai prezzi delle materie prime, da strozzature e da costi di produzione in aumento siano la politica di bilancio, la regolamentazione e, nel medio-lungo periodo, la politica industriale. A questi si contrappongono coloro (la maggioranza) che, ispirandosi alle idee monetariste, propugnano politiche monetarie restrittive, a prescindere dalla natura temporanea dello shock, per convincere, “whatever it takes”, i mercati finanziari, le famiglie e le imprese che le banche centrali, uniche depositarie della lotta contro l’inflazione, sono serie nel loro sforzo di contrasto all’aumento dei prezzi. Questa tesi ha rapidamente guadagnato terreno tra gli “uomini pratici” schiavi dell’economista defunto Friedman e le banche centrali dopo qualche esitazione si sono gettate anima e corpo in una restrizione monetaria volta a spezzare le reni all’inflazione.
È certamente vero che, qualunque sia la natura della fiammata inflazionistica, le banche centrali possono riportare l’inflazione sotto controllo: contraendo l’offerta di moneta e aumentando i tassi di interesse possono rendere più difficile e costoso per imprese e famiglie prendere in prestito per investimenti o consumi, più oneroso pagare i debiti, e più redditizio risparmiare. Tutto ciò riduce la domanda aggregata portando a una diminuzione del livello dei prezzi e a un aumento della disoccupazione. In altre parole, vi sono pochi dubbi sull’efficacia di una restrizione monetaria nel far fronte all’inflazione.
Quello su cui oggi infuria la discussione è se, nella contingenza attuale, questa sia davvero la migliore opzione, il mezzo meno costoso, per riportare i prezzi sotto controllo; o se si possa invece fare ricorso ad altri strumenti senza infliggere all’economia un rallentamento o addirittura una recessione. Per rispondere a questa domanda è fondamentale, tuttavia, comprendere la natura dell’inflazione.
Non è la prima volta che la domanda si pone, visto che, ovviamente, fiammate inflazioniste si sono verificate già in passato. La figura 1 mostra i tassi di inflazione di alcuni Paesi avanzati dalla fine del Diciannovesimo secolo a oggi. È interessante notare due cose: in primo luogo, i picchi di inflazione si sono in genere verificati a seguito di distruzione o comunque disarticolazione della struttura produttiva: dopo le guerre, in seguito agli shock petroliferi degli anni Settanta, oggi con la crisi energetica che segue alla ripresa post-Covid (e purtroppo ancora con una guerra). In secondo luogo, il picco odierno, pur essendo chiaramente visibile nella figura, rimane al di sotto dei periodi di inflazione fuori controllo del passato. I tassi d’inflazione di oggi ci sembrano eccezionali soprattutto perché seguono un lungo periodo di moderazione dei prezzi; ma non sono tali in una prospettiva storica.
Nell’ultimo mezzo secolo si possono identificare tre fasi ben distinte:
Se la relazione tra prezzi, attività economica e politiche pubbliche è al centro delle controversie tra economisti fin dalle origini della “scienza” economica[3], mai come negli ultimi quindici anni le querelle tra accademici hanno avuto un impatto così forte sulla vita dei cittadini. È evidente a tutti oggi come le scelte di politica economica possano radicalmente cambiare, in peggio o in meglio, la vita di famiglie e imprese strette tra inflazione, potere d’acquisto in crollo verticale, crisi geopolitiche e ambientali e incertezza sul futuro. Nonostante sia così rilevante, tuttavia, proprio il dibattito sull’inflazione è oscuro e rimane appannaggio di pochi addetti ai lavori. Questo probabilmente per due ragioni: la prima è il carattere elusivo dell’inflazione, un concetto tanto ovvio a livello intuitivo quanto sfuggente quando si voglia chiarirne la natura e l’impatto: a titolo di esempio, si immagini quanto è diversa la percezione dell’inflazione e del proprio potere d’acquisto per una famiglia che si scalda con una caldaia a gas e per una che invece ha installato pannelli solari sul proprio tetto.
La seconda ragione è che molti hanno conosciuto solo la Grande Moderazione. Anzi, dal 2008 in poi, negli Stati Uniti e nell’Unione Europea il problema delle banche centrali è stato il contrasto alla tendenza deflazionista dell’economia. Fino all’inverno del 2021, tutte le generazioni nate dopo il 1965 non hanno mai vissuto l’inflazione durante la loro età adulta.
Questo saggio ambisce a chiarire i termini del dibattito mettendo ordine in queste due questioni: da un lato, ripercorre i grandi episodi inflazionistici del passato e il dibattito tra economisti su cause e rimedi dell’inflazione, nella convinzione che, come quasi sempre avviene, la conoscenza della storia sia il modo migliore per evitare gli errori del passato; dall’altro lato, mostra come la difficoltà di definire con precisione cosa sia l’inflazione e quali siano i suoi costi per la società ha contribuito a perpetuare una visione “monetarista” e aggregata di cui paghiamo ancora il prezzo. Mostrerò come negli anni Cinquanta Milton Friedman abbia riportato in auge l’idea pre-keynesiana per cui l’inflazione è determinata dall’offerta di moneta. Nell’ambito della sua critica alla teoria keynesiana, Friedman scrive infatti che «l’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario nel senso che è e può esser causata esclusivamente da un aumento della quantità di moneta più rapido rispetto a quello della produzione»[4]. Vedremo che la dottrina monetarista è stata più volte confutata nel corso del Ventesimo secolo, e oggi nella sua versione estrema non fa chiaramente più parte del consenso tra gli economisti. Tuttavia, ed è questo uno dei punti che emergeranno con forza in questo saggio, essa è sempre rimasta influente sottotraccia nel dibattito di politica economica.
Nell’ultimo libro pubblicato prima della sua scomparsa, Jean-Paul Fitoussi riprendeva la “neolingua” immaginata in 1984 da George Orwell, per affermare come la semplificazione del linguaggio in economia elimini o renda priva di significato ogni espressione che potrebbe servire a instillare il dubbio che esista un’alternativa alle politiche seguite da governi e banche centrali: «Il procedimento è questo: inventiamo un linguaggio basato su una teoria immaginaria (che può anche essere una vera teoria, ma non capita spesso) e ce ne serviamo per piegare la realtà ai nostri bisogni, per limitare la nostra comprensione al frammento più improbabile del reale»[5]. Con il monetarismo assistiamo a un procedimento di questo tipo. Nonostante la sua confutazione in ambito accademico, la riproposizione (spesso priva di fondamento) del mantra per cui l’inflazione è un fenomeno monetario finisce per far apparire al pubblico come inevitabile l’uso di politiche monetarie restrittive per affrontare l’aumento dei prezzi: è chiaro che, se si riesce a infondere nel pubblico l’idea che l’inflazione dipende dalla quantità di moneta in circolazione, allora diventa un’evidenza che non vale la pena nemmeno di discutere quella per la quale la responsabilità primaria di controllarla deve essere principalmente di chiunque sia responsabile dell’offerta di moneta, direttamente o indirettamente attraverso la sua influenza sul credito bancario.
Lo scopo di questo lavoro è quindi in primo luogo di uscire dalla neolingua, di convincere il lettore che l’inflazione non è sempre e solo un fenomeno monetario. Anzi, ho l’ambizione di argomentare che non lo è quasi mai. È considerata tale solo per l’incapacità dei policy maker di affrancarsi dall’influenza di vecchi schemi di pensiero. Liberarsi dell’influenza monetarista è necessario per arricchire il dibattito sull’inflazione e sugli strumenti per farvi fronte, cercando di rifuggire dalle semplificazioni fustigate da Fitoussi. Una volta chiariti i termini del discorso, sarà agevole mostrare i limiti della discussione che pervade la stampa e, purtroppo, anche il dibattito accademico; cercare di far capire perché una consistente minoranza di economisti ritiene le scelte di banche centrali e governi discutibili nella congiuntura attuale; e, non da ultimo, tentare di prevedere se nei prossimi anni dovremo abituarci a vivere con tassi di inflazione elevati e in tal caso come dovremmo prepararci ad affrontarli.
[1] John Maynard Keynes, The General Theory of Employment, Interest, and Money, McMillan, Londra 1936, cap. 24. Trad. it. Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino 1947. Il passo completo recita: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto».
[2] Il primo utilizzo del termine stagflazione è attribuito al conservatore britannico Ian Macleod, allora Cancelliere dello Scacchiere ombra, in un discorso tenuto alla House of Commons nel novembre 1965.
[3] Il lettore interessato a come le controversie tra economisti abbiano influenzato le scelte di politica economica fin dall’inizio del Ventesimo secolo può far riferimento a Francesco Saraceno, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia, con un saggio di Daniela Palma, Luiss University Press, Roma 2018.
[4] Milton Friedman, Inflation. Causes and Consequences, Asian Publishing House, Bombay 1963.
[5] Jean-Paul Fitoussi, La neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute (a cura di Francesca Pierantozzi), Einaudi, Torino 2019, p. XII.