“Ordoliberalismo” di Adelino Zanini
- 19 Gennaio 2024

“Ordoliberalismo” di Adelino Zanini

Recensione a: Adelino Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), il Mulino, Bologna 2022, pp. 568, euro 40 (scheda libro)

Scritto da Tommaso Cerutti

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Il termine ordoliberalismo è spesso evocato nel dibattito pubblico del nostro Paese, nella maggior parte dei casi venendo appiattito sul cosiddetto corso “neoliberale” assunto dalla politica mondiale alla svolta degli anni Ottanta del secolo scorso. Il primo a rilevare l’importanza di questa corrente di pensiero giuridico-economico per gli sviluppi della storia europea nel secondo dopoguerra ‒ nell’ottica di una critica da sinistra ‒ fu Michel Foucault nel corso delle lezioni tenute al Collège de France durante gli anni Settanta, rendendo noti agli intellettuali del Vecchio continente autori e opere che fino a quel momento avevano avuto una dimensione prevalentemente nazionale. Nelle conclusioni di Ordoliberalismo, però, Adelino Zanini esorta a non estenderne l’influenza al di là di coordinate cronologiche precise, che si sovrappongo all’incirca al periodo di permanenza della CDU-CSU nelle coalizioni di governo nel primo ventennio di vita della Repubblica Federale Tedesca. Ciò è reso evidente dall’analisi dell’operato di Alfred Müller-Armack in qualità prima di Segretario di Stato per gli affari europei e poi, dopo il 1963, di dirigente della Banca europea per gli investimenti. In quegli anni il politico e sociologo tedesco si sarebbe infatti speso per un maggior coordinamento delle politiche economiche dei sei Paesi, guardando anche a un allargamento della CEE che coinvolgesse i paesi dell’EFTA, senza però uscire dalle dinamiche dello Stato nazione, ritenendo utopistiche tanto una federazione politica quanto una moneta unica.

Sarebbe quindi un errore trascurare le notevoli evoluzioni intercorse dall’inizio degli anni Settanta, come anche l’apporto di altre e diverse culture nazionali e politiche, proiettando, tra l’altro, all’indietro una posizione di predominanza all’interno del continente europeo, ottenuta dalla Germania solo molto recentemente ‒ e forse più per debolezza altrui. L’autore rileva inoltre una certa distanza tra il momento delle teorizzazioni e quello della concreta attuazione delle politiche economiche, portate avanti dai governi tedeschi durante il corso erhardiano, apertosi con la riforma monetaria del 1948. Secondo quanto scritto da Gustavo Corni nella sua Storia della Germania, recentemente ripubblicata, andrebbe addirittura ridimensionata la portata delle riforme liberistiche del secondo dopoguerra, essendo il Wirtschaftswunder (miracolo economico) strettamente legato a un contesto internazionale favorevole, caratterizzato dall’apertura dei mercati e dall’erogazione dei finanziamenti dello European Recovery Program. Comunque le idee “ordoliberali” giocarono un ruolo importante in una Germania post-bellica alle prese con lo smantellamento di un apparato industriale fortemente statalizzato, permettendo contemporaneamente un non scontato approdo del partito di ispirazione confessionale (cattolico-luterana) ad idee conformi al liberalismo economico.

A questo proposito va sottolineato come Zanini, all’interno della galassia di autori che gravitarono intorno alla rivista Ordo, fondata nel 1948, tracci una netta distinzione tra gli sviluppi del pensiero di chi nel corso degli anni Trenta aveva dato vita alla Freiburger Schule (Scuola di Friburgo) ‒ avendo essa come epicentro l’università cittadina ‒ e la successiva evoluzione di questo nella Soziale Marktwirtschaft (ovvero l’economia sociale di mercato) ‒ secondo la definizione introdotta da Alfred Müller-Armack nel 1946 nello scritto Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft ‒ ispirata da autori della diaspora tedesca come Alexander Rüstow e Wilhelm Röpke. La peculiarità che caratterizzava la riflessione di questi due economisti non era solamente un maggior respiro internazionale, risultato degli anni di insegnamento all’estero vissuti in seguito all’esilio, che avevano portato a un confronto con gli sviluppi del pensiero “neoliberale” in altri Paesi. Piuttosto essa risiedeva nel fatto che entrambi riconoscevano una certa centralità alla risoluzione della questione sociale per la riedificazione di un nuovo ordine liberale, che non avrebbe potuto essere conseguita semplicemente attraverso il ritorno a logiche di mercato.

L’ordoliberalismo affondava le sue radici nella dissoluzione della Repubblica weimariana e nella contemporanea “crisi del capitalismo” che aveva caratterizzato l’orizzonte culturale post 1929, portando alla formulazione di varie ipotesi di un suo superamento. Già la Costituzione tedesca del 1919 aveva riconosciuto come la “vita economica” non potesse essere più vista come un ordinamento oggettivo regolato da leggi naturali di mercato, prevedendo che le libertà del singolo fossero temperate in questo campo dal rispetto di un minimo di giustizia, consistente nel garantire ad ogni cittadino un’esistenza degna dell’uomo (art. 151). Nel corso degli anni Venti gli articoli appartenenti al Capo V della carta di Weimar erano stati interpretati nel senso di un sempre maggiore interventismo statale in economia, continuando quelle che erano state le politiche implementate nel corso del primo conflitto mondiale, nell’ottica di una “via di mezzo” tra economia di mercato ed economia pianificata. Ciò si sarebbe accompagnato all’ascesa dei grandi cartelli industriali ‒ la cui esistenza era resa possibile da un’interpretazione ampia del diritto di coalizione garantito dall’articolo 159 ‒ in particolare nei settori del carbone e dell’acciaio, che avrebbero costituito una minaccia non solo per la concorrenza ma anche per lo Stato di diritto, rappresentando importanti forme di concentrazione di potere privato. Da qui una certa apertura di credito da parte dei freiburghesi nei confronti delle politiche implementate dal Terzo Reich all’inizio degli anni Trenta per contrastare il fenomeno. L’iniziale speranza di poter addivenire a un compromesso con la kombinierte Verfassung nazista non sarebbe però naufragata solo a causa del rapido cambio di rotta che avrebbe portato ben presto alla militarizzazione dell’economia tedesca in preparazione alla guerra, ma anche di una incompatibilità di fondo con la dottrina ordoliberale. Secondo la definizione data da Franz Neumann nel suo celeberrimo volume del 1942, il totalitarismo attuato dalla NSDAP (Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori) in Germania appare infatti come una radicale negazione dello Stato moderno. Riprendendo la celebre contrapposizione hobbesiana tra Leviatano e Behemoth, il politologo tedesco descrisse infatti il regime nazionalsocialista come un’organizzazione neofeudale in cui l’autorità della legge era stata completamente sostituita dall’arbitrio della volontà personale. Ciò avrebbe provocato un perenne conflitto tra poteri che, al contrario dei coevi sistemi liberal-democratici, non avrebbe trovato soluzione all’interno di strumenti di confronto istituzionalizzato.

Gli sviluppi del pensiero ordoliberale portarono invece ben presto alla conclusione che il binomio tra Stato di diritto ed economia di mercato non potesse essere scisso. Il concetto di Costituzione economica mantenne infatti la sua centralità, venendo declinata nel senso del mantenimento della concorrenza tramite l’azione politica di uno Starker Staat (Stato forte), che fosse però sempre conforme al mercato. Nella sua trattazione Zanini si sofferma principalmente sull’analisi della riflessione condotta da tre figure in particolare, ovvero: Walter Eucken, Franz Böhm e Alfred Müller-Armack.

Prendendo in considerazione il pensiero di Eucken e Böhm, che per primi insieme a Hans Großmann-Doerth avevano dato vita nel 1936 alla collana di testi Die Ordnung der Wirtschaft, l’autore riesce a restituire la duplice natura del discorso ordoliberale, che coinvolge allo stesso tempo elementi propri dell’economia e del diritto. Come notato da Zanini, per comprendere l’opera di Walter Eucken, appare centrale calarla nel contesto del Methodenstreit tra Scuola storica e Scuola austriaca, tra i seguaci di Gustav von Schmoller e di Carl Menger. L’apporto dell’economista tedesco si concretizza così in prima battuta nel tentativo di definizione dell’economia come scienza sociale, che, superando il piano dell’opinione soggettiva, sia in grado di descrivere la realtà obiettiva, tramite la costruzione di modelli concettuali. Messo da parte il determinismo di Wirtschaftsstufen e Wirtschaftsstile, che costituivano strumenti di comprensione contingenti a una determinata epoca storica, l’attenzione di Eucken si concentrò nella costruzione di forme ideali utili a descrivere la realtà economica, riconoscendone però l’irriducibilità a una teoria generale. Partendo da questo presupposto, la fondamentale antinomia tra economia regolata ed economia di scambio era analizzata nel senso di un Lenkungsproblem, ovvero di chi si pone alla guida dello sviluppo. Il tentativo di dare risposta al problema distributivo causato dallo squilibrio di forze prodotto dall’ordinamento economico spontaneo proprio del laisseiz-faire ottocentesco ‒  che aveva causato all’inizio del Novecento una sempre maggiore richiesta di giustizia e di sicurezza ‒ tramite lo statalismo e la socializzazione avrebbe prodotto secondo Eucken, la proliferazione di monopoli e oligopoli, aprendo alla lotta tra poteri privati per la definizione della politica economica. Ciò si sarebbe accompagnato alla rapida soppressione delle libertà politiche oltre che economiche, in seguito alla progressiva centralizzazione dei poteri causata dalla trasformazione delle crisi economiche in crisi politiche, dovuta alle sempre più pressanti richieste di intervento da parte dello Stato, che si sarebbe ben presto trasformato in Stato amministrativo. In alternativa a questi scenari Eucken guardava alla definizione di una «politica economica costituzionale» fondata su una politica monetaria stabilizzatrice, l’esistenza di mercati aperti, la proprietà privata, la libertà di contratto, la responsabilità civile dell’imprenditore e infine la costanza della politica economica. Di fianco a questi «principi costitutivi» erano poi individuati una serie di «principi regolativi» tesi a garantire un ordine concorrenziale, ovvero: la regolazione dei monopoli, una politica dei redditi, il calcolo economico (che avrebbe dovuto tener conto delle esternalità negative dei singoli piani aziendali in ottica macroeconomica) e il controllo del comportamento anomalo dell’offerta.

La regolazione dei monopoli costituiva un punto focale anche per Franz Böhm. L’ottica da cui veniva affrontato il problema dal giurista tedesco era quello della salvaguardia dell’interesse pubblico, che sarebbe stato danneggiato da un sistema di prezzi determinato da attori privati. L’obiettivo della salvaguardia di una «lotta regolata», in cui fosse valorizzata la competizione e non l’armonia, a patto però di non scadere in un conflitto senza quartiere, era assicurato per Böhm dalla congruenza tra economia e diritto privato. Quest’ultimo era visto come un momento di organizzazione della società al di fuori dello Stato, il quale era inteso non in senso dicotomico ma piuttosto come l’operare della prima tramite organi istituzionali. L’incompatibilità tra Stato centralizzato e democrazia affondava le sue radici nell’interpretazione delle lotte costituzionali inglesi del XIII secolo non come tese alla conquista di diritti individuali ma piuttosto di una società governata tramite common law, al fine di difendersi dall’arbitrio del sovrano. In questo senso se da una parte la libertà diveniva un diritto di cittadinanza e non più un dono di natura, dall’altra il confronto era spostato da quello tra Stato di diritto e Stato sociale a quello tra Stato di diritto e Stato interventista, debole in quanto, similmente a quanto affermato da Eucken, condizionato dal potere di gruppi privati. Così la battaglia antimonopolistica comune al pensiero ordoliberale ‒ che avrebbe ispirato gli articoli 85 e 86 del trattato di Roma del 1957, contribuendo a dotare la Comunità europea di una legislazione antitrust, implementata negli Stati Uniti a cavallo tra Otto e Novecento con lo Sherman Act (1890) e il Clayton Act (1914) ‒  si fondeva in Böhm con la critica della politica del Mitbestimmung (codeterminazione), contrariamente a quanto affermato ad esempio da Müller-Armack. La partecipazione dei sindacati ai processi di decisione aziendale, che riprendeva pratiche implementate dall’ADGB (Confederazione generale dei sindacati tedeschi) durante il periodo weimariano, era interpretata come lesiva del ruolo del consumatore, favorendo un accordo tra produttori senza garantire una reale democrazia economica, quanto piuttosto una maggiore democrazia politica che coinvolgeva i soli quadri dirigenti sindacali. Le associazioni dei lavoratori rimanevano d’altronde per Böhm forme di monopolio autorizzate, con capacità di influenzare le scelte pubbliche solo nei modi previsti dalla Costituzione, massimamente colmando le disparità di potere contrattuale tra imprenditore e lavoratore.

Come sottolineato da Zanini, il pensiero di Müller-Armack differiva da quello degli autori della Freiburger Schule principalmente per la contestualizzazione della vita economica all’interno di un più ampio ambiente sociale, politico e culturale ‒ che, come si è accennato, era proprio anche del “liberalismo sociale” di Rustow e Röpke ‒ concetto derivato dal sociologo tedesco dall’antropologia filosofica di Scheler e Plessner. Procedendo da questa visione Müller-Armack definiva il processo innescatosi nel Cinquecento in Europa con l’avvento di un «sistema complessivo dinamico» caratterizzato dalla penetrazione dell’idea di progresso nell’attività commerciale, nell’ottica di una storia economica come parte integrante di una storia spirituale, non appiattendo tutto sulle logiche del profitto ma segnalando invece la centralità del Dasein umano. La metafisica dello Stato, la fede cieca nel progresso economico e perfino l’antropologia biologico-razziale nazifascista divenivano in questo senso il prodotto non della tecnicizzazione ma della secolarizzazione. La risposta a tale situazione sarebbe passata attraverso l’eticizzazione dei rapporti sociali insieme all’approdo a un approccio non utopistico che coniugasse la libertà con un quadro di diritto pubblico relativo all’ordinamento economico, mirando a limitare il più possibile posizioni di vantaggio e differenze reddituali. L’economia sociale di mercato si fondava perciò sul criterio fondamentale di umanità guardando a una soziale Irenik che permettesse di conciliare valori tra loro contrastanti come libertà, giustizia e crescita economica, senza negare le divergenze né sacrificare il principio di unità. In questo senso veniva lasciato spazio a una politica sociale non in conflitto con la logica di mercato. Essa si concretizzava in misure come una redistribuzione dei redditi che, attraverso la tassazione di quelli più alti, assicurasse ad esempio sussidi all’infanzia o politiche abitative ‒ implementate durante la ricostruzione tenendo conto sia delle esigenze di un piano generale, sia dell’iniziativa individuale. Erano poi ammesse misure di controllo attive, attraverso l’utilizzo di politiche monetarie e creditizie, e una Konjunkturpolitik, a patto che non fossero infranti i principi della stabilità monetaria e di bilancio. Il fine della garanzia della sicurezza individuale, al quale solo uno Stato democratico forte ‒ ovvero autorevole e non autoritario ‒ poteva provvedere, avrebbe poi portato dopo il 1948 Müller-Armack a guardare con attenzione anche a politiche di riqualificazione del lavoro e di investimento nell’istruzione e nella ricerca, insieme a politiche ospedaliere.

Tirando le fila del discorso si può affermare che, attraverso una critica dei concetti che procede da un punto di vista storico-filosofico, il brillante saggio di Adelino Zanini esplora un momento di rilievo all’interno del pensiero politico europeo, descritto come un’innovativa formulazione giuridica di principi economici non nuovi. Come espressamente dichiarato nell’introduzione, con uno sguardo al presente, la solida analisi condotta nei capitoli del volume permette poi, in calce ad essi, una breve trattazione in merito al legame tra ordoliberalismo e Repubblica Federale Tedesca e ordoliberalismo e Unione Europea, negando in sostanza l’esistenza di un’identità tra termini, e pone al contempo idealmente le basi per una ricerca futura.

Scritto da
Tommaso Cerutti

Laureato in Scienze storiche presso l’Università degli studi di Milano. Recentemente ho avuto modo di collaborare con la Fondazione Achille Marazza di Borgomanero, oltre a scrivere alcuni contributi per riviste di settore, cartacee e on-line.

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