Scritto da Alessandro Ambrosino
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In occasione degli europei di calcio 2016, è apparsa su Facebook una simpatica immagine satirica. I regali favoriti di Francesco Giuseppe disegnavano sul suo viso un’espressione perplessa di fronte al fatto che la nazionale austriaca si sarebbe incontrata con quella ungherese nella fase a gironi. Così il buon imperatore si chiedeva: «D’accordo Austria-Ungheria, ma contro chi?».
Il successo della vignetta, in Italia, è stato virale. Tuttavia non c’è niente di nuovo: questo gioco di parole è un vecchio Witz, ovvero una storiella satirica della tradizione mitteleuropea, che circola ancora in tutti i territori dell’ex impero asburgico da quando le due nazionali hanno giocato insieme per la prima volta ed esemplifica alla perfezione il feeling tra le due ex componenti della monarchia danubiana. Niente irrita di più il magiaro che essere considerato uno dell’Est o che l’Ungheria sia considerata un Paese dell’Est Europa. Non si tratta solo del Ponte Delle Catene e dei suoi piloni in stile neoclassico o dei grandi palazzi; l’impero è altrove: specialmente nei sapori, nel continuo rimando a Vienna e all’Europa quando si tratta di discutere dei propri riferimenti culturali, ma soprattutto «in quella nostalgia per l’epoca d’oro imperiale che segna l’ultimo grande momento felice prima di oltre un secolo di catastrofi »1.
Tuttavia, questa non è che una parte, per lo più dettata dal rimpianto, dell’elaborazione identitaria dei magiari. Basta analizzare il preambolo della nuova costituzione dell’Ungheria, promulgata nel 2011, per trovare riferimenti a radici ben più profonde rispetto al modello asburgico. Gli ungheresi si richiamano al mito di re Stefano, fondatore della prima monarchia ungherese indipendente, agli antenati che hanno combattuto per l’indipendenza e l’unità della nazione, alle origini cristiane dell’Europa e della loro patria, alla loro lingua unica e, non ultimo, ricorrono ad una vera e propria damnatio memoriae del periodo comunista2.
Questo ambivalente atteggiamento di autopercezione spesso genera confusione in molti cittadini dell’Europa Occidentale, ancora abituati a ragionare nei termini della Guerra Fredda, dove una precisa linea culturale e politica divideva il mondo secondo linee ideologiche chiare separando l’Ovest dall’Est, visto come un’area di economia pianificata, uniforme da Belgrado a Mosca. Per la maggior parte degli abitanti di Francia, Gran Bretagna, USA, Italia e via dicendo, l’Est era – e spesso è ancora – qualcosa di sfumato, inaccessibile e soprattutto incomprensibile in tutta la sua complessità etnica e linguistica. Solo i grandissimi cambiamenti a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, ed in particolare l’estensione dell’economia di mercato anche a territori che fino a poco tempo prima ne erano del tutto esclusi, hanno obbligato l’Occidente a ridefinire il concetto stesso di Europa e ad interrogarsi sull’identità di quei territori3.
Il problema, però, è che anche gli stati dell’Europa Centrale – e fra questi l’Ungheria è un caso emblematico – si sono trovati di fronte alla sfida di ridefinire la loro identità. In un contesto in cui le truppe sovietiche pian piano si ritiravano e iniziavano a tenersi libere elezioni, i leader emergenti di questi Paesi, utilizzando in maniera ragionata le possibilità politiche ed economiche che l’apertura degli anni Novanta concedeva loro, seppero far riemergere nei loro compatrioti sentimenti nazionalistici di cui si aveva solo uno sbiadito ricordo dopo il quarantennio comunista. In particolare, uno dei principali problemi che i nuovi governi post-sovietici si trovarono ad affrontare era il problema delle minoranze etniche, cristallizzate all’interno di confini internazionali definiti arbitrariamente sin dai tempi dei trattati che posero fine alla Prima Guerra Mondiale. Il riaffiorare di tensioni e l’incertezza data dal repentino mutamento spinse i governi ad intraprendere politiche di protezione, difesa e supporto non solo dei gruppi minoritari in un ottica di salvaguardia dell’unità etnica della nazione, ma anche degli stessi cittadini, spingendoli alla completa chiusura verso possibili mescolanze con gruppi esterni4.
In un recente saggio, la studiosa americana Myra Waterbury ha preso ad esempio proprio l’Ungheria per chiarire il perché della ritrovata forza di questi elementi nella politica interna ed esterna nell’Europa Orientale. La risposta a cui arriva l’autrice, tuttavia, è che il riemergere del nazionalismo etnico dopo il 1989 è solo una spiegazione parziale per comprendere il riaffiorare dell’impegno politico verso le minoranze ungheresi presenti negli stati vicini. Ciò che conta è anche: « il desiderio delle élite politiche, per lo più provenienti dalla destra, di accedere ad un ampio spettro di risorse all’interno delle comunità […] passando dal mercato del lavoro, alle relazioni politiche, ai simboli necessari per la costruzione della nazione »5.
L’unico modo, continua l’autrice, per comprendere questo rinnovato dinamismo politico dei leader dell’Ungheria verso la difesa dell’unità etnica del paese è guardare al suo passato storico e analizzare l’evoluzione del nazionalismo a partire dalla formazione di un’identità ungherese indipendente all’interno del variegato impero asburgico6.
Nei primi decenni del XIX secolo, il nazionalismo ungherese, come poteva essere quello sloveno, o quello ceco, era definito più in termini culturali e territoriali che etnici7. Per di più, erano spesso le èlites intellettuali, in testa il poeta nazionale ungheresi Sándor Petőfi e il politico Lajos Kossuth, che agitavano le masse dietro precise strategie politiche di tipo liberale. Fu dopo la rivolta del 1848, ma in particolare dopo l’Ausgleich del 1867, la riforma costituzionale che equiparò politicamente ed amministrativamente la metà ungherese della monarchia a Vienna, che il nazionalismo ungherese si trasformò da liberale a qualcosa di più etnico ed esclusivistico. Iniziò così a svilupparsi una visione per cui era necessario “magiarizzare” le minoranze etniche presenti in Ungheria sulla base di una supposta lingua e cultura ungheresi superiori che subiva gli attacchi del panslavismo e del pangermanesimo da ogni lato8. A questo si aggiunse un crescente antisemitismo e l’idea della superiorità razziale. Chiaramente, come scrive lo storico Joseph Rotschild, « Le classi dominanti si nascondevano dietro la retorica della “sopravvivenza nazionale” per mantenere privilegi politici e sociali »9.
La fine della Prima Guerra Mondiale e la disgregazione dell’Impero Asburgico causò nella società dell’Ungheria una vera e propria crisi di identità. Il Trattato del Trianon, firmato il 4 giugno 1920 aveva privato l’Ungheria di un terzo del suo territorio, diviso la sua popolazione fra stati completamente nuovi creando grossi problemi etnici con Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia, dove tre milioni di ungheresi si erano trovati di colpo stranieri in casa loro, e ridotto a meno della metà la sua potenza industriale. Il Trattato divenne da subito un simbolo di sofferenza, umiliazione e sconfitta, tutti elementi che le élite politiche, in particolare durante il regime dell’Ammiraglio Horthy (1920-1944), furono in grado di gestire per costruire una nuova forma di nazionalismo basato su elementi irredentisti e revanscisti.
I contenuti di questo nazionalismo revisionista facevano leva sui classici temi della mitologia identitaria dell’Ungheria: la battaglia per la giustizia contro le nazioni straniere che avevano soggiogato la nazione, la superiorità magiara e il riconoscimento dell’Ungheria come forza civilizzatrice nella regione e protettrice della cristianità Occidentale. Inoltre, si sottolineava la necessità di restare uniti per difendersi dal rischio di morte per annegamento in un mare di slavi. Addirittura le sofferenze del Trianon vennero paragonate alle sofferenze del Cristo sulla Croce10. Si crearono così le condizioni per giustificare le preoccupazioni di Budapest verso i suoi vicini, la necessità di porsi come protettori speciali delle minoranze ungheresi rimaste fuori dal nuovo stato, di riarmarsi e di vendicarsi del Trattato11. Fu quindi la necessità della leadership politica di mantenere il potere, unita al trauma della disgregazione della Grande Ungheria a formare i presupposti per una politica estera il cui principale scopo era difendere l’unità linguistica e culturale di tutti gli ungheresi, elemento che comportò il pericoloso avvicinamento alle potenze dell’Asse. L’alleanza sembrò dare ragione al governo, infatti prima dell’inizio e poi durante la Seconda Guerra Mondiale vennero recuperate vaste aree della Cecoslovacchia e della Transilvania ma al prezzo di permettere ad Hitler liberi movimenti di truppe sul suolo ungherese. L’invasione della Jugoslavia, avvenuta proprio attraverso le pianure a sud del lago Balaton, legò definitivamente il governo di Horthy, prima, e poi quello fantoccio di Ferenc Szálasi dal 1944, al destino della Germania.
La battaglia di Debrecen nel 1944 ma soprattutto la presa di Budapest nel febbraio del 1945 segnò l’inizio della presenza sovietica nel Paese. Un sommesso tentativo di governo democratico tra il 1947 e il 1948 non poteva certo competere con le forze d’occupazione, così s’impose il partito unico comunista. Durante tutto il periodo socialista il nazionalismo venne bollato come «la primaria ideologia nemica del popolo»12 e Mosca, in un’ottica di affermazione dell’ «internazionalismo socialista»13 impedì ogni revisione del Trianon al fine di dimostrare che le teorie revisioniste degli anni tra le due guerre erano le uniche responsabili della morte e della distruzione dello stato. Naturalmente questo non significava abbandonare per sempre il patriottismo, bensì trasformarlo in « lealtà verso l’Unione Sovietica, il liberatore dell’Ungheria dal giogo Tedesco»14. Il primo governo comunista di Mátyás Rákosi si mosse proprio in questa direzione, obbedendo ai dettami di Mosca e abolendo numerosi simboli nazionali. In questo modo i simboli ungheresi diventarono parte del discorso intellettuale, spesso censurato. Fu con la morte di Stalin nel 1953 che si vide un certo rilancio del nazionalismo inteso come liberazione dalla dominazione straniera. Per questo, in tutto l’Est Europa si verificarono in quegli anni dimostrazioni che chiedevano la possibilità di sviluppare il socialismo in forme nazionali indipendenti. In Ungheria questo progetto politico venne perseguito da Imre Nagy, uno dei leader della rivoluzione del 1956. Sostituito dai sovietici per rimpiazzare Rákosi, egli promosse politiche di apertura – prendendo a modello Tito -, libertà intellettuale e recupero di elementi della storia ungherese che Mosca aveva eliminato. Tuttavia, proprio per questi progetti venne bollato come nemico del popolo ed espulso dal partito nel 1955. La rielezione di Rákosi non fece altro che aumentare l’inquietudine a Budapest, che infatti, influenzata anche dagli avvenimenti che stavano scuotendo la Polonia, si sollevò alla fine di ottobre dell’anno successivo. La rivoluzione si concluse con l’ingresso dei carri armati sovietici in città il 4 novembre, la condanna a morte dei capi degli insorti, fra i quali vi erano, appunto Nagy e Pál Maléter, e l’elezione al governo filosovietico di János Kádár15.
La posizione ufficiale del nuovo governo fu quella del silenzio totale e fino alla fine del regime comunista fu vietato riferirsi ai fatti del 1956, addirittura si arrivò, in certe vie a togliere i numeri civici 55, 56 e 5716, per quanto, al fine di recuperare credibilità e fiducia nella popolazione, fu necessario un compromesso tra la lealtà verso Mosca, un miglioramento delle condizioni di vita del popolo e una minima tolleranza del dissenso, della religione e dei movimenti verso Ovest. Grazie a queste politiche indulgenti, soprattutto sul piano individuale, Kádár fu in grado di mantenere un consenso invidiabile in altre capitali dell’Est e fu in grado non solo di dare un’immagine positiva del socialismo reale, ma anche di instaurare nei cittadini l’idea che alcune delle richieste del ’56, alla fine, fossero state realmente concesse. Insomma, come ha scritto Bernardo Valli: « Budapest costava cara all’Unione Sovietica. Ma ne valeva la pena»17. Tali sussulti di libertà permisero anche un rinnovato discorso, ovviamente sempre interno al partito, sulle questioni etniche e la ricerca dell’identità magiara. Così, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, lo scottante tema venne gradualmente riportato alla ribalta fino a che, nel contesto della grave crisi del sistema socialista, si arrivò al punto di considerarlo l’elemento essenziale per la credibilità politica e la legittimazione del partito. I discorsi che facevano capo alle radici dell’unità magiara, alle minoranze etniche oltre i confini e alla questione religiosa divennero il nodo fondamentale che teneva insieme l’ala riformista del Partito e gli intellettuali nazionalisti che stavano riemergendo nel periodo di transizione che scuoteva tutti i paesi del Patto di Varsavia.
Le prime libere elezioni in Ungheria nel 1990 sancirono la definitiva ripresa dei discorsi nazionalistici all’interno del Parlamento Ungherese, infatti le due nuove formazioni politiche di centro-destra, il Fidesz e l’MDF, che si erano imposte mentre il Partito Comunista perdeva credibilità, avevano fortemente reindirizzato i loro progetti sulla riaffermazione dell’identità nazionale, a cominciare proprio dalla riabilitazione dei morti della rivolta del ‘56. La già citata Myra Waterbury, comparando i diversi approcci adottati dai due partiti durante gli anni Novanta in Ungheria ha mostrato come da un lato ci fosse un vero e proprio desiderio di rimettere al centro l’unità nazionale ungherese dopo quarant’anni di rimozione, pianificando una rinnovata azione politica verso i vicini e dall’altro come Fidesz fosse stato, nel corso degli anni, più attento ad utilizzare lo strumento politico del nazionalismo per creare reti fra i leader degli ungheresi all’estero e legittimare la transizione democratica al fine di guadagnare consensi18.
In conclusione, quello che emerge analizzando con ottica storica l’evoluzione dell’identità dell’Ungheria è che, come ha detto il professor Stefano Bottoni «L’Ungheria è un Paese malato di storia»19, nel senso che la maggior parte degli eventi dell’ultimo secolo ricordano agli ungheresi sconfitte e catastrofi, rendendo così la popolazione stanca di celebrazioni e rimembranze ma allo stesso tempo incapace di creare una memoria condivisa. Il rischio concreto è l’incapacità di guardare con occhio critico al proprio passato, impedendo così uno sguardo al futuro libero dall’uso delle radici come arma politica.
1# Intervista a Katalin Enikő Barát, rilasciata a Alessandro Ambrosino il 29 ottobre 2016 a Venzone (UD).
19# A. Solarino, Budapest 1956. La memoria divisa, speciale RAI News, reperibile al link http://www.rainews.it/dl/rainews/media/ContentItem-83904548-fb11-453b-9d0d-798ef969d0e5.html .
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Articoli di giornale
Fonti video
SOLARINO ALESSANDRA, Budapest 1956. La memoria divisa, speciale RAI News, 2016 reperibile al link: http://www.rainews.it/dl/rainews/media/ContentItem-83904548-fb11-453b-9d0d-798ef969d0e5.html
Interviste