Recensione a: Edoardo Borgomeo, Oro blu. Storie di acqua e cambiamento climatico, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 176, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Giuseppe Palazzo
9 minuti di lettura
“L’acqua è vita” è una delle verità più ovvie. Talmente ovvia da essere sottovalutata. Edoardo Borgomeo, PhD in Idrologia presso l’Università di Oxford, titola i capitoli del suo primo libro, Oro blu (edito da Laterza), riprendendo espressioni comuni, da “acqua alla gola” ad “andare controcorrente”. Una scelta linguistica per ribadire come l’acqua faccia parte della nostra cultura ma tendiamo a darla per scontata, a non averne cura. Lo spirito che anima il testo vuole “rompere gli argini”, in tutti i sensi: da una parte dare il più possibile all’acqua gli spazi che cerca, perché costringerla nelle condotte e allontanarla dalle città sarà via via meno possibile; dall’altra non confinare il tema nell’ambito tecnico, bensì comprenderne le implicazioni sociali. La gestione dell’acqua è compito di tutti. L’autore cerca di risvegliare la nostra idrofilia, termine preso dalla chimica usato nel libro per indicare un rapporto equilibrato con l’oro blu. Ogni capitolo corrisponde a un viaggio e tutte le riflessioni partono dalla vita quotidiana delle persone, dai contadini siciliani al consulente di Rotterdam. Un approccio che alcuni definirebbero geopoetico[1]. Attraverso ogni luogo visitato, dal Bangladesh al Brasile, dal Pakistan al Messico, Borgomeo illustra le principali sfide legate all’acqua.
Acqua tra cambiamento climatico e urbanizzazione
Il viaggio comincia in Bangladesh, dove, attraverso la quotidianità di Namrata, allevatrice di gamberetti in un villaggio costiero, si spiegano molte delle sfide da affrontare a livello mondiale. Il Paese è spesso colpito da eventi estremi, più frequenti a causa del riscaldamento globale. Temperature più alte implicano una maggior evaporazione dell’acqua del Golfo del Bengala che, a sua volta, genera forti venti e piogge. Ne derivano cicloni, piogge torrenziali e inondazioni. In particolare queste ultime costituiscono il disastro naturale più frequente sul pianeta, con il maggior numero di morti e i maggiori danni economici.
Oltre agli eventi estremi bisogna considerare la qualità dell’acqua in sé. Sulle coste bengalesi i cittadini bevono l’acqua piovana che raccolgono in fosse scavate appositamente, ma se non è la stagione delle piogge devono ricorrere ai pozzi. L’acqua si trova anche nel terreno, negli strati di rocce permeabili che formano gli acquiferi. Tuttavia quest’acqua è salata e così gli abitanti assumono 5-16 grammi di sale al giorno contro i 2 raccomandati dall’OMS, con pesanti ripercussioni sulla salute, dall’ipertensione ai danni al feto per le donne incinte. La salinizzazione degli acquiferi tende inoltre a peggiorare a causa dell’innalzamento dei mari, dell’evaporazione dovuta alle temperature e di una estrazione eccessiva di acqua[2]. Un danno importante per l’agricoltura sulle lunghe e popolose coste del Bangladesh e dei Paesi vicini. Tutto è poi aggravato dalle dinamiche di mercato: i gamberetti sono tra i principali beni di esportazione, ma vengono allevati in acque salmastre mantenute salate con l’acqua di mare, alterando il ricambio fisiologico dell’acqua nel terreno.
Vanno monitorati anche i livelli di altre sostanze nocive, alcune derivanti da industria e agricoltura, altre rilasciate dalle rocce, tra cui l’arsenico, incolore, insapore e inodore in acqua. 85 milioni di bengalesi sono infatti considerati a rischio avvelenamento. Non sorprende pertanto che tra il 2005 e il 2010 più di 1,5 milioni di abitanti siano emigrati, soprattutto nei Paesi del Golfo e in Europa.
Leggendo di inondazioni e di innalzamento dei mari verrebbe da pensare che di acqua ce ne sia fin troppa sulla Terra, ma, come l’esempio del Bangladesh ci mostra, è l’acqua potabile, non salata e non inquinata, che conta[3]. Secondo l’UNESCO, l’aumento della popolazione e dell’urbanizzazione, i nuovi stili di consumo e l’evaporazione provocata dalle alte temperature hanno generato un aumento dell’utilizzo dell’acqua del 70% dal 1970 al 2010, per agricoltura, industria, energia e città. Dal 2000 al 2050 si stima un aumento ulteriore del 55% della domanda[4]. L’acqua dolce in particolare, quella di fiumi e laghi, si sta riducendo. Occupa meno dell’1% della superficie del pianeta ma comprende il 10% delle specie animali e vegetali, fra quelle più a rischio estinzione. Lo scioglimento dei ghiacciai aumenta la portata dei fiumi, anche provocando esondazioni, ma nel tempo li lascia via via all’asciutto[5]. Il fiume São Francisco in Brasile fatica ad arrivare alla foce e invece è il mare che invade la parte terminale del fiume, alterando l’ecosistema e contribuendo alla salinizzazione degli acquiferi. Questo fiume, lungo più di 3.000 km, è usato dall’autore come un importante esempio del problema. Non solo per la grande riduzione della sua portata, scesa al 24% circa[6], ma anche per l’utilizzo della risorsa attraverso le dighe. Su queste l’autore si sofferma molto, in quanto «racchiudono molte delle sfide dell’acqua del mondo: sono fra le infrastrutture più complesse da progettare e con maggior impatto sul territorio. Sono anche uno degli strumenti principali sviluppati dall’uomo per controllare la forza distruttiva dell’acqua e sfruttarne la forza produttiva» (p. 22). L’idroelettrico è la principale fonte rinnovabile al mondo (63% dell’elettricità rinnovabile generata nel 2018[7]), e vi sono Paesi, come il Brasile, che vi dipendono molto. Tuttavia la vita di una diga è costellata di conflitti e scelte importanti. La loro costruzione implica l’inondazione e lo spopolamento di intere aree, mentre la siccità rende necessario scegliere quanta acqua assegnare all’idroelettrico, all’irrigazione, alla pesca e al sostentamento delle città. Vi sono in ballo non solo interessi, anche diritti[8].
Tutti questi fenomeni hanno pesanti ripercussioni sulle città, sempre più grandi, popolose e assetate, il cui sostentamento si basa su fiumi via via più striminziti e fonti via via più svuotate. L’autore riporta il caso emblematico della capitale messicana. L’antica Città del Messico, la azteca Tenōchtitlan, concedeva all’acqua dei suoi cinque laghi il suo spazio, permettendole di inondare e fertilizzare il terreno. I colonizzatori hanno invece allontanato l’acqua, costruendo argini, interrando i fiumi e traforando montagne per far defluire l’oro blu altrove. Le conseguenze nei secoli, aggravate dall’enorme crescita della città, da 2 a 20 milioni di abitanti in 60 anni, sono ben visibili oggi: gli acquiferi non riescono più a riempirsi con le piogge, a causa dell’impermeabilizzazione del suolo dovuta al cemento, e il terreno argilloso senza acqua non sorregge la metropoli, sprofondata di 10 metri durante il XX secolo. Oggi, per abbeverarsi, depurare e scaricare le acque, la città deve guardare a fonti e fiumi sempre più lontani con l’ausilio di centinaia di migliaia di chilometri di condotte e di potenti pompe, necessarie per portare l’oro blu a una delle capitali più alte del mondo (oltre 2.000 metri). Conseguentemente le zone attorno sono sempre più private di acqua e inquinate. In aggiunta la rete idrica cittadina perde più del 35% dell’acqua potabile.
Città del Messico emerge quindi come un esempio di scarsa pianificazione del processo di crescita urbana, ma non è un caso isolato[9]. L’autore dedica spazio a Karachi, in Pakistan, e al sistema delle autobotti, una vera e propria mafia dell’acqua, che arriva nelle periferie non servite dalla rete vendendo a caro prezzo l’indispensabile risorsa.
A situazioni del genere il libro contrappone l’esempio dei Paesi Bassi, che si sono sviluppati come «un gigantesco castello di sabbia perfettamente curato, fatto di muri, canali e pompe» (p. 51). La gestione dell’acqua è stata un motivo importante dello sviluppo delle istituzioni democratiche a partire dai “parlamenti dell’acqua” (waterschappen) del XIII secolo, assemblee per decidere quanta acqua prelevare o scaricare, come e dove costruire argini, ecc. Oggi Amsterdam offre appoggio diplomatico ai consulenti del Paese, per vendere la secolare esperienza all’estero, e preserva questa conoscenza per il futuro. Ai bambini si insegna a riconoscere le misure attuate nei loro quartieri e a comprendere dove occorre la partecipazione attiva dei cittadini. Da un lato l’approccio consiste nel dare all’acqua il suo spazio evitando che questa se lo prenda con la forza degli eventi estremi e dell’innalzamento dei mari. Dall’altro si rompono gli argini tra le professioni. Non solo si coinvolgono economisti e sociologi ma si incoraggiano sensibilità e conoscenza di base per tutti i cittadini. Non a caso nelle città olandesi si trovano meno argini e più spazi vivibili in modo diverso in base al meteo. Luoghi come Rotterdam sono celebri per strutture che immagazzinano l’acqua piovana e che gradualmente la rilasciano nel sistema fognario, impedendo sovraccarichi. Un esempio ne sono le “piazze d’acqua”, in cui alcuni spazi, quando piove, diventano dei laghetti, dando nuove identità a scorci di città[10].
Acqua e co-appartenenza dal diritto naturale alla “riverlution”
Il libro contiene inoltre riflessioni interessanti anche riguardo il sistema fognario, che risente del modo in cui si smaltiscono i rifiuti, e riguardo l’acqua in bottiglia, di cui l’autore descrive inutilità e danni, in particolare dove l’acqua della rete è sicura, come in Italia. L’ultima parte della recensione preferisce tuttavia focalizzarsi su un altro tema cruciale, che è il cuore del messaggio del libro: il rapporto tra uomo e natura, qui declinato dal punto di vista dell’acqua. Vi sono due esempi significativi.
La regione dell’Ahwar, nell’Iraq meridionale, a valle di Tigri e Eufrate, è caratterizzata da una rete di canali e stagni naturali che rendono molto fertile l’area. I sumeri vi crearono l’agricoltura e la scrittura necessaria per tramandarne le tecniche, tra cui l’irrigazione. Queste pratiche, affinate nei secoli, sono arrivate fino alla popolazione locale sciita, permettendole di vivere in equilibrio con la natura. «Qui il paesaggio è cultura, riflette pratiche millenarie di gestione delle risorse» (p. 102). Dagli anni Ottanta la regione è stata sconvolta dalle persecuzioni di Saddam Hussein prima, poi dall’innalzamento delle temperature, dall’inquinamento dei due fiumi e dalla riduzione dell’acqua dovuta alle dighe costruite nei Paesi a monte. Negli anni Novanta gli abitanti della regione sono calati da mezzo milione a 20.000. La trasmissione delle buone pratiche è dunque in crisi[11].
Il rapporto equilibrato tra uomo e natura non riguarda solo buone pratiche, consiste in una concezione di se stessi come parte della natura. Un esempio di tutto questo lo forniscono i maori Whanganui Iwi in Nuova Zelanda. Questi hanno contestato per 140 anni la proprietà del fiume Whanganui da parte del governo di Wellington. Per loro il fiume è un antenato, un membro della famiglia. Ritengono che il fiume si possa utilizzare e approvano progetti di purificazione e irrigazione, purché non si consideri il Whanganui una proprietà, del governo o di chiunque altro. La questione è terminata con quella che l’autore chiama una “riverlution”, crasi tra river e revolution. Nel 2017 si è giunti all’accordo per cui il fiume ha personalità legale ed è rappresentato da due “guardiani”, uno scelto dal governo e uno dai maori. La riverlution parte dalla considerazione che, negli ordinamenti occidentali, il danno a un fiume esiste solo se ha degli effetti per una persona, un interesse o un’attività («il fiume non ha valore intrinseco, ma solo in relazione ai bisogni umani» p. 42), e conclude che, dando personalità giuridica al fiume si allargano i reati punibili e si hanno strumenti in più per tutelare l’ambiente. Il fiume da oggetto diventa soggetto.
L’autore, oltre a fornire al vasto pubblico un quadro delle sfide dell’acqua, pone le basi per una riflessione più vasta. Il dualismo uomo-natura, che identifica la seconda come un oggetto di utilizzo e indagine del primo, non aiuta a comprendere la riverlution. La natura si è configurata, anche nel diritto, come mero oggetto della tecnica degli esseri umani. Non esiste un diritto naturale che possa dirsi tale, ovvero derivante da condizioni date esterne all’uomo. Anche questo diritto, infatti, deriva dallo sguardo dell’uomo sulla natura, foriero di diverse interpretazioni. A questo si aggiunge l’affermazione dell’economia di mercato, un’economia de-territorializzata, difficile da regolare attraverso il diritto, che ha autorità territoriale, e distante dalle storie dei luoghi. Il nuovo mercato è accompagnato da una specializzazione crescente nelle professioni[12]. Un argine, per dirla alla Borgomeo, che rende le classi dirigenti meno in grado di comprendere le questioni e vederne le interrelazioni. Rendere la natura un soggetto che effetti potrebbe avere? Può aiutare a recuperare una visione più interdisciplinare e sensibile alle dinamiche locali, sia naturali sia sociali?[13]
Piuttosto che sperare nel riaffermarsi di un diritto naturale condiviso da tutta l’umanità, bisogna forse trarre ispirazione dall’idrofilia descritta nel libro. Idrofilia trovata dall’autore nei Paesi Bassi, ma che meglio si apprezza nel capitolo dedicato alla diga sul fiume Jato, in Sicilia, voluta da Danilo Dolci. Il progetto è partito dall’ascolto dei contadini di Partinico e Trappeto, costretti a pagare la mafia per l’acqua necessaria al loro lavoro e alla loro vita. Si è giunti alla diga nel 1967, escludendo la mafia dai lavori e passando per un dialogo che facesse prendere coscienza alla popolazione dei propri problemi e delle possibili soluzioni. La copertura finanziaria è stata gestita da un consorzio democraticamente eletto.
«L’idrofilia vuol dire comprendere e conoscere il potenziale sociale dell’acqua, la sua capacità di collegare le aspirazioni di centinaia e migliaia di individui per modificare le strutture del potere e le decisioni pubbliche […] è una visione dell’acqua come occasione per articolare i propri bisogni e prendersi parte della responsabilità, senza prepotenze contro altri esseri umani, e senza distruggere gli ecosistemi» (pp. 136-137).
[1] «[…] geopoetica, che altro non è che la geopolitica, ma che non arriva alla vita delle persone partendo dai macro temi, ma inverte il percorso: le storie delle persone sono quelle che indicano i temi macro per cui vale la pena lottare» da Christian Elia e Angelo Miotto Angelo su «Q Code Magazine».
[2] Margherita Ciervo, Geopolitica dell’acqua, Carocci, Roma 2010 (e ristampa 2011).
[3] Idem.
[4] UNESCO, The United Nations World Water Development Report 2020 – Water and climate change, 2020.
[5] Margherita Ciervo, Geopolitica dell’acqua, Carocci, Roma 2010 (e ristampa 2011).
[6] La riduzione della portata media è rilevata anche nei fiumi italiani, per vari motivi: in 75 anni -25% per il Tevere e l’Adige, -35% per il Flumendosa e -45% per l’Arno; nel 2005 -50% per il Po rispetto alla media del decennio precedente. Da Margherita Ciervo, Geopolitica dell’acqua.
[7] International Renewable Energy Agency (IRENA), Renewables Energy Highlights, 01/07/2020.
[8] Secondo Borgomeo «la scarsità raramente genera conflitti», bensì «è una molla che porta a superare tensioni per trovare un’intesa senza la quale la disponibilità del bene comune diventa incerta» (pp. 119-120). Non bisogna farsi trascinare dal fascino dell’inevitabilità delle guerre dell’acqua, in quanto questa nasconde solo altri interessi, secondo l’autore. Solo se il problema della gestione della risorsa non viene risolto emergono conflitti, tra comunità locali piuttosto che tra Stati. In effetti attribuire i conflitti ad una sola causa, con affermazioni generali, rischia di essere semplificatorio. Per una panoramica sul ruolo dell’acqua nei conflitti, si veda Alessandro Mauceri, Guerra all’acqua, Rosenberg & Sellier, Torino 2016, recensito da Gabriele Sirtori su «pandorarivista.it».
[9] Un esempio più vicino a noi è quello di Barcellona, che nel 2008 ha importato acqua dall’estero e la cui sete ha riaperto lo scontro con gli agricoltori sulla possibile deviazione del fiume Ebro. Da Margherita Ciervo, Geopolitica dell’acqua.
[10] Si veda questo approfondimento di Pandora e Mezzi Pietro, Pelizzaro Piero, La città resiliente, Altreconomia, Milano 2016.
[11] A proposito di acqua e cultura, si ricorda quanto sollevato da Paolo Venturi, Direttore di AICCON, nel dibattito “Sfera pubblica e generazioni” del Dialoghi di pandora Rivista Festival 2020: fra i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’ONU, relativi a tante dimensioni dello sviluppo, acqua inclusa, non c’è la cultura. Eppure è questa che permette di immaginare e costruire il futuro. Secondo Venturi occorre declinare la cultura all’interno di ognuno dei 17 obiettivi e per farlo, suggerisce chi scrive, potrebbe essere utile osservare i temi con un approccio multidisciplinare e vicino alla popolazione locale, come fa Borgomeo con l’acqua. Link al video del dibattito (riflessione di Venturi dal minuto 12 circa).
[12] Natalino Irti, L’uso giuridico della natura, Laterza, Roma-Bari 2013.
[13] In merito si consiglia Pennacchioni Giulio, La natura in politica: la sfida ecologica in filosofia, su «pandorarivista.it».