Pensare insieme: la ricerca sui concetti politici. Intervista a Giuseppe Duso
- 11 Febbraio 2021

Pensare insieme: la ricerca sui concetti politici. Intervista a Giuseppe Duso

Scritto da Giovanni Comazzetto, Matteo Bozzon

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Pubblichiamo qui la prima parte di una lunga intervista a Giuseppe Duso (a questo link la seconda parte “Crisi della rappresentanza, federalismo ed Europa”) che verte in particolare sull’esperienza del Gruppo di ricerca padovano sui concetti politici e sulla riflessione da esso portata avanti, nonché sul metodo di ricerca collettiva da esso messo in campo.

Giuseppe Duso ha insegnato filosofia politica presso l’Università di Padova fino al 2012. Ha partecipato all’iniziativa di alcune riviste quali «Il Centauro» e «Laboratorio politico». Fin dal 1987 è nella direzione di «Filosofia politica». È stato uno dei fondatori del Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE), di cui è stato Direttore, ed ora è Presidente. Ha tenuto corsi e lezioni in diversi paesi europei e latino americani. Dal 1985 ha coordinato il gruppo di ricerca padovano sulla storia dei concetti. Attualmente insegna alla UNSAM di Buenos Aires, nella quale ha ricevuto nel 2015 la laurea honoris causa. Molti dei suoi lavori sono dedicati ai fondamentali concetti politici moderni in una linea di ricerca storico-concettuale alla quale il gruppo padovano ha dato un originale contributo.


Il Suo apprendistato filosofico avviene nel segno di autori classici come Platone, Hegel e Fichte in modo particolare. Il lavoro di ricerca del Gruppo padovano invece va di pari passo con una riflessione storico-concettuale, che s’inserisce nel solco della Begriffsgeschichte e della Verfassungsgeschichte tedesche dando ad esse una decisiva torsione filosofica. Quale rapporto c’è tra questi momenti apparentemente così distanti tra loro?

Giuseppe Duso: Al centro della mia formazione negli anni degli studi universitari stava il problema teoretico del principio e della struttura del pensiero. Devo dire che l’aspetto più importante della mia formazione è stata la lettura continua di Platone che ho fatto assieme a Franco Chiereghin – da studente io e lui da docente. Questa è andata di pari passo con la continua analisi dei testi hegeliani. I due classici si sono intrecciati nella tesi di laurea che ha dato luogo al primo libro Hegel interprete di Platone (1969). La mia ricerca era allora centrata sul tema dell’idea e del ruolo della contraddizione nel movimento del pensiero. Su questo tema ho lavorato per una decina d’anni attraversando diversi autori. Credo che tutto ciò abbia avuto un ruolo quando la ricerca si è focalizzata sul ‘politico’ ed è iniziato il lavoro che chiamiamo ‘storico-concettuale’. Infatti, l’imporsi del problema teoretico ha costituito la spinta per una radicalizzazione filosofica della Begriffsgeschichte tedesca, almeno per quello che riguarda la mia personale pratica della storia concettuale (senza volere con ciò coinvolgere l’intero Gruppo), al punto che appare ora assai diversa dalla linea seguita da coloro che si riferiscono alla Begriffsgeschichte medesima. La storia concettuale appare così caratterizzata da uno stile critico che ha come riferimenti l’élenchos socratico e l’Aufhebung hegeliana: un’interrogazione interna a ciò che si esamina per farne emergere le contraddizioni e quindi la possibilità del superamento. Ma il tema dell’innegabilità e dell’eccedenza dell’idea nei confronti di ogni sua determinazione si ripresenta anche nel modo in cui, anche nel presente, si impone la questione della giustizia e la sua irriducibilità alla soluzione formale moderna.

 

Se si ripercorrono le vicende del Gruppo padovano sui concetti politici, emerge in modo chiaro come l’indagine filosofica sia in definitiva un’impresa collettiva. Alla luce dell’esperienza del Gruppo, che cosa ha voluto dire fare ricerca in comune? E cosa ha significato in relazione all’organizzazione della vita accademica?

Giuseppe Duso: Anche l’aspetto collettivo della ricerca è legato, per quanto mi riguarda, alla formazione filosofica. Contro posizioni spesso diffuse anche in Italia che intendono la filosofia come una concezione del mondo basata su alcuni presupposti e che ambiscono all’originalità, io credo, invece, che la filosofia sia soprattutto domanda radicale delle opinioni diffuse e dei presupposti dei saperi, e ricerca di ciò che ci accomuna nel pensiero. Conseguentemente il lavoro filosofico non può essere che comune, non è l’invenzione di un pensatore nel suo isolamento e nella sua autosufficienza. Il Gruppo padovano è stato totalmente anomalo all’interno dell’Università. Si è creato grazie al fatto che soggetti provenienti da esperienze diverse si sono trovati in un momento in cui era per tutti pressante l’esigenza di trovare strumenti per la comprensione del politico, sia per dare un senso alla ricerca e all’insegnamento nell’Università, sia perché una tale comprensione non appariva più direttamente attingibile nella pratica politica. L’anomalia risulta anche dal fatto che, all’inizio, il gruppo era composto, per la quasi totalità, di semplici laureati in filosofia (anche da alcuni studenti) che, dopo la laurea, non avevano nessun legame con l’Università. Per il lavoro seminariale e per le ricerche che sono state pubblicate la motivazione era costituita dalla passione per la ricerca e dalla percezione di trovare strumenti per la comprensione del politico, unite a una lettura dei classici più fedele ai testi e insieme più produttiva per il nostro pensare (miracolo della storia concettuale!). Poi, credo, anche dal piacere di pensare in comune. Per il lavoro del gruppo, si sono sfruttati gli spazi e le occasioni offerte dall’Università, di volta in volta diversi (seminari collegati ai corsi, alla scuola di perfezionamento, al dottorato ecc.). Egualmente sono state utilizzate le risorse finanziarie dei progetti ministeriali per la pubblicazione dei libri. Si può dire che non si è trattato di un’esperienza prodotta dalla logica dell’organizzazione universitaria, ma piuttosto che è avvenuta nonostante tale logica e, tuttavia, grazie alle notevoli opportunità – forse uniche – che l’Università riesce ad offrire.

 

Vi sono state per un periodo intersezioni tra le riflessioni sulla crisi del politico portate avanti nel Gruppo di ricerca padovano, la vicenda operaista e l’esperienza di alcune riviste (Il Centauro, Laboratorio politico) che miravano a ‘tenere il passo’ delle straordinarie vicende e trasformazioni (politiche e non solo) che segnano il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta nel nostro Paese. Come giudica oggi questo snodo?

Giuseppe Duso: Attraverso la vicenda operaista, peraltro complessa e segnata da diverse esperienze, è passato solo qualcuno, ma prima che il gruppo si formasse. Non c’è stato un confronto collettivo sulla teoria e sulla prassi che all’operaismo ha fatto capo. Mentre c’è stato un contributo evidente di membri del Gruppo all’esperienza de Il Centauro e poi, in parte, anche di Laboratorio politico, ma, in realtà, non da parte del gruppo nel suo complesso che era allora in formazione. Il Centauro è nato attorno alle due figure note di Biagio De Giovanni e di Massimo Cacciari, ma di fatto è stato preceduto dall’incontro di due gruppi, quello barese-salernitano con Roberto Racinaro, Roberto Esposito e Francesco Fistetti, e quello padovano, che era però allora costituito da alcuni di coloro che stavano cominciando ad occuparsi di filosofia politica, assieme a Umberto Curi, Giangiorgio Pasqualotto, e alcuni più giovani che lavoravano con loro. L’esperienza è stata interessante perché ha dato vita a una rivista che molti ancora rimpiangono. I numeri uscivano da incontri comuni organizzati a Napoli o a Roma (in casa di Giacomo Marramao), che erano preceduti da incontri padovani, a volte anche fatti assieme a Cacciari. A Laboratorio politico, invece, ho partecipato ufficialmente io, che nella redazione facevo da tramite con i padovani, anche perché, all’epoca della sua proposta sull’autonomia del politico (si veda il libretto del 1977), collaboravo con Mario Tronti, che poi è stato coordinatore del comitato di direzione della rivista. La sfida era quella di superare l’impostazione ideologica del Partito Comunista, per porre il problema dei processi reali e la necessità di attraversare i saperi. Entrambe le riviste si sono situate in un momento importante e delicato di trasformazione, e hanno dato luogo ad una riflessione collettiva filosofica e politica. Si può dire che, dopo questa duplice esperienza, è mancato in Italia lo spazio per una riflessione collettiva sul politico che non fosse condizionata, da una parte da situazioni e discipline accademiche, e dall’altra dalla richiesta di una immediata presa di posizione politica, atteggiamento che spesso impedisce di cogliere i veri problemi, che non emergono dalle parti in contesa, ma risiedono nel terreno stesso (presupposto e non pensato) in cui questa avviene.

 

Come si sono intrecciati nel corso della sua vita il lavoro di ricerca e la militanza politica?

Giuseppe Duso: Curiosamente, quando mi occupavo delle strutture del pensiero, prendevo posizioni politiche; quando ho cominciato a riflettere e a fare ricerca sulla politica, non ho più fatto politica attiva. Negli anni Settanta mi occupavo del problema del principio, dell’idea e della contraddizione, e al contempo prendevo posizione politica all’interno dell’Università, e anche fuori, nell’ambito di iniziative prese in comune tra personale universitario e operai delle fabbriche del padovano. Ma la mia presenza in queste esperienze politiche non ha certo avuto un particolare rilievo. La mia percezione è che allora mi sentissi comunista piuttosto che marxista, in quanto, pur considerando imprescindibile il contributo marxiano in relazione alla questione politica fondamentale della giustizia, tuttavia uno ‘schema marxista’ mi pareva riduttivo per comprendere la realtà e la politica. Ciò anche perché il problema specifico che mi stava di fronte era quello di pensare il ruolo dell’Università nella società. L’area alla quale ero collegato era la sinistra sindacale interna alla CGIL. Poi sono stato iscritto al PCI per pochi anni. Ero consapevole che tale iscrizione doveva però essere pagata con la rinuncia all’iniziativa politica. Quando questo è risultato palese, ho smesso di rinnovare la tessera. Forse quell’esperienza mi è servita per maturare i miei dubbi su un reale ruolo dei partiti (e parlo di partiti ben diversi da quelli attuali) ai fini della partecipazione politica. Poi c’è stato il passaggio tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta in cui la mia riflessione filosofica e la stessa ricerca si sono rivolte al tema politico. Questo è cominciato con altri amici, che hanno dato vita di fatto all’esperienza di gruppo. Anche se i riferimenti che ci sono stati al nostro lavoro (in alcune pubblicazioni si parla di Scuola padovana) possono far pensare a qualcosa di unitario e in qualche modo formalizzato, è da tener presente che si è trattato essenzialmente di un’esperienza in cui ci si è trovati a pensare insieme, provenendo da itinerari diversi, liberamente, al di là di ogni tipo di organizzazione, accademica o politica. L’occasione contingente è stata la duplice questione posta da Norberto Bobbio nel 1975: esiste una dottrina marxista dello Stato? Ed esiste un’alternativa convincente e praticabile al modello della democrazia rappresentativa? Su questa domanda si era sviluppata una discussione nell’area marxista, ed era intervenuto nel ‘76 Toni Negri su aut aut. Bene, da qui abbiamo cominciato a cercare strumenti per comprendere la genesi e la logica della forma-Stato e per pensare la politica oltre lo Stato. Abbiamo subito incrociato il pensiero di Carl Schmitt sul quale, grazie all’organizzazione dell’Istituto Gramsci Veneto diretto da Umberto Curi, è stato possibile (dopo un anno di lavoro seminariale) organizzare a Padova un convegno, nel 1980, con la presenza, oltre che di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, anche di Tronti, Cacciari, Marramao. Gli atti del convegno (La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Arsenale, Venezia, 1981) hanno avuto risonanza e creato sconcerto, per il fatto che erano intellettuali di sinistra ad occuparsi del giurista tedesco. Sconcertata è stata Ilse Staff, che ha dedicato un libro alla recezione italiana di Schmitt. Contrariato è stato anche Habermas, che in un’intervista rilasciata ad Angelo Bolaffi su Rinascita del gennaio 1981 ha definito ‘catastrofica’ l’ipotesi che la sinistra riprendesse elementi essenziali da Schmitt. Ma l’interesse per Schmitt è stato, da subito, accompagnato a quello per Otto Brunner, e questa contemporaneità è stata molto rilevante, sia per la nostra lettura di Schmitt, sia per la nostra pratica della storia concettuale, nella quale, come più volte ho cercato di mostrare, Brunner è stato più presente di Reinhart Koselleck – in modo anomalo nei confronti di quasi tutti coloro che sono orientati per le loro ricerche dalla Begriffsgeschichte tedesca. Tra gli amici con cui è cominciato questo lavoro comune, è da ricordare innanzitutto Alessandro Biral, che ha dato un contributo critico fondamentale in merito al dispositivo di quei concetti moderni – quali società, Stato, popolo, sovranità, rappresentanza, potere, rivoluzione – che sono stati al centro dei primi libri collettanei fino a Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, che è stato determinante per gli sviluppi successivi. Ma in questi primi tempi era presente anche Adriana Cavarero, la quale poi ha seguito un suo itinerario, ben più noto, anche a livello internazionale, del nostro lavoro; Adone Brandalise, che, con l’originalità dell’intreccio di saperi che lo caratterizza, è da allora sempre stato attivo all’interno del lavoro di gruppo; e inoltre Sandro Chignola, con il quale in seguito ho cooperato direttamente in merito a problemi teorici e metodologici della storia concettuale, e Mario Piccinini, Maurizio Merlo, Gaetano Rametta, Merio Scattola, Antonino Scalone. Paradossalmente – ma credo questo sia anche legato al tipo di lavoro svolto in comune, che non ha come esito una comune pratica politica – da allora non ho più svolto attività politica diretta, ma ho considerato come legato ad una responsabilità politica di fondo – che è altra cosa dallo schieramento nella lotta politica – il lavoro di formazione degli studenti e il mio impegno nel lavoro filosofico di gruppo. Mi è parso che, nel caso di chi, come me, non riusciva ad avere efficacia e risultati nell’attività politica, quest’ultima costituisse uno spreco di tempo, che mi sembrava meglio speso nella prassi dell’insegnamento e del lavoro di gruppo.

 

Un aspetto che non può non colpire ripercorrendo le vicende del Gruppo di ricerca padovano riguarda il coinvolgimento all’interno di un lavoro comune di studiosi afferenti alle discipline più diverse. Ciò che emerge tuttavia non è tanto una ricerca estesa a quante più discipline possibili, bensì la natura a-disciplinare della domanda filosofica che si impone entro e oltre la pretesa chiusura dei vari ambiti disciplinari. Coglie nel segno questa considerazione? Qual è la rilevanza di un’impostazione di questo tipo oggi?

Giuseppe Duso: La considerazione è perfetta! È significativo che anche nei bollettini universitari che contenevano i programmi dei corsi, spesso fossero indicati come seminari ‘in(ter)disciplinari’, cioè che non intersecavano discipline diverse per avere un quadro più complessivo, secondo il modo in cui ci si riferisce alla interdisciplinarietà, ma piuttosto tendevano ad una incursione (filosofica) all’interno delle discipline, per valorizzarne gli ambiti e i terreni di indagine, legati alla prassi e alla politica, e nello stesso tempo per interrogarne i presupposti e problematizzare le linee consolidate di sviluppo. L’intreccio con la storia, il diritto, la sociologia, le discipline politiche appare importante per una filosofia che non si converta in astratta teoria. A questo proposito è stata importante la collaborazione con Schiera: molti di noi hanno periodicamente frequentato i seminari da lui organizzati a Trento presso l’Istituto Storico Italo-Germanico (i miei appunti di allora portano come contrassegno il titolo di ‘costituzione’). Questa pratica filosofica, che vede la filosofia impegnata all’interno dei diversi ambiti rivolti alla prassi, non è compatibile con la riduzione della filosofia a disciplina. Si tratta, invece, di un lavoro del pensiero interno ai saperi, ma anche al senso comune e alla vita. A questo proposito, è significativo che, quando è successa una cosa imprevista, cioè che molti membri del Gruppo di ricerca sui concetti, che erano fuori del mondo accademico, sono entrati nell’Università come professori o ricercatori (alcuni avevano prodotto prima di avere un posto all’Università – si pensi a Merio Scattola – i titoli maggiori con i quali hanno poi ottenuto la cattedra), questo sia avvenuto in discipline diverse e considerate accademicamente lontane tra di loro. In relazione alla domanda che mi avete rivolto alla fine, sì, penso che in questo lavoro stia la vitalità e la necessità della filosofia, che risulta legata alla vita e all’esperienza, e opera all’interno dei saperi, ma anche della vita in comune e della politica, ponendo problemi inaggirabili, e stimoli all’innovazione. Questa è la forza di una filosofia intesa in questo modo: non c’è nessuno che può rifiutare l’interrogazione riguardante il rendere ragione delle proprie affermazioni e della loro pretesa verità, se non sottraendosi al logos e diventando simile a un tronco, come diceva Aristotele.

 

Nell’Università odierna è pensabile una modalità di organizzazione del lavoro di ricerca simile a quella praticata dal Gruppo di ricerca padovano?

Giuseppe Duso: Non lo so: l’evento non è prevedibile. Però posso dire che è difficile. Perché devono restare fuori campo le aspettative riguardanti la carriera accademica, che i giovani attratti dalla ricerca comprensibilmente hanno. L’esperienza del Gruppo è stata legata ad una situazione contingente, quella della mia irrilevanza nell’organizzazione del potere accademico. Perciò non ci potevano essere aspettative di carriera e, come prima è stato detto, la remunerazione del lavoro (seminari, ricerca, pubblicazioni) poteva risiedere solo nella passione per il pensare in comune e nei risultati raggiunti. Senza voler esprimere un giudizio, che non spetta a me, sui risultati del lavoro complessivo di ricerca, a titolo di mera constatazione, bisogna ricordare che l’esperienza di un gruppo che per più decenni si confronta sulle linee teoretiche e metodologiche della ricerca, produce lavori collettanei (libri o numeri monografici di rivista) che risultano da seminari continuativi, per lo meno annuali, e discute anche le numerose monografie prodotte dai singoli, è un’esperienza che credo essere unica in Italia, ma forse anche in Europa, come dicevano gli amici che presentavano qualcuno di noi, per una qualche iniziativa, in Francia, in Spagna e in Germania. Per un’esperienza simile è necessario che ci sia un senso del comune che va al di là della pretesa della propria originalità. Questo senso del comune non deve essere scambiato per omogeneità e riduzione ad unum, perché diverse sono state le posizioni e anche il significato che si è attribuito al lavoro, come mostrano i contributi e lo stesso titolo del libro che i membri del Gruppo hanno voluto pubblicare alla fine del mio insegnamento: Concordia discors. Allora, tornando alla domanda, io non so se questo sia possibile oggi. Una cosa posso dire: se fossi ancora nell’Università, non potrei concepire il mio lavoro in modo diverso da come è stato, sempre se fossi fortunato da trovare chi vuole percorrere la strada insieme: non tutti gli studenti si pongono in questo atteggiamento.

 

Quali dovrebbero essere a Suo avviso le questioni più urgenti da porre al centro dell’indagine comune?

Giuseppe Duso: Risposta lampo. Da un punto di vista teoretico e di analisi storica, il problema consiste nel pensare insieme le aporie della concettualità moderna, l’attraversamento dei classici che si pongono prima della Trennung, e la proposta riguardante come pensare nel presente la politica oltre la forma-Stato. Credo che i risultati della ricerca abbiano condotto alla necessità di ripensare la democrazia, superando le aporie intrinseche nel concetto di potere rappresentativo e ponendo al centro la relazione di governo, per quanto riguarda sia il compito e la responsabilità di chi esercita la funzione di governo, sia la partecipazione dei cittadini e la primarietà del popolo nella sua concreta pluralità. Se è così, il problema consiste nel riuscire a intrecciare una riflessione che tenti di pensare – dal punto di vista delle categorie e dell’assetto costituzionale – l’istituzione politica in modo diverso dalla democrazia costituzionale concepita nell’orizzonte della sovranità, con il problema del governo democratico di quei processi globali (organizzazione del capitale, fenomeni come quelli della rete, problemi dell’ambiente) che oggi esercitano un dominio reale sulle nostre vite e non sono politicamente governati, al punto da sembrare ingovernabili.

Scritto da
Giovanni Comazzetto

Ha conseguito il dottorato di ricerca in giurisprudenza presso l’Università di Padova nel 2019; è attualmente cultore della materia (Diritto pubblico e Diritto costituzionale) presso la medesima Università. Si occupa di teorie del costituzionalismo oltre lo Stato e della tutela multilivello dei diritti fondamentali.

Scritto da
Matteo Bozzon

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia e Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova e l’Università Humboldt di Berlino. È stato borsista di ricerca presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Humboldt. Collabora con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e col Gruppo di ricerca padovano sui concetti politici.

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