Recensione a: Stefano Beltrame e Raffaele Marchetti, Per la patria e per profitto. Multinazionali e politica estera dalle Compagnie delle Indie ai giganti del web, Luiss University Press, Roma 2022, pp. 192, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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La sempre maggiore complessità dello scacchiere globale impone un’analisi in grado di valorizzare i diversi attori che, in un modo o nell’altro, assumono un ruolo rilevante nello stesso, in una combinazione di interessi che ne rende il volto intrinsecamente ibrido. L’ordine creatosi dopo la Seconda guerra mondiale, accompagnato dai processi di globalizzazione e dagli sviluppi tecnologici, ha favorito l’emergere di numerose entità, ulteriori rispetto agli Stati, in grado di influire sulle dinamiche globali: istituzioni sovranazionali, ONG, fondazioni, multinazionali, amministrazioni locali dotate di una certa autonomia. La necessità di tenere conto di tutte queste realtà non implica una negazione del ruolo degli Stati come attori principali – il paradigma vestfaliano mantiene la propria centralità – quanto piuttosto suggerisce uno sguardo più ampio per cogliere le sfide strategiche presenti e future.
In merito, è uscito di recente un importante volume scritto a quattro mani da Stefano Beltrame, diplomatico di lungo corso, e Raffaele Marchetti, professore di Relazioni internazionali all’Università Luiss di Roma, intitolato Per la patria e per profitto. Multinazionali e politica estera dalle Compagnie delle Indie ai giganti del web (Luiss University Press 2022). Tra i diversi attori non statali summenzionati, il libro si focalizza sulle multinazionali e, in particolare, sull’intreccio tra grandi imprese e politica estera. Il lavoro, che trova negli autori l’incontro di esperienza pratica e teoria, adotta una prospettiva perlopiù storica, evidenziando come l’emergere stesso degli Stati sul modello vestfaliano sia stato sempre accompagnato dall’azione di compagnie private (e non solo) in grado di influenzare o partecipare in modo determinante alla politica estera degli Stati stessi.
La pace di Vestfalia del 1648, che pose fine alla sanguinosa guerra europea dei trent’anni, è convenzionalmente considerata come il momento in cui il concetto moderno di Stato trova una definizione, quale entità superiorem non recognoscens costituita dal trinomio governo-popolo-territorio. Attore principale nello scacchiere internazionale, lo Stato non vede ridurre la propria rilevanza nemmeno con l’emergere del paradigma di San Francisco, ossia la creazione delle Nazioni Unite come organizzazione sovranazionale atta a dare vita ad una collaborazione civile tra nazioni, cui seguirà la nascita di numerose altre organizzazioni similari: questo per il semplice motivo che a creare (e partecipare a) tali organismi sono gli Stati stessi, che mantengono il proprio ruolo di protagonisti, tanto che dal 1945, per effetto del combinato disposto tra decolonizzazione e spinta propulsiva dell’Onu, il numero di nazioni indipendenti aumenta sino a quadruplicare. In seguito, il panorama globale vede aggiungersi negli anni numerosi altri soggetti, rientranti nel novero dei cosiddetti attori non statali (Ans), la cui rilevanza è via via cresciuta nel tempo: dalle Ong globali come Greenpeace o Amnesty International a enti filantropici quali la Bill & Melinda Gates Foundation o la Stichting Ingka Foundation, passando per le amministrazioni pubbliche sub-statali (come Shanghai, che all’Expo di Milano aveva un proprio padiglione al pari di quelli nazionali) e le grandi corporation transnazionali. L’azione di questi attori è variegata. Ad esempio, «contribuiscono […] alla formazione della agenda politica (basti pensare alla campagna della società civile per l’abolizione della pena di morte); fanno pressioni sui politici (pensiamo alla decisione di rinunciare al debito dei Paesi più indebitati alla fine del millennio); offrono assistenza tecnica ai governi e alle organizzazioni intergovernative […]; forniscono fondi per attori sia privati che pubblici […]; formulano decisioni normative» (p. 19). Il tradizionale State System si trova così profondamente integrato sotto più profili, con conseguenze rilevanti in termini di decisioni politiche, anche e soprattutto di politica estera. Un caso interessante, tra gli altri, è quello della diplomazia: «Andando oltre la tradizionale diplomazia governo-governo, con la diplomazia pubblica (quindi governo-popolazione di un altro governo) i governi cercano di influenzare i cittadini di un altro Stato per promuovere i propri obiettivi di politica estera. Tra i diversi canali che possono essere utilizzati per gli obiettivi della diplomazia pubblica, due sono particolarmente salienti: l’azione diretta attraverso internet e l’azione indiretta attraverso gli Ans. In questo caso parliamo di diplomazia ibrida, intendendo la sinergia che si crea tra governi e Ans per favorire i fini di politica estera» (p. 21).
Nel volume i due autori si focalizzano in particolare sulle multinazionali. Non è un mistero che alcune di esse abbiano potere e risorse nettamente maggiori rispetto alla gran parte degli Stati nazionali. Ad esempio, scrivono Beltrame e Marchetti, nel 2018 la ExxonMobil, colosso petrolifero statunitense fondato da John D. Rockfeller nel 1879, fatturava 279 miliardi di dollari che, se paragonati ai Pil dei paesi dell’Unione Europea, collocherebbero la corporation al dodicesimo posto, prima di Finlandia, Portogallo e Grecia. Trovare una definizione valida di cosa si intenda per multinazionale non è facile. Gli autori richiamano in questo senso la definizione proposta dall’Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), per cui la corporation transnazionale è «an enterprise that controls assets of other entities in economies other than its home economy, usually by owning a certain equity capital stake. An equity capital stake of 10% or more of the ordinary shares or voting power for an incorporated enterprise, or the equivalent for an unincorporated enterprise, is normally considered a threshold for the control of assets». Spesso è poi altrettanto complicato ricondurre una data impresa allo Stato d’origine, stante la frequente prassi dell’arbitraggio, ove si verificano contorte scissioni tra sedi legali, fiscali e produttive. Il tema non è di poco conto, perché è proprio l’intreccio tra politica estera statale e azione delle grandi imprese ad avere un’influenza notevole sullo scacchiere internazionale. Difatti, è innegabile che i grandi campioni nazionali siano destinati ad intrattenere relazioni privilegiate con i governi e a condividerne, molto spesso, le proiezioni strategiche, in una osmosi pubblico-privato sempre più marcata. È interessante, di conseguenza, porre lo sguardo su quanta autonomia riesce ad acquisire la multinazionale rispetto al governo di appartenenza, come avviene il coordinamento tra i due, se armonico o conflittuale, e chi detiene il potere effettivo. Pensiamo al caso italiano ove, come si suole dire, la politica estera è sempre stata influenzata dall’Eni, il gigante (a partecipazione statale) attivo nel settore degli idrocarburi; al punto che negli anni Cinquanta Enrico Mattei arrivava quasi a slegarsi, in qualche modo, dalla politica interna ed estera dell’Italia – ai tempi impegnata a inserirsi nel blocco occidentale – ritagliandosi una autonomia diplomatica in ambito energetico filo-terzomondista in Algeria, Egitto e Iran, sino a sfidare il dominio del cartello delle “Sette sorelle” anglo-americane[1]. Oppure, è altresì frequente che la longa manus dello Stato utilizzi proprio il mezzo dell’impresa per perseguire, in modo implicito o esplicito, i propri fini, come nel caso delle State owned enterprises, oggi particolarmente numerose in Cina[2].
Nell’affrontare tale intreccio gli autori propongono una prospettiva storica che parte dalle prime vere e proprie multinazionali, in proporzione potenti come, se non più, di quelle attuali: le Compagnie delle Indie. Le più importanti furono sicuramente quella olandese e quella britannica, costituite in forma di società per azioni e quotate, rispettivamente, nella borsa di Amsterdam e in quella di Londra. La Compagnia olandese delle Indie Orientali (Voc – Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie), fondata nel 1602, arrivò a creare un proprio impero in Indonesia. Ad esempio, approfittando dello scontro anglo-spagnolo del 1585-1604, utilizzò le proprie forze armate per attaccare i nodi strategici dell’Impero portoghese in Asia, quali Goa, Malacca e Macao, ottenendo nel giro di quarant’anni il controllo del commercio delle spezie e instaurando un governo autonomo sull’isola di Giava nel 1610. Ancora più celebre è la Compagnia britannica delle Indie orientali (Heic – Honorable East India Company), fondata a Londra nel 1600 per concessione da parte della regina Elisabetta I di uno statuto privilegiato che le riconosceva il monopolio del commercio con l’Oriente. Anch’essa inquadrabile come “uno Stato nello Stato”, la Compagnia cumulava – al pari dell’omologa olandese – la tradizionale funzione privatistica di massimizzazione degli utili per gli azionisti con quella pubblicistica di agente per conto della Corona britannica. Dotata di forze armate proprie, partecipò al fianco della Corona a numerosi interventi bellici, tra cui anche la triste vicenda della guerra dell’oppio in Cina. Per quanto non riconducibile alla categoria vestfaliana di Stato come soggetto autonomo di diritto internazionale, il potere e le prerogative della Compagnia, unite alle risorse di cui disponeva, la rendevano un attore di fatto dello scacchiere globale. In merito, sottolineano gli autori che «[…] il rapporto di subordinazione al governo britannico è quindi ambiguo. Se da un lato non vi è dubbio che la Compagnia agisca come braccio armato del colonialismo-imperialismo di Londra, dall’altro, la distinzione tra azioni “politiche” – compiute cioè come agente per conto del governo (anche in forma tacita, quando contrarie al diritto internazionale) – e quelle condotte a titolo squisitamente privatistico non è affatto agevole. Del resto, la Compagnia nei suoi territori promuove varie attività che nella madrepatria sono illegali e il meno che si possa dire, se non se ne vuole ammettere l’effettiva indipendenza, è che gode di una grande elasticità giuridica. I due casi macroscopici sono il commercio degli schiavi e dell’oppio. Attività illegali in Inghilterra, ma serenamente praticate dalla Heic nei suoi territori, che evidentemente applicavano un regime giuridico distinto da quello della madrepatria» (p. 111).
Per circa due secoli le Compagnie delle Indie – di cui qui si sono menzionate solo le più importanti – furono protagoniste, con margini di autonomia molto ampi, delle strategie imperiali dei rispettivi governi, in una commistione di diplomazia ibrida, profitti privati e interessi pubblici che rende l’esempio esaminato un valido archetipo del ruolo della multinazionale in politica estera. Le domande in merito ai motivi per cui questi “Stati negli Stati” non si siano ritagliati una vera e propria soggettività vestfaliana, distaccandosi dalla Corona o comunque subordinandola a sé, hanno da sempre accompagnato la letteratura sul tema. Questo perché, a posteriori, possiamo certamente dire che la Gran Bretagna come Stato e attore vestfaliano esiste ancora, mentre la Heic no (fallita nel 1857), così come la Voc (fallita nel 1799, dopo essere stata in ogni caso nazionalizzata nel 1796) rispetto all’Olanda. Sicché, la grande esperienza delle corporation, dotate pure di eserciti propri, non è riuscita a scalfire le profonde radici dell’entità statuale. Allo stesso modo, l’attuale emergere dei diversi attori nello scacchiere globale, così come del paradigma di San Francisco, o ancora di costrutti ibridi come l’Unione Europea, non hanno avuto, ad ora, l’effetto di sostituire il modello vestfaliano, che rimane essenzialmente centrale, seppure integrato[3].
In questo panorama complesso, da inquadrarsi alla luce dello Zeitgeist attuale, incentrato su protezionismo, security e competizione globale, il ruolo della multinazionale va inserito dunque all’interno delle strategie diplomatiche, avendo quale punto di partenza sempre lo Stato come attore principale[4]. Non è un fenomeno nuovo, come questo volume dimostra efficacemente. L’ibridazione è intrinseca al corso storico. Va pertanto declinata in modo adeguato rispetto alla congiuntura nella quale si è calati. In merito, gli autori sottolineano nelle conclusioni l’immensa portata della sfida per i governi: «Viviamo in un’epoca in cui la sicurezza nazionale è sempre più percepita anche come sicurezza economica e in cui la prospettiva di benessere della comunità politica tiene insieme le capacità delle imprese di competere a livello internazionale e la capacità dei governi di sostenerle adeguatamente. La sfida per i governi è dunque molto ambiziosa: non soltanto quella della tradizionale promozione economica delle proprie imprese nazionali, ma soprattutto quella di sviluppare sempre più sofisticati metodi di sinergia pubblico-privata per rendere più credibile e incisiva la presenza internazionale del Paese. Il paradigma della diplomazia ibrida che in questo volume abbiamo analizzato nella sua declinazione economica si propone di offrire non soltanto alcune chiavi di lettura interpretativa per questa realtà, ma anche un orientamento operativo per migliorare la capacità del sistema-Paese integrato di essere rilevante a livello mondiale» (p. 166).
[1] Cfr. p. 27.
[2] In merito si vedano, per quanto riguarda la letteratura giuridico-economica, Stefania Bariatti, Current trends in foreign direct investment: open issues on national screening systems, in AA. VV., Foreign Direct Investment Screening/Il controllo sugli investimenti esteri diretti, a cura di Giulio Napolitano, il Mulino, Bologna 2019; Massimo Bianca, “Looking through the Chinese Wall”: l’evoluzione del diritto societario cinese, in «Giur. comm.», 2013; Alessandro Borin – Riccardo Cristadoro, Gli investimenti diretti esteri e le multinazionali, Banca d’Italia, Occasional Paper, 2014; Simone Alvaro et al., La nuova via della seta e gli investimenti esteri diretti in settori ad alta intensità tecnologica. Il golden power dello Stato italiano e le infrastrutture finanziarie, «Quaderni giuridici Consob», 2019, p. 17.
[3] In questo senso, gli autori non arrivano ad emanciparsi del tutto – pur dando atto dei diversi attori non statali presenti nello scacchiere globale – dalla prospettiva neo-realista che vede, in ultima istanza, gli Stati come i principali attori nelle relazioni internazionali (si pensi a John J. Mearsheimer).
[4] In merito, un caso interessante da menzionare è quello del ritiro di molte multinazionali dalla Russia a seguito dell’invasione ucraina, da mettere in relazione, tra l’altro, con il peso delle sanzioni sui commerci e gli indirizzi delle diverse imprese private.