Per molti anni da domani. Intervista a Giorgio Brizio
- 06 Agosto 2024

Per molti anni da domani. Intervista a Giorgio Brizio

Scritto da Daniele Molteni

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La società civile occidentale sta vivendo un fenomeno di polarizzazione relativa a numerose tematiche riguardanti i diritti civili e sociali, in un contesto segnato da rinnovate tensioni internazionali. Contestualmente, la crisi climatica continua a essere un tema centrale nel dibattitto politico, catalizzando un vasto movimento di attivismo globale nato alla fine del secondo decennio del XXI secolo e ancora attivo, pur cambiando forme e metodi nella lotta nonviolenta per cercare ascolto nel dibattito pubblico e influenza presso i decisori. In un mondo fragile e afflitto da numerose crisi ambientali e geopolitiche una rinnovata Unione Europea, ancora guidata nel suo organo esecutivo dalla Presidente Ursula von der Leyen, si trova ad affrontare una fase cruciale per il futuro del Continente e del Pianeta.

Per esplorare le direzioni presenti e future dell’attivismo ambientalista, della politica dell’Unione Europea e di quella internazionale – soprattutto riguardante i movimenti e la diplomazia legata al clima e ai conflitti – abbiamo intervistato Giorgio Brizio, tra i membri fondatori del circolo Kontiki di Torino, autore e attivista impegnato in battaglie politiche e iniziative di sensibilizzazione su crisi climatica e migrazioni, a partire dal suo libro Per molti anni da domani. Ventisette attivisti europei scrivono di clima, pace e diritti (Bollati Boringhieri, 2024).


Come scrive nell’introduzione, il libro nasce dalla consapevolezza delle responsabilità del Vecchio Continente in relazione alla crisi climatica e si presenta come una raccolta di contributi di attivisti europei, uno per ogni Paese dell’Unione, per discutere del futuro del Pianeta ma non solo. Perché ha ritenuto importante raccogliere questo tipo di voci e come sono state scelte?

Giorgio Brizio: Nonostante l’Unione Europea rappresenti una porzione relativamente piccola del mondo, sia geograficamente che demograficamente – se riducessimo la popolazione mondiale a cento persone, solo dieci vivrebbero in Europa e solo sei nell’Unione Europea – permane un certo eurocentrismo nella nostra visione del mondo, anche se cerchiamo di evitarlo in quanto attivisti. La questione climatica richiede all’Unione Europea di assumere un ruolo più centrale in relazione alla sua responsabilità storica evidente, perché l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone sono responsabili del 92% delle emissioni storiche e lo sviluppo occidentale si è basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili. È vero che ci sono Paesi come Cina e India che oggi sono grandi inquinatori, però spesso chiediamo loro di non usare gli stessi strumenti che abbiamo utilizzato noi per svilupparci, ma senza fornire i mezzi e le risorse necessarie per poterlo fare. Oltre al clima, l’Unione Europea deve essere protagonista anche nelle sfide dei diritti civili e sociali – migrazioni comprese – e nella promozione della pace, che sono i temi principali del libro. L’Unione Europea può avere un ruolo centrale, soprattutto ora che gli Stati Uniti sembrano vivere un momento di declino, con un presidente uscente in evidente difficoltà e un ex presidente su posizioni reazionarie. Partendo da queste constatazioni, ho trovato interessante raccogliere le voci di diversi attivisti provenienti dai ventisette Paesi membri dell’Unione per offrire una fotografia dell’attualità, lasciando al contempo grande libertà riguardo il contenuto dei contributi. È stato difficile imporre dei limiti geografici, così come lo è stato quando Fridays for Future ha organizzato il meeting europeo a Torino nel luglio 2022, e ci siamo chiesti se la prospettiva dovesse essere globale o europea. Siamo giunti alla conclusione che la realtà su cui maggiormente possiamo fare pressione è l’Unione Europea e così abbiamo coinvolto principalmente attivisti dei Paesi membri, anche se questo ci ha portati a escludere diversi attivisti europei di Paesi non membri che pure sono molto attivi e avrebbero potuto portare prospettive interessanti, come quelli svizzeri, norvegesi e così via. È stato difficile prendere questa decisione perché mi ritengo tutto meno che nazionalista e il fatto di aver raccolto una voce per ogni Paese può dare questa impressione.

 

Quali sono state le principali difficoltà nel processo di raccolta dei contributi da parte di attivisti che provengono da Paesi così diversi?

Giorgio Brizio: La costruzione di questo mosaico di voci è stata complessa, in primo luogo perché nell’ottica di orizzontalità e condivisione dei movimenti spesso si partecipa con due persone a un evento o si scrive insieme un contributo, mentre noi abbiamo richiesto da ciascun Paese una sola persona, o quantomeno una sola firma. Inoltre, non essendoci un modo giusto per fare attivismo, non abbiamo cercato ventisette persone che la pensassero allo stesso modo, con il risultato ovvio di avere posizioni divergenti. In un dibattito pubblico così polarizzato è difficile far emergere la complessità ma è anche molto arricchente, ed è stato interessante notare che i temi che dividono maggiormente questi attivisti riguardano questioni al di fuori dell’Unione Europea, in particolare le crisi internazionali, con la spaccatura più forte su ciò che accade in Palestina. Due attivisti, uno croato e uno sloveno, hanno usato la parola genocidio per descrivere la situazione a Gaza, mentre gli attivisti austriaci e tedeschi hanno minacciato di ritirarsi dal progetto se questa parola fosse stata inclusa nel libro. Per risolvere la situazione ho suggerito di citare che la Corte Internazionale di Giustizia sta verificando se ci sono i presupposti per imputare Israele di genocidio e che ha già emesso un primo parere in merito. In questo modo abbiamo raggiunto un compromesso citando una fonte autorevole a supporto dell’affermazione. La guerra in Ucraina e le sue conseguenze sono state discusse soprattutto da due su tre degli attivisti dei Paesi baltici con la richiesta di un riarmo significativo, sino a proporre che ogni Paese dell’UE dedichi l’1% del PIL al sostegno militare all’Ucraina, anche se personalmente non sono d’accordo, anche considerando il fatto che Paesi come l’Italia faticano a raggiungere il 2% del PIL per gli obiettivi NATO. Restando in tema di conflitti, il divario è emerso meno riguardo al Nagorno-Karabakh, ovvero nella guerra tra Armenia e Azerbaijan, forse perché centrale per la questione climatica dato che a Baku si terrà la prossima COP sul clima. Il libro lancia la sfida di mettersi nei panni di questi attivisti per porsi le giuste domande.

 

Pur nella loro diversità, possiamo dire che i contributi all’interno del volume mostrino un’Europa progressista, solidale e aperta. Le elezioni europee però hanno dipinto un quadro diverso: un ottimo risultato dell’estrema destra; un elevato astensionismo; e una crisi dei partiti ambientalisti. Che bilancio possiamo farne?

Giorgio Brizio: A mio parere la maggior parte delle analisi su questo voto presentano delle lacune, perché è vero che la destra ha ottenuto buoni risultati, ma la “maggioranza Ursula” che si è formata non è stata così influenzata dalla necessità di cercare l’appoggio di Giorgia Meloni, come inizialmente si pensava. Inoltre, nei grandi Paesi mediaticamente più coperti come Italia, Francia, Germania e Spagna, la destra e l’estrema destra hanno ottenuto un buon risultato, ma negli altri ventitre Paesi, che certo eleggono meno europarlamentari e spesso sono meno analizzati, il quadro non è così diverso rispetto all’ultimo Parlamento Europeo e la situazione non è cambiata significativamente rispetto alle elezioni precedenti. In questo senso nel libro, nonostante le differenze tra i Paesi, abbiamo scelto di concedere lo stesso spazio a tutti gli attivisti senza distinzioni perché è importante guardare a ciò che accade fuori dai membri fondatori, non solo per curiosità ma anche per comprendere l’intero arco politico europeo. Quanto ai partiti ambientalisti, nel 2019 i Verdi sono stati considerati i vincitori delle elezioni europee mentre oggi in Europa sono tra gli sconfitti di questa tornata elettorale, anche se l’Italia ha eletto solo recentemente quattro rappresentanti verdi. È importante riflettere su questo aspetto perché il Green New Deal, pur essendo un esperimento imperfetto, ha aperto la strada a politiche simili in altre nazioni, come l’Inflation Reduction Act negli Stati Uniti o il Green Growth Plan in Corea del Sud. Penso che uno degli errori principali sia stato non riuscire a comunicare ai cittadini la vicinanza delle istituzioni europee in questa transizione, perché i cambiamenti, anche quelli più banali come i tappi delle bottiglie di plastica, sono sempre difficili e spesso coinvolgono persone che rischiano il posto di lavoro o di vedere sconvolta la propria vita. Diversi studi, tra cui quelli dell’Università di Harvard e del Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, dimostrano che le rinnovabili generano il triplo dei posti di lavoro rispetto al gas – che è il combustibile fossile che ne genera di più – a parità di investimento ed è a partire dalla comunicazione di questi dati che la popolazione dovrebbe essere coinvolta in una transizione che rappresenta un’opportunità per creare benessere e lavoro di qualità. Questo è un punto su cui né Timmermans né von der Leyen sono riusciti a fare abbastanza e se nella rinnovata Commissione von der Leyen cercherà supporto dai Verdi per evitare franchi tiratori, questi dovranno dimostrare maggiore competenza. In Germania, ad esempio, questo non è avvenuto nella vicenda di Lützerath, come raccontato dall’attivista tedesca nel libro, ed è un esempio significativo di questo tipo di dinamiche che coinvolgono i Verdi.

 

Nelle crisi geopolitiche attuali, che si intersecano con quella climatica, sembra palesarsi il rischio di regressione nei diritti anche all’interno delle nostre democrazie, in cui gruppi politici storicamente liberali assumono a volte posizioni maggiormente reazionarie. Quanto è reale questa deriva, considerando anche la politica di Ursula von der Leyen nell’ultima Commissione?

Giorgio Brizio: È evidente che il centro politico insegue la destra su molti fronti e von der Leyen come espressione del Partito Popolare è un esempio di questa tendenza, ma anche in Francia molti ex-ministri di Macron hanno fatto dichiarazioni sorprendenti, manifestando una certa vicinanza alle politiche dell’estrema destra del Rassemblement National. Questo scenario solleva molti dubbi sul futuro dell’Unione Europea: continuerà a basarsi sui pilastri fondativi o si assisterà a un cambiamento significativo, specialmente in tema di diritti? L’Unione Europea nacque dalla CECA, che si basava sulla condivisione di risorse come l’acciaio e il carbone, mentre ora una vera transizione ecologica richiederebbe l’abbandono di risorse inquinanti come il carbone. La guerra in Ucraina del 2022 ha offerto all’Unione Europea l’opportunità di ridurre la dipendenza dal gas russo, ma non dal gas in generale, e anche se alcuni Paesi europei hanno fatto progressi in questo senso l’Italia e la Germania continuano a dipendere fortemente dal gas. Quindi il pericolo che queste crisi portino a una regressione è reale.

 

A proposito di giustizia climatica, sul piano internazionale il disaccordo tra il “Sud Globale” e i Paesi occidentali è ancora forte così come lo sono le disuguaglianze strutturali e gli effetti della crisi. Quali sono i principali nodi da sciogliere e quali opportunità hanno i Paesi meno industrializzati in merito alla transizione?

Giorgio Brizio: Per la giustizia climatica è necessario focalizzarsi sui fondi per l’adattamento e sulla questione loss and damage particolarmente discussi nelle COP, come quella di Sharm el-Sheikh. Qui è dove si scontrano principalmente il “Sud Globale” e i Paesi occidentali con il G7 spesso affiancato dalla Cina, con Pechino che svolge un ruolo ambivalente, a volte come grande potenza, altre volte come leader dei Paesi in via di sviluppo. Nel 2009, alla COP di Copenaghen, Obama promise che i Paesi occidentali avrebbero stanziato 100 miliardi di dollari all’anno per riparare le perdite e i danni nei Paesi più colpiti. Tuttavia, questo impegno non è stato rispettato e ancora oggi eventi climatici devastanti come l’alluvione di maggio in Kenya, che ha causato 293 morti e oltre 150.000 sfollati, sono spesso ignorati dai media. Questo scontro tra blocchi potrebbe essere sanato attraverso una maggiore attenzione alla giustizia climatica, con la riduzione delle disuguaglianze storiche e la promozione dell’energia pulita. L’Africa, ad esempio, ha l’opportunità di adottare una strategia di leapfrogging, ovvero un salto tecnologico per bypassare le fasi dello sviluppo energetico basate sui combustibili fossili, adottando direttamente le rinnovabili. Oggi il Kenya è un esempio in questo senso perché produce il 93% della sua energia da fonti rinnovabili.

 

Nel libro vengono citate ovviamente le Conferenze delle Parti (COP) come uno degli strumenti più utili per portare un cambiamento sostenibile, anche per la presenza dei Paesi del “Sud Globale” che sono quelli maggiormente colpiti dalla crisi e possono così farsi ascoltare. Le ultime due edizioni si sono tenute in Egitto e negli Emirati Arabi Uniti e la prossima sarà in Azerbaigian, che sono Paesi non proprio campioni di sostenibilità. Dentro a queste contraddizioni, che importanza hanno avuto queste conferenze e quali risultati potranno ottenere?

Giorgio Brizio: Le ultime due COP non si sono tenute in luoghi certo noti per il rispetto dei diritti umani o con una bassa dipendenza dai combustibili fossili e le contraddizioni sono evidenti. Ma le Nazioni Unite lavorano per mantenere uniti tutti i partecipanti, con le COP che rappresentano un evento unico nell’ambito di questa istituzione, tenuto ogni anno in diverse località mondiali. Questa contraddizione è un prodotto in parte della suddivisione del mondo in cinque regioni decisa dall’ONU – Africa, Asia, America Latina e Caraibi, Europa centrale e orientale ed Europa occidentale – dove le COP si tengono a turno ogni cinque anni. I Paesi di ciascuna regione possono candidarsi per ospitare l’evento, con un sistema simile a quello delle Olimpiadi o dei campionati mondiali. Tuttavia, a differenza di quest’ultimi, il Paese ospitante non è solo un partecipante ma anche l’arbitro della manifestazione, il che ne sottolinea l’importanza. Un aspetto rilevante è il diritto dei Paesi di una regione di porre il veto sul possibile ospite di una COP se questo contrasta con le proprie logiche o interessi nazionali. Questo è stato evidente nel 2024, quando la Bulgaria, come primo Paese della regione dell’Europa orientale, ha incontrato l’opposizione della Russia che ha posto il veto per il coinvolgimento della Bulgaria negli aiuti militari all’Ucraina. A quel punto è emersa la proposta dell’Azerbaijan, l’Armenia ha posto il veto e l’impasse si è superata solo con un accordo di scambio di agenti dei servizi segreti – 42 azeri liberati dall’Armenia e 2 armeni dall’Azerbaijan – così da permettere all’Azerbaijan di ospitare l’evento. La posizione dell’Azerbaijan, Paese altamente dipendente dal gas così come lo sono gli Emirati Arabi Uniti dal petrolio, rende la sua ospitalità controversa e riflette le complesse dinamiche globali, ma queste sono un po’ le regole del gioco per tenere il mondo in cerchio. Affrontare la crisi climatica rappresenta il mandato primario delle Nazioni Unite, perché si collega con l’obiettivo di preservare la pace, e la transizione ecologica è forse la più grande politica attiva per la pace.

 

Come sta agendo la società civile sul piano internazionale e quali strumenti esistono per limitare il potere di quelle che nel libro vengono definite le “dittature fossili”, ovvero le multinazionali sovvenzionate dagli Stati che sembrano avere un’influenza economica e politica impossibile da contrastare, e dei governi che le sostengono?

Giorgio Brizio: Stiamo assistendo a numerosi tentativi di sfidare gli organizzatori e i portatori di quel tipo di interessi all’interno di questi eventi altamente controllati e complessi, anche quando organizzati in Paesi come l’Egitto. Questo sta avvenendo attraverso la costruzione di un’alleanza tra la società civile internazionale – ovvero giornalisti, osservatori, delegati e attivisti provenienti da tutto il mondo che partecipano alle COP – e la società civile locale. In questo modo si cerca di dare voce a istanze locali che altrimenti sarebbero ignorate. È interessante osservare come negli ultimi anni alcune delle storie più rilevanti emerse durante le COP non fossero strettamente legate al clima. Ad esempio, durante la COP27 a Sharm el-Sheikh, una delle storie più significative e problematiche per il governo egiziano è stata quella di Alaa Abd el-Fattah, che è stato uno dei leader della primavera araba in Egitto e che da allora è stato perseguitato fino a diventare un prigioniero politico insieme a migliaia di altre persone. Grazie all’intervento di sua sorella, che è diventata una figura centrale durante la COP27, si è sollevata una forte richiesta internazionale per la sua liberazione e c’è stato un forte momento di convergenza su questioni rilevanti relative alla libertà e ai diritti umani che vanno al di là del tema principale della conferenza sul clima.

 

Buona parte dei contributi del libro proviene da attivisti di Fridays for Future, di cui anche lei fa parte. Questa esperienza, insieme ad altre, dimostra che il voto non è l’unico strumento per cambiare lo status quo e il contesto culturale. Cosa rimane di questo movimento dopo sei anni e quali potrebbero essere le prospettive future?

Giorgio Brizio: Fridays for Future è nato come movimento spontaneo e se consideriamo che dopo sei anni non è affatto morto questo è sorprendente. Certamente al momento ha perso parte della sua rilevanza per l’opinione pubblica e il dibattito politico, ma i movimenti guidati da persone giovani sono ancora quelli più capaci di smuovere le coscienze nel tentativo di trovano nuove strade per far ascoltare la propria voce ed è anche giusto che ci sia un ricambio generazionale, dopotutto. Al circolo Kontiki a Torino, un punto di riferimento importante anche per il movimento di Fridays for Future in Italia, arrivano spesso ragazzi di nemmeno vent’anni. Questo è possibile perché Kontiki è uno spazio aperto quattro giorni a settimana, dove si organizzano presentazioni di libri, talk, eventi culturali, proiezioni di film, momenti dedicati a musica e teatro ed è anche un bar e cucina completamente vegetale. Tutte le persone coinvolte sono volontarie, circa cinquanta in tutto, e rendono possibile tutto questo sostenendoci nonostante i costi significativi. Questa rete di volontari fa sì che il percorso di Fridays for Future continui a vivere con la stessa intensità, non solo in termini fisici ma anche ideologici. Penso che in futuro, e spero che questo accadrà, chi ha fatto parte di Fridays for Future guardandosi indietro si renderà conto che è stato un importante laboratorio di politica. In questo senso, sono anche convinto che molte persone avranno un ruolo centrale o comunque importante in settori cruciali o nel dibattito pubblico del nostro Paese, in qualità di ingegneri ambientali, parlamentari o giornalisti, come è successo a Lorenzo Tecleme e Novella Gianfranceschi, che ora coprono eventi di portata internazionale come le COP in qualità di giornalisti. Penso che Fridays for Future abbia rappresentato un’esperienza formativa inconsapevole per molti e che abbia contribuito a plasmare una possibile futura classe dirigente del Paese, sostenendo la diversità di pensiero all’interno della società.

 

Tornando all’attivismo, dalle voci raccolte emergono i collegamenti tra la grande sfida ambientale e altri temi rilevanti quali le migrazioni, i conflitti, le questioni di genere, i diritti LGBTQI+ e più in generale la giustizia sociale in ottica di intersezionalità. Le rivendicazioni sembrano richiamare, nella loro diversità, quelle del movimento altermondista attivo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo secolo. Un altro mondo è ancora possibile?

Giorgio Brizio: Ci sono temi che uniscono un’intera generazione e il cambiamento climatico e la pace sono tra questi. La pace ora è legata soprattutto alla fine della guerra in Israele e Palestina e alla richiesta di un possibile Stato palestinese e in questo contesto c’è anche chi si batte per la questione climatica e insiste nel sottolineare l’impatto delle colonie nei territori palestinesi occupati per l’ambiente e le persone. Questi temi, che sono rilevanti per un’intera generazione, europea e globale, sono stati evidenti anche nelle proteste in Kenya delle scorse settimane. Il Paese ha subito inondazioni nel Sud-Ovest, una siccità grave nel Nord-Est e una delle peggiori invasioni di locuste e cavallette al mondo. Nel 2027 se tutto andrà come previsto i giovani potranno eleggere il loro presidente in Kenya, con una stima di quattordici milioni di elettori della Generazione Z e altrettanti millennials. Questi sono temi che uniscono e alimentano un movimento globale di contropotere guidato dai giovani, un fenomeno sempre più evidente e che in parte rimanda al movimento altermondista emerso al termine del secolo scorso. La domanda è come integrare tutto questo e unire coloro che lottano per un’Unione Europea di pace e diritti con quelli che fanno lo stesso in Kenya partendo dalle necessità di base come l’accesso all’elettricità, l’eliminazione delle tasse sugli alimenti essenziali come farina, pane, latte e olio da cucina. La sfida è cercare di unire diversi movimenti che non necessariamente condividono lo stesso nome o la stessa struttura organizzativa, ma che hanno un obiettivo comune a livello globale.

Scritto da
Daniele Molteni

Laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, lavora come editor e collabora con diverse realtà giornalistiche. È interessato a tematiche riguardanti la filosofia politica, la politica estera, la geoeconomia, i mutamenti sociali e politici e gli effetti della tecnologia sulla società. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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