Scritto da Marco Almagisti
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Dobbiamo essere grati a Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano per avere messo al centro della riflessione l’importanza dei rapporti fra il liberalismo e il socialismo. Il primo dei due termini rimanda ad una condizione fondamentale della democrazia moderna, giacché essa può concretamente instaurarsi e consolidarsi solo in presenza dell’affermazione del costituzionalismo liberale. Il padre della moderna scienza politica italiana, Giovanni Sartori, ricorda che «La democrazia senza il liberalismo nasce morta. Vale a dire, assieme alla liberal-democrazia muore anche la democrazia comunque la si voglia intendere»[1]. Lo stesso Sartori sottolinea la differenza fra il liberalismo politico e il liberismo economico, essendo, il liberalismo politico soprattutto una teoria e una prassi della libertà personale, della protezione giuridica e dello Stato costituzionale, mentre il liberismo è una dottrina economica. La confusione fra i due termini è data, per Sartori, dal fatto che “liberismo” è un termine che ha diffusione in italiano, ma contraddistingue solo il dibattito italiano. Sartori stesso (ivi) lamenta il mancato utilizzo del termine “liberismo” nel mondo anglosassone, poiché il suo utilizzo ci aiuterebbe a distinguere fenomeni differenti. Diffusione generalizzata ha, invece, il termine “neoliberalismo”, utile a identificare le politiche di deregolamentazione e riduzione della sfera pubblica prescritte prima e poi realizzate dalla seconda metà degli anni Settanta[2]. La confusione dei termini (per cui sovente il “liberalismo” è appiattito sulle posizioni del “liberismo” o del “neoliberalismo”) conduce a presentare come compatibili con un ordine politico liberale soltanto le concezioni dell’economia e della società ispirate al liberismo, a scapito delle diverse forme assunte dal socialismo democratico.
Tuttavia, nel corso del Novecento, è stato possibile constatare empiricamente quanto la socialdemocrazia sia compatibile con il liberalismo politico, smentendo, con ciò, le convinzioni di Hayek e della sua scuola, secondo cui l’intervento pubblico in economia è sempre prodromico all’avvento del totalitarismo. Tony Judt[3] mostra bene come Hayek generalizzi analisi relative agli anni Trenta, che il secondo dopoguerra si è incaricato di smentire. Parimenti, non si danno casi empirici di socialdemocrazia senza liberalismo politico, dal momento che sistemi di welfare possono essere predisposti anche in regimi politici autoritari o totalitari, ma senza che vi sia alcuna garanzia di tutela delle libertà personali. Se guardiamo all’esperienza delle democrazie consolidate del secondo Novecento, possiamo affermare che il “compromesso socialdemocratico”, con il riconoscimento dei diritti sociali e lo sviluppo del welfare ha contribuito in modo sostanziale alla stabilità e riproduzione nel tempo di regimi politici che hanno saputo garantire gradi di libertà e uguaglianza ai propri cittadini in modo inedito nella storia.
È stato notato[4] come sussista un forte legame fra libertà e uguaglianza in una feconda tradizione di pensiero che alimenta il liberalsocialismo italiano ed in una corrente intellettuale che da Gaetano Salvemini passa per Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio e l’ultimo Sartori, molto critico rispetto agli eccessi del capitalismo globalizzato. È il caso di ricordare che si tratta di una corrente di pensiero feconda che irrora di sé componenti della Resistenza negli anni Quaranta, come emerge dalla testimonianza lasciata nella letteratura da uno degli esponenti più significativi del liberalsocialismo e dell’azionismo italiani, Luigi Meneghello[5]. Così Meneghello commemora il suo maestro, Toni Giuriolo, che lo fece evolvere dal giovanile fascismo al liberalsocialismo che animava la loro banda partigiana sulle montagne del Veneto: «Per quest’uomo passava la sola tradizione alla quale si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicini a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne; facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci; per Toni Giuriolo[6]».
La cultura liberalsocialista che anima bande partigiane quale quella di Giuriolo e Meneghello nella seconda metà del Novecento darà linfa a gruppi intellettuali, editoriali e giornalistici, ma faticherà ad affermarsi compiutamente nel sistema partitico, sia per l’insuccesso elettorale del Partito d’Azione (sconfitto dal confronto con le poderose organizzazioni dei partiti di massa, di matrice cattolica e socialcomunista), che prelude alla scissione fra l’anima socialista e quella liberaldemocratica degli azionisti, sia per la particolare struttura delle fratture sociopolitiche caratterizzante il nostro Paese. Il politologo Stein Rokkan ha insegnato che i conflitti che attraversano le società moderne sono molteplici e soltanto quelli più intensi si trasformano in autentiche linee di frattura, in grado di formare identità collettive durevoli[7]. Nonostante siano categorie nate – in piena Rivoluzione francese – all’interno delle istituzioni rappresentative, le categorie di “destra” e “sinistra” sono solitamente connesse ad una linea di frattura caratterizzante le società moderne: la linea di frattura fra “capitale” e “lavoro”, che contrappone gli interessi dei proprietari dei mezzi di produzione e dei lavoratori. Quest’ultima frattura ne produce un’altra, che si origina nella Rivoluzione bolscevica, e divide il campo della sinistra. Essa ha per oggetto l’egemonia sul movimento operaio e contrappone i partiti socialisti, divenuti “leali” nei confronti delle regole del proprio sistema politico nazionale, ai partiti comunisti, allineati a Mosca sul piano internazionale. Questa contrapposizione ha immediate conseguenze anche di politica interna, nella quale si delineano posizioni riformiste e gradualiste nelle fila dei socialisti e posizioni rivoluzionarie fra i comunisti.
La linea di frattura fra socialisti e comunisti non spacca il movimento operaio in due porzioni equivalenti: nei diversi Stati nazionali è una minoranza a seguire il richiamo rivoluzionario. Tuttavia, nell’Italia repubblicana, la formazione numericamente più consistente della sinistra è il Partito comunista: se alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946 il PSI ottiene il 20,7% contro il 18,9% del PCI, già alle elezioni politiche del 1953, il PCI conquista il 22,6%, contro il 12,7% del PSI (nel 1948, i due partiti, riuniti nel Fronte Democratico Popolare avevano ottenuto un 30,9%, molto lontano dal 48,5% della DC).
La spiegazione dell’affermazione del Partito comunista è legata in modo sostanziale al peculiare radicamento che esso realizza nella società italiana, costruito durante la Resistenza e la transizione dal fascismo all’Italia repubblicana[8] che gli consente di “aderire alle pieghe della società” e, nell’Italia centrale, di costruire una “subcultura politica” particolarmente longeva. In particolare, se si volge lo sguardo alle vicende delle società locali, è possibile ricostruire anche a livello micro-politico l’impatto della repressione fascista sugli insediamenti del Partito socialista, che fu il primo partito di massa italiano, in grado, come ha sottolineato Maurizio Degl’Innocenti, di rivitalizzare quelle antiche tradizioni comunali dell’Italia centrale che da molti sono considerate alla base della tradizione civica tipica di quelle aree[9].
Il PCI condivide con la DC l’essere un partito con legittimazione esterna[10]: se lo sponsor della DC è il Vaticano, quello dei comunisti è il Comintern. Per effetto di tale sponsorizzazione, il PCI deve convivere con un elemento di ambiguità: i comunisti perseguono l’integrazione piena nel sistema democratico, propugnando una strategia di “unità nazionale”, pur mantenendo nella propria cultura politica il riferimento a un modello alternativo di società, vivificato dal legame con l’URSS.
Neppure il Sessantotto riesce a risolvere la tormentata relazione del PCI con la propria matrice sovietica. Lungi dall’essere soltanto un movimento caratterizzante le classi privilegiate dell’Occidente, come pure è stato in molte sedi descritto, nei paesi dell’Europa orientale il Sessantotto si traduce in una rivolta contro le dittature comuniste e, soprattutto durante la Primavera di Praga, diviene una lotta contro l’imperialismo sovietico, in grado di mobilitare segmenti eterogenei di società che si riveleranno poi decisivi nel crollo del socialismo reale nel 1989[11].
Sin dalle prime fasi della contestazione, in Italia gli studenti cercano di costruire connessioni con altri soggetti sociali, quali soprattutto i lavoratori, e il PCI è l’unico grande partito della sinistra europea a tentare di costruire un rapporto, sebbene difficile, con i movimenti del Sessantotto[12]. Si tratta di una giuntura storica molto delicata per la politica del nostro paese, e per la sinistra in particolare. Il comportamento dei comunisti italiani in questa fase influenzerà gli sviluppi successivi del nostro sistema politico: nell’agosto del 1968 il PCI condanna l’invasione sovietica di Praga e tale presa di posizione sembra preludere a una revisione della collocazione internazionale del partito, a una maggior collaborazione in seno alla sinistra italiana fra comunisti e socialisti e ad una piena accettazione dei capisaldi della cultura politica liberale, lungo la strada indicata ai comunisti italiani con estrema chiarezza sin dagli anni Cinquanta da Norberto Bobbio[13]. È in questo frangente che affiora in parte rilevante del gruppo dirigente comunista la volontà di emanciparsi da Mosca. Eppure, nella sinistra italiana, l’interlocutore del “dissenso” emergente nei paesi dell’Est non sarà il PCI, bensì il PSI: la classe dirigente comunista ritiene che la rimozione del divieto di accesso al governo nazionale dipenda soprattutto dalla “distensione”, ossia dal miglioramento dei rapporti fra Est e Ovest, anziché da un allontanamento del PCI dai regimi dell’Est. In questo modo, il PCI perde un’occasione decisiva per recidere il proprio legame con l’URSS e per condividere con il vasto mondo dei propri iscritti, simpatizzanti ed elettori, un confronto sui capisaldi della propria cultura politica – che pure avviene ai vertici del partito[14].
In virtù del proprio straordinario radicamento sociale e territoriale il PCI beneficia elettoralmente degli effetti della socializzazione politica del Sessantotto: mentre fra il 1946 e il 1972 i rapporti di forza fra i partiti di governo e le opposizioni di sinistra non avevano avuto grandi cambiamenti, le elezioni amministrative e regionali del 1975 e le politiche del 1976 modificano gli equilibri politici sedimentati nel dopoguerra, con la “grande avanzata” del PCI. Tuttavia, come ha evidenziato Alfio Mastropaolo, «l’errore commesso dai comunisti fu non comprendere che se gli elettori premiavano il loro partito per la sua diversità, non per questo erano disposti a ingrossare stabilmente le fila del ‘popolo comunista’. (Il PCI) non seppe investire il capitale di consenso che gli era stato affidato in gestione, né per rinnovare se stesso, né per imporre un profondo adeguamento della democrazia italiana. Divenuto un partito di tipo laburista, o socialdemocratico, il PCI non se n’era accorto o non aveva il coraggio di ammetterlo»[15].
Così facendo il Partito comunista si espone alla critica sistematica del PSI guidato da Bettino Craxi, che riattiva la linea di frattura socialisti/comunisti e la lotta per l’egemonia nella sinistra italiana. Se gli anni Settanta si sono chiusi con la sanguinosa fine della strategia del “compromesso storico” e con la sfida per la modernizzazione della sinistra lanciata dai socialisti, gli anni Ottanta si concludono con il crollo del muro di Berlino e una crisi irreversibile del modello sovietico che costringe l’intero mondo comunista a rivedere repentinamente i fondamenti della propria cultura politica. Ma anche in questo caso, quello fra socialisti e comunisti è un incontro mancato. Il PSI esce a pezzi da Tangentopoli e per gli ex comunisti l’approdo socialista pare costituire un tabù: anche se aderisce all’Internazionale socialista, il PDS (Partito Democratico della Sinistra) non ne fa menzione nel proprio nome e, pur molto diversi fra loro, sia il progetto dell’Ulivo sia quello del Partito Democratico puntano soprattutto al dialogo fra gli ex comunisti e il mondo cattolico. Quando avviene, l’incontro fra gli ex comunisti e la tradizione del socialismo europeo, si connota prevalentemente per l’adesione alla “terza via”, proposta da Tony Blair che, di fatto, significa un avvicinamento al “neoliberalismo” e un allontanamento dai riferimenti del socialismo e che perde rapidamente la sua spinta propulsiva con la crisi economica del 2008 e le sue drammatiche conseguenze sociali. Ed è proprio il trionfo del neoliberalismo (e il suo sostegno anche in ampie componenti della classe dirigente del PD) ad aver affossato – finora – la nascita di una prospettiva neosocialista che, per le ragioni sopra menzionate, non può che essere liberale (nel senso di liberaldemocratico).
Già a metà degli anni Novanta, in un clima caratterizzato dal crollo del Muro di Berlino, ma anche dalle prime controspinte scaturite dall’intensificarsi della globalizzazione, Albert Otto Hirschman si chiedeva: «Di quanto spirito comunitario ha bisogno la democrazia liberale?» [16], sottolineando, con tale interrogativo, l’esigenza di ripensare a come ricostruire reti di protezione collettive, ma, al contempo di rifuggire da idee organiciste e liberticide di comunità di cui la prima parte del Novecento ci aveva sin troppo dato dimostrazione. Si tratta di un tema di estrema attualità: per molti anni il senso comune mediatico e politico è stato orientato alla rimozione del tema della comunità, ma, come spesso accade, il rimosso ritorna e tale questione è oggi molto più urgente rispetto a quando Hirschman ha posto la sua domanda cruciale. In varie sedi si propone una versione della comunità in cui non vi è spazio per il dissenso e per il pluralismo, che sono caratteristiche essenziali della democrazia liberale. Ricostruire reti di solidarietà e protezione collettiva nel pieno rispetto del pluralismo e della libertà è quello che serve ora per rafforzare le democrazie – il contrario di quanto sostenuto da forze nativiste quali i partiti neopopulisti esclusivi[17].
Per concludere. Oggi il liberalsocialismo costituisce un filone culturale che può avere ancora molto da dire a noi. Deve, naturalmente, fare i conti con le grandi sfide di oggi: oltre alla frattura storica, il lavoro, è necessario confrontarsi con i limiti ambientali e sociali della globalizzazione e la necessità di ridurre le disuguaglianze. Ed è necessario anche ripensare al ruolo della comunità à la Hirschman e del comune – non solo del pubblico –, prendendo spunto dalle riflessioni più convincenti di Elinor Ostrom[18]. Intorno a lavoro, ambiente e inclusione – in una prospettiva neosocialista, liberaldemocratica e commonista – è possibile costruire un blocco sociale che è già maggioranza nella società italiana (e in tutte le società a capitalismo avanzato). E parlare di ambiente significa pensare ad altri modelli di sviluppo, che non possono essere semplicisticamente criticati come prospettive “decresciste”. A mero titolo di esempio, un punto su cui riflettere non riguarda – in astratto – la crescita economica, ma piuttosto quale crescita economica rispetto a contesti diversi. E ciò pare ancora più rilevante in un momento di “decrescita infelice” derivante dalla diffusione del COVID-19.
[1] G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano, 1993, p. 212.
[2] V.E. Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, il Mulino, Bologna, 2018.
[3] T. Judt con T. Snyder, Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[4] P.P. Portinaro, Le mani su Machiavelli. Una critica dell’Italian theory, Donzelli, Torino, 2018; id., L’Italia incivile. La guerra senza fine tra élites e popolo, Centro studi Piero Gobetti, Torino, 2019.
[5] L. Meneghello I piccoli maestri, Feltrinelli, Milano, 1963; id., Fiori italiani, Rizzoli, Milano, 1976.
[6] id., Piccoli Maestri, in Opere scelte, Mondadori, Milano, 2006, p. 434.
[7] S. Rokkan, Stato, nazione e democrazia in Europa, il Mulino, Bologna, 2002.
[8] M. Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma, 2016.
[9] M. Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni del socialismo italiano, 1892-1914, Guida, Napoli, 1983.
[10] A. Panebianco, Modelli di partito: organizzazione e potere nei partiti politici, il Mulino, Bologna, 1982.
[11] V. Lomellini, A. Varsori, Dal Sessantotto al crollo del Muro: i movimenti di protesta in Europa a cavallo dei due blocchi, Franco Angeli, Milano, 2014.
[12] A. Hobel, Il PCI di Luigi Longo (1964-1969), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2010.
[13] N. Bobbio, Libertà e potere, in Politica e Cultura, Einaudi, Torino, 1955, pp. 269-82.
[14] V. Lomellini, L’appuntamento mancato: la sinistra italiana e il dissenso nei regimi comunisti (1968-1989), Le Monnier, Firenze, 2010.
[15] A. Mastropaolo La repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 76.
[16] A.O. Hirschman (1995), ora in Id. Autosovversione, il Mulino, Bologna, 1999.
[17] P. Graziano, Neopopulismi. Perché sono destinati a durare, il Mulino, Bologna, 2018.
[18] E. Ostrom, Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità, Marsilio, Venezia, 2006.