Recensione a: Pierre Dardot e Christian Laval, Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 554, 30 euro (scheda libro)
Scritto da Andrea Baldazzini
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É ormai innegabile la necessità di costruire una nuova cultura politica che sappia per un verso disporre di categorie teoriche sufficientemente articolate in grado di dare conto della complessità dei rapporti reali (momento analitico), per l’altro promuovere concrete pratiche attive passibili di riconoscimento e istituzionalizzazione. Ebbene, quest’ultimo lavoro di Pierre Dardot e Christian Laval ha il grande merito di non essere la solita analisi irretita sul presente, ma avanza coraggiosamente un’interessante proposta politica costituita da un solido nucleo teorico costruito intorno al tema del Comune, nonché da una serie di dettami volti alla realizzazione di un’autentica prassi istituente. É importante tenere poi a mente che quanto viene qui presentato costituisce il proseguo, se si vuole la part construens, del lungo lavoro di studio compiuto dai due autori e raccolto nel loro penultimo libro intitolato “La nuova ragione del mondo. Critica alla razionalità neoliberista”, dove ad essere messo a tema è la logica sottostante il modello neoliberale pensato non semplicemente come fenomeno economico, ma piuttosto nei termini di una vera e propria Ragione assoluta in grado di coinvolgere la totalità degli aspetti dell’esistenza individuale. Interessante è notare che il libro appena citato termina con un accenno proprio al tema del Comune: «Il governo degli uomini può fondarsi su un governo di sé che si apra a rapporti con gli altri che non siano quelli della concorrenza tra ‘attori imprenditori di se stessi’. Le pratiche di ‘comunizzazione’ del sapere, di mutua assistenza, di lavoro cooperativo possono disegnare le linee di un’altra ragione del mondo. Non la si potrebbe designare meglio: la ragione del comune»i. Ciò rende fin da subito chiaro quanto il Comune rappresenti un profondo tentativo di elaborazione di un’alternativa radicale all’impianto teorico-politico neoliberale oggigiorno egemone.
Gli autori sono infatti fermamente convinti che solo a partire da un grande impegno teorico si possa generare un’efficace azione politica, il che dimostra come il piano della prassi, anche radicale, debba essere costantemente accompagnato da un serio approfondimento culturale che non si limiti al momento dell’analisi, ma sappia generare concetti o idee in grado di porsi quali vettori dell’agire politico: un pensiero debole non può che dare vita ad una politica debole!
Quando però si parla di Comune, soprattutto in un panorama culturale come quello italiano spesso molto lontano dai dibattiti internazionali, il rischio è quello di far coincidere ciò con il tema dei cosiddetti “beni comuni” o delle varie pratiche di condivisione, di messa in comune appunto, che circolano all’interno della vivace società civile organizzata. Niente di più sbagliato. Il termine Comune, in francese “Commun”, non deriva dal diritto romano dove con beni comuni si designavano risorse considerate per propria natura inappropriabili (l’acqua, l’aria o il mare), ma fa riferimento alla parola inglese “Commons” che designa le pratiche di collettivizzazione nate nel sistema feudale e, con innumerevoli trasformazioni, arrivate fino ai giorni nostri. Non è quindi un caso che i principali teorici di riferimento da cui gli autori prendono spunto sono: Garrett Hardin, Elinor Ostrom (premio nobel per l’economia nel 2009), Cornelius Castoriadis, Michael Hardt e Toni Negri, gli ultimi due in particolare hanno dato inizio a un importante dibattito sul tema del Comune che ha visto la stesura di due importanti lavori quali “Comune. Oltre il privato e il pubblico” e “Inventare il comune”.
É così possibile affermare che obiettivo di questo libro è fornire una riteorizzazione del concetto di Comune come principio politico capace di legare insieme i movimenti, le lotte e i discorsi che oggi si impegnano a combattere l’egemonia neoliberale, il tutto attraverso una prassi volta all’auto-istituzione della società («La révolution comme auto-istitution de la société»). Il punto è allora capire in che modo la pratica del Comune può trovare un concreto riconoscimento da parte delle istituzioni, come da azione insorgente possa trasformarsi in agire organizzato e istituzionalizzato. Si vada però con ordine, prima di tutto è importante fornire una descrizione più dettagliata del ‘principio del Comune’ individuando le cinque caratteristiche che ne definiscono la peculiarità:
esso non è una sostanza, una qualità, una proprietà, una cosa (res) ecc… ma costituisce il principio (cioè l’elemento fondativo, originario) politico a partire dal quale l’intero discorso deve prendere le mosse.
L’attributo di ‘politico’ al principio del Comune vuole affermare l’idea secondo cui la politica non è un fare riservato a una minorità di professionisti, ma coinvolge la collettività nella sua totalità, e in particolare nel momento della deliberazione concepita come messa in comune delle varie volontà individuali (qui si può notare un mescolamento della riflessione di Castoriadis con le ultime teorie riguardanti la democrazia deliberativa). L’idea è quella di opporsi a un’inclusione politica mediata esclusivamente dalle istituzioni partitiche e a una concezione passiva di cittadinanza.
La conseguenza di un processo decisionale così concepito sarà l’identificazione di quel qualcosa che più si avvicina a una definizione letterale di bene comune.
Ciò porta poi alla chiara distinzione del Comune come principio da quello-che-è-comune in ragione di una proprietà inerente alla sua natura o in quanto risultato di una pratica di collettivizzazione.
Sarà così più opportuno parlare di ‘commons’ per designare ciò che una collettività rende comune attraverso una precisa prassi istituente. Qui l’attenzione va posta sul fatto che solo le pratiche collettive possono decidere del carattere di comune o no di un dato bene. É l’attività che ‘comunizza’, iscrivendo la res in uno spazio istituzionale riconosciutoii. Molto importante è infatti l’accento posto lungo tutto il testo sull’aspetto dell’azione, della messa in azione del Comune, in quanto gli autori intendono sottolineare l’elemento di creatività che sempre deve essere presente all’interno di una proposta politica. Chiarissimo è qui la ripresa, quasi alla lettera, della riflessione svolta da Castoriadis nella famosa opera “L’istituzione immaginaria della società” dove egli tratta del rapporto tra azione politico-creatrice e istituzione sociale, rapporto nel quale va compreso come la seconda sia sempre un risultato della prima, qualcosa dunque di non assoluto o necessario, ma contingente e legato indissolubilmente alla forza umana capace di creare, dunque di rivoluzionare, in continuazione la politica (così si spiega anche il sottotitolo originale del lavoro di Dardot e Laval che recita proprio: “Saggio sulla rivoluzione nel XXI secolo” ). L’importanza di tale aspetto, per essere apprezzata in pieno, va poi legato al problema della riformabilità o meno del sistema capitalista contemporaneo: come accennato all’inizio, qui la questione è la creazione di un’alternativa alla logica neoliberale, dunque ricollegare quest’ultima a un insieme di istituzioni reali mina l’assolutezza e l’assolutismo della Ragione egemone perchè smette di essere una forza divina per farsi semplice forza umana, dunque passibile di una lotta ad armi pari.
A questo punto vanno spese due parole su quello che, ad avviso di chi scrive, è il tema più interessante dell’opera: l’istituzione del comune. Gli autori definiscono l’agire che sta alla base del processo di istituzionalizzazione del comune con l’espressione di “praxis istituente”, volendo con ciò identificare una precisa pratica di ‘gouvernement’ dei ‘commons’ da parte delle collettività che li fanno vivere. Tutto ciò è ben sintetizzato nell’introduzione al volume dove scrive che il tema del Comune e la sua praxis istituente mostra «l’identificazione di una nuova relazione tra istituzioni, diritti, persone, che si traduce nella ridefinizione complessiva del rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, non più necessariamente mediato dall’intervento pubblico o da quello del mercato». A venire promossa non è l’ennesima terza via, ma una precisa pratica politica volta alla gestione e alla creazione di ciò che viene istituzionalizzato come ‘essere-in-comune’.
Volendo essere essenziali si potrebbe riassumere il tutto affermando che «i commons sono delle istituzioni che permettono una gestione comune in base a un insieme di regole strutturate su più livelli e stabilite dagli ‘appropriatori’ stessi»3. Comunque sia va considerato il fatto che gli autori propongono una concezione di istituzione alquanto articolata, il cui centro non ruota però attorno alla domanda «che cos’è un’istituzione», ma all’interrogativo «cosa rende l’istituzione un atto istituente, cioè un atto che stabilisce regole e fissa un preciso stato di cose?»4. Ancora una volta l’interesse è rivolto verso il senso attivo del termine istituire e non a quello passivo dell’istituito rappresentato dall’istituzione. L’attenzione va posta sul carattere processuale della pratica collettiva e non sulla riduzione sociologica dell’istituzione all’istituito. Lo stesso Castoriadis aveva dedicato molto del suo lavoro a mostrare come ogni istituzione sociale sia in verità un auto-istituzione, abbia cioè un carattere autonomo, dove con autonomia si intende la presa di coscienza da parte della società di essere essa stessa la fonte delle proprie norme, autonomia come auto-legislazione. Tali riflessioni acquistano poi un’attualità straordinaria se pensate, tanto per fare un solo esempio, in riferimento alla grande questione europea riguardante l’imposizione o meno di certe regole e doveri da parte delle istituzioni sovrane a collettività che finiscono per risultare in tutto e per tutto subordinate a logiche di interesse che di politico hanno ben poco.
Tornando al libro di Dardot e Laval va osservato che quanto appena detto costituisce anche il punto di partenza per la critica mossa dagli autori all’impianto teorico di Hardt e Negri mostrandosi più interessati, ancora una volta, a quanto proposto da Castoriadis, l’idea cioè di una rivoluzione intesa non come guerra civile né come spargimento di sangue, ma piuttosto quale cambiamento delle istituzioni centrali in una società ad opera della società stessa. Rivoluzione come inserimento della comunità nel processo di auto-istituzione della società.5 La storia stesse finisce per essere letta come lo spazio e il dominio della creazione, uno spazio dunque dove nulla è necessario e dove tutto è costantemente aperto al cambiamento, affermazione questa che rappresenta il presupposto ideale per ogni sforzo volto alla creazione di un progetto politico alternativo.
Il centro di tutto il discorso può a questo punto essere riassunto nella proposta di opporre al potere costituente della razionalità neoliberale, un potere istituente, ovvero un agire capace di coinvolgere l’intera collettività nel processo di istituzionalizzazione delle regole che ne costituiranno la legislazione, come scrivono gli autori: «la praxis istituente non è altro che attività autotrasformatrice, co-istituzione di regole»6.
In conclusione va ribadito l’impegno mostrato dal neoliberismo nel mantenere le società in una posizione di eteronomia, facendole dimenticare il proprio carattere di autonomia, di auto-istituzione, carattere che svela la posizione originaria dell’agire politico. A tale dimenticanza si oppone così il principio del Comune, che afferma come esito finale l’autoproduzione di un soggetto collettivo in grado di generare in modo condiviso le proprie regole e diritti: «rompere con il neoliberismo significa decostruire il quadro istituzionale da lui stesso creato […] affermando al suo posto quel momento dove la praxis istituente diventa istituzione della società ad opera di sé medesima»7. La rivoluzione, insomma, non è altro che re-istituzione della società grazie all’attività collettiva e autonoma della società stessa.
Non solo disobbedienti, antagonisti e dissidenti di vario genere, ma anche studenti, liberi professionisti, operai, dirigenti, intellettuali e artisti: l’appello a rivoltarsi, come scriveva Camus, è rivolta a tutti, la lotta è, e deve essere, Comune.
1 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma: DeriveApprodi, 2014, p. 492.
2 Pierre Dardot, Christian Laval, Commun. Essai sur la révolution au XXI siècle, Paris, Édition la Découverte, 2014, p. 580
3 Ivi, p. 149.
4 Ivi, p. 407.
5 Cornelius Castoriadis, Une société à la dérive, Paris: Le Seuil, 2005, p. 177.
6 Pierre Dardot, Christian Laval, Commun. Essai sur la révolution au XXI siècle, Paris, Édition la Découverte, 2014, p. 437.
7 Ivi, p. 574.