Recensione a: T.M. Scanlon, Perché combattere la disuguaglianza, il Mulino, Bologna 2020, pp. 216, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Olimpia Capitano
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La presente fase storica, unitamente al ruolo rilevatore ed effettore della congiuntura critica legata all’emergenza pandemica, ci presenta con evidenza e come cruciale il nodo della disuguaglianza. Con ciò si intende che, a fronte di una sempre più acuta polarizzazione socioeconomica e davanti al radicarsi di divari sostanziali in termini di risorse culturali e materiali, risulta importante ampliare la discussione in merito.
È senz’altro vero che uno dei punti che stridono e che risuonano nel dibattito pubblicistico ruotino intorno a tematiche di per sé evidenti, come ad esempio il rafforzato dislivello tra l’1% più ricco e il restante 99% più povero. Tuttavia, oltre e unitamente alla denuncia di simili storture percepite come inammissibili, il punto sta nel comprenderne le ragioni e nel tentare di argomentare la qualità di questa stessa percezione, la sua valenza morale.
Tale premessa può sembrare una banalità ma non lo è e il filosofo T.M. Scanlon, grazie all’acuta indagine compiuta nella sua recente pubblicazione Perché combattere la disuguaglianza, ci aiuta proprio a entrare in questa costellazione interpretativa, assai problematica. L’autore ci accompagna lungo tutto il testo, anche grazie a una struttura esplicativa molto chiara, colma di richiami e riepiloghi dei passi compiuti in progressione analitica, permettendoci di seguirlo. Il percorso che articola è quello della creazione di una personale tassonomia, che orienta un disegno interpretativo su più livelli, ma a suo modo lineare, quantomeno per coerenza ed evidente sforzo di massima chiarezza esplicativa. Scanlon cerca di esplorare il carattere multiforme della stessa disuguaglianza e la pluralità delle obiezioni logiche e spesso (mal)celate che essa suscita.
Il presupposto sostanziale sta proprio nella definizione di cosa si intenda per il concetto di disuguaglianza, a scanso di equivoci semantici. Per delineare ciò, l’autore si muove soprattutto attraverso la disamina delle obiezioni alla disuguaglianza, piuttosto che affrontandone gli argomenti a favore: in questo modo viene strutturata una complessa ma chiara impostazione dialettica, che si muove verso un crescente avvilupparsi tra diverse tesi antitesi e sintesi.
Scanlon parte da una semplice definizione in senso ampio della disuguaglianza come «differenza tra quanto hanno alcuni e quanto hanno altri» (p. 11) e non ne discute tanto la dimensione di principio, quanto quella relazionale, ossia il suo carattere comparativo, tra soggetti e tra gruppi di questi in rapporto con le istituzioni; il tutto tra riflessione e argomentazione empirica. Focale risulta l’enfasi data alla lettura di ogni aspetto che dipenda dalla realtà istituzionale, poiché è soprattutto in essa che si indagano quei meccanismi che producono iniquità e generano disuguaglianza. Il fulcro della questione è rappresentato infatti dall’idea che la disuguaglianza si manifesti in modo multiforme e per ragioni eterogenee, accomunate dal ruolo condiviso nel quadro dei processi istituzionali: essenzialmente, ammettendo che un’istituzione sociale debba essere giustificabile per essere accettata da una comunità, quando questo presupposto non sussiste si crea una contraddizione forte tra funzione istituzionale e realtà sociale, che formalizza un’iniquità strutturale e confuta quella che l’autore delinea come «uguaglianza morale di base» (p. 13). Quest’ultima costituisce, assieme alla lettura della disuguaglianza relazionale e alla collocazione del ruolo istituzionale, una premessa fondamentale del ragionamento del filosofo, che ne constata esistenza e accettazione diffusa anche tra chi si opponga a ogni altra rivendicazione ugualitaria più sostanziale. Sembrerebbe perciò assodato collettivamente, almeno in linea teorica, che tutti «gli individui hanno diritti» (p. 13). L’autore assume dunque, come dichiarato presupposto, l’idea che «ciascuno di noi abbia valore dal punto di vista morale indipendentemente da razza, genere o luogo di residenza» (p. 13).
La pluralità delle forme di disuguaglianza leggibili e di cui si cerca di indagare la diversa natura, viene letta parallelamente alla questione della polarizzazione economica, presentata come uno degli aspetti della disuguaglianza relazionale, istituzionalmente sostenuta e centrale sia in sé e per sé, sia come fattore che tende ad aggravare altre manifestazioni della disuguaglianza[1].
Prima di procedere nell’indagine di tali nessi, occorre tuttavia riflettere più nello specifico su alcune delle varie espressioni della disuguaglianza, presentate dall’autore, nel tentativo costante di rispondere alla medesima domanda, fil rouge di tutta la riflessione: quando e perché è moralmente inaccettabile e socialmente ingiustificabile che alcune persone stiano, in qualche modo, peggio di altre? Per quali ragioni è necessario opporsi alla disuguaglianza e ai canali della sua perpetrazione istituzionale? La prima risposta è: per motivi molteplici e di varia natura. Per darcene una densa panoramica complessiva, Scanlon traccia una via che ne percorre alcuni aspetti fondamentali, senza sostenere posizioni di ugualitarismo in senso assoluto, non partendo cioè dal presupposto filosofico per cui la disuguaglianza sarebbe da perseguire in quanto tale o da combattere in sé stessa. Piuttosto emerge il tentativo di pervenire al medesimo fine ma, in modo forse più efficace e concreto, tentando di delineare alcuni presupposti, affrontarne le obiezioni, leggerne le distorsioni e contraddizioni nel quadro istituzionale, attraverso la presa d’atto delle modalità di promozione della disuguaglianza e affrontando il grado della relativa accettabilità morale di tali dislivelli.
Anzitutto identifica due aspetti all’origine della disuguaglianza, che sono presentati come ingiustificabili – sempre nel senso istituzionale – e trattati nei capitoli primo e ottavo: il mancato rispetto di un principio di uguale considerazione per gli interessi di coloro cui le autorità politiche sono obbligate a fornire qualche beneficio; la presenza di istituzioni economiche strutturalmente inique, da cui deriva una crescente disuguaglianza in termini di ricchezza e reddito. L’espressione di un principio di uguale considerazione può portare a focalizzarsi sull’idea di un atteggiamento omogeneo da parte di determinati agenti ma non è qui intesa in tal senso; bensì l’autore ne sottolinea la valenza comparativa. Un’azione istituzionale soddisfa quindi siffatto principio in relazione agli interessi che la sostengono e risulta giustificabile fintanto che tende a tenere equamente conto degli interessi coinvolti. Ciò non significa che qualunque cosa uno Stato faccia debba andare necessariamente e sempre a vantaggio di tutti i cittadini in modo precisamente equilibrato, ma significa che, nel caso contrario, deve sussistere una giustificazione moralmente accettabile e socialmente giustificabile.
Per quanto concerne la disuguaglianza in termini di reddito e ricchezza, la critica maggiore mossa dall’autore sta nel riscontrare sviluppi problematici non solo sulla questione dell’iniqua distribuzione del reddito, ma pure su quella dell’iniqua distribuzione dei costi della produttività economica. Attraverso una serrata analisi ci mostra come i differenti livelli di reddito manchino di giustificazione poiché sono gli stessi fattori strutturali all’origine di questi divari a mancare di giustificazione. Scanlon parte dal presupposto – ampiamente argomentato anche partendo dal principio della differenza di Rawls – per cui le disuguaglianze possono essere giustificabili in quanto conseguenze necessarie dell’esercizio di importanti libertà personali o come risultato di caratteristiche del sistema economico che appaiono necessarie e, in mancanza delle quali, non si verificherebbero condizioni socialmente migliorative[2]. Da qui confuta la validità di tali precondizioni nel quadro odierno e rivela conseguentemente l’iniquità ingiustificabile alla base delle strutture economiche contemporanee. Per sostenere tale posizione presenta proposte alternative concrete ed evidenzia di riflesso la non giustificabilità della realizzazione dei vantaggi produttivi: dal momento in cui questi potrebbero essere parimenti realizzati attraverso una diversa organizzazione delle strutture economiche e con la promozione di costi ed effetti distributivi meno diseguali, le caratteristiche di questa disuguaglianza diffusa appaiono arbitrarie.
Dopo aver identificato nei fattori dell’uguale considerazione e della differenza di ricchezza e reddito punti originari importanti su cui agire criticamente per decostruire e cercare di ridurre la disuguaglianza; l’autore indica al medesimo fine quattro condizioni generate dalla promozione istituzionale della stessa.
La disuguaglianza viene dunque denunciata come criticabile in quanto generatrice di umilianti differenze di status, come affrontato nel capitolo secondo; insidia dell’equità procedurale e delle opportunità sostanziali, come argomentato nei capitoli terzo e quarto; elemento destabilizzante dell’equità politica, come mostrato nel capitolo quinto; fonte di potere e controllo a vantaggio dei ricchi, come sviluppato nel capitolo sesto.
Le disuguaglianze, dunque, sono anche contestate poiché consentono ad alcune persone di esercitare influenza e controllo sui processi decisionali istituzionali o, in modo più circoscritto, su altri individui con cui entrano in relazione diretta o indiretta – si pensi alla proprietà dei mezzi di comunicazione o dei mezzi di produzione. Il controllo inficia anche direttamente le logiche dell’equità politica, poiché risultano diverse e non comparabili le relative possibilità di influenzare processo e dibattito elettorale, con profonde conseguenze per il grado di rappresentatività democratica.
Unitamente alle condizioni polarizzate di povertà e ricchezza sono presentati come moralmente non giustificati sia quei sistemi di casta e di distinzione per genere ed etnia che implicano un danno morale di natura comparativa e che portano a disegnare alcuni gruppi sociali come inferiori rispetto ad altri. Questo elemento si intreccia a sua volta alla disparità economica: di per sé sperequazioni di reddito e ricchezza estreme possono condannare i poveri a vivere in condizioni considerate umilianti. Spesso queste dinamiche si intrecciano ad altre forme culturali di marginalizzazione, delineando in senso lato una pervasiva combinazione di disuguaglianza economica e condizione sociale normativa. Lo status e la posizione economica del soggetto subalterno diventano fattori fortemente deterrenti anche in termini di opportunità, sia nel senso dell’equità procedurale che di quella sostanziale. Stigmatizzazione, povertà e violazione dell’uguale considerazione orientano forme di discriminazione, disegnano un’influenza forte in termini di effettiva mobilità sociale: se dunque anche si agisce su sistemi di tutela dell’equità procedurale, questa azione risulta comunque parziale se non accompagnata a monte dalla creazione di condizioni meno diseguali e implicitamente influenti sul processo di selezione. Anche qualora poi fosse a suo modo realizzato un processo di maggior equità procedurale, gli stessi deficit strutturali confliggono con l’effettività delle opportunità sostanziali. Queste stimano che un individuo abbia la medesima possibilità di scegliere partendo da condizioni sufficientemente buone al fine di poter sviluppare i propri talenti.
Qui si aprono però molti punti dubbi a partire dalla comprensione di quali siano queste condizioni sufficientemente buone. Si immagina che esse presumano una apertura a tutti e di tutti i canali utili per la formazione e promozione delle proprie abilità, non tenendo però in considerazione quanto disuguaglianza economica e di status inficino le prospettive di successo: ciò, tra le altre ragioni, per esigenze e costi materiali; per ambiente, aspirazioni e auto-percezione familiare; per diversa possibilità di influenza del processo di selezione. Quando queste condizioni agiscono decade il significato morale dell’uguaglianza di opportunità, per cui nessuno dovrebbe essere escluso per ragioni diverse dalla sua abilità. Rispetto a ciò è poi importante distinguere ed evitare la critica moralistica che si basa sulla convinzione (meramente ideologica) per cui le attuali istituzioni sarebbero di per sé giustificate e le proteste contro di esse da parte di chi ha meno no. Tali posizioni vengono sovente sostenute semplicemente perché chi ha mento viene criticato moralmente per non aver fatto di più, dando per scontata l’esistenza di questa possibilità.
Un simile errore filosofico ci permette di introdurre un altro paio di aspetti fondamentali e molto correlati, ossia l’intenzione e il merito. La prima prevede che le condizioni delle equità procedurali e opportunità sostanziali siano completamente soddisfatte, in caso contrario non è possibile spostare la discussione su un piano soggettivo senza scadere nel già criticato moralismo. Questa stessa considerazione ci conduce a confutare le valutazioni sul merito, dal momento in cui «persino la volontà di tentare, di impegnarsi e di essere quindi meritevoli, come lo si intende normalmente, dipende da una famiglia felice e dalle circostanze sociali» (p. 158) e su questi ultimi aspetti non esistono né controllo, né intenzionalità; né quelle valutazioni di merito che vengono erette come scudi ideologici di tutela del privilegio.
Attraverso un tracciato affascinante e tanto composito quanto la realtà che si propone di indagare, T.M. Scanlon riconosce e confuta molte delle varie ragioni utilizzate per non opporsi alla disuguaglianza, indicandoci al contempo altrettante strade per combatterla.
[1] Una delle obiezioni alla disuguaglianza confutate è quella che si basa sulla critica del livellamento dal basso. Per fare chiarezza: Scanlon rimarca in primo luogo quanto le politiche redistributive, seppur intese come necessarie, siano insufficienti se non associate a una più trasversale azione contro le molteplici manifestazioni istituzionali della disuguaglianza. In secondo luogo, e sulla linea del medesimo ragionamento cerca di mostrare le idiosincrasie interne alle diffuse denunce relative a un’apparente irrazionalità insita nel principio di redistribuzione. Queste vengono sovente promosse da coloro che interpretano la redistribuzione come forma di livellamento dal basso e che vi si oppongono sostenendo la teoria del prioritarismo, ossia la concezione secondo cui a preoccuparci dovrebbe essere il miglioramento delle condizioni di quelli che stanno peggio e non la riduzione della differenza tra ricchi e poveri, che sarebbe solo espressione di un’invidia da non sostenere.
[2] Il principio di differenza viene da Rawls collegato alla regola del maximin (abbreviazione di maximum minimorum), in base alla quale bisogna migliorare il più possibile la situazione di coloro che stanno peggio o, con un’altra formulazione, le ineguaglianze sono ammesse quando massimizzano, o almeno contribuiscono generalmente a migliorare, le aspettative di lungo periodo del gruppo meno fortunato della società