Recensione a: Frédéric Gros, Perché la guerra?, traduzione di Raffaele Alberto Ventura, nottetempo, Milano 2024, pp. 156, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Linda Dalmonte
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Non è stato un clamoroso “ritorno della guerra” nel cuore dell’Europa, ma la rivalsa della Storia contro chi, dalla caduta del Muro di Berlino, ne aveva sancito la fine. La fine delle “grandi narrazioni” ideologiche, del conflitto sociale, delle rivendicazioni territoriali, e delle guerre di annessione. L’invasione russa dell’Ucraina, annunciata all’alba del 24 febbraio 2022 con una soffusa retorica imperialista, e portata avanti da un massiccio bombardamento missilistico parallelo all’avanzata su terra, ha visto la Storia riprendersi la scena, con la più concreta smentita di una sua fine.
È questa, in poche parole, la tesi dell’ultimo saggio di Frédéric Gros, Perché la guerra (edito in Italia da nottetempo nella traduzione di Raffaele Alberto Ventura). Scritto a pochi mesi dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, fornisce un grimaldello critico contro la rappresentazione di una rottura improvvisa e radicale nelle relazioni internazionali del nostro secolo. Una rottura presunta che avrebbe trascinato il nostro continente in un inedito “ritorno della guerra” nelle sue forme più esplicite e tradizionali, che – a torto – si sarebbero credute definitivamente abbandonate dopo Hiroshima. Ma, piuttosto, si tratta di storicizzare la guerra in Ucraina fino a farla diventare un sintomo di tensioni ben più radicate negli spazi internazionali: ora bisogna fare i conti con quei processi che dal secondo Dopoguerra hanno portato a una rapida trasfigurazione della “guerra” nei modi reali, nei nomi, e nelle rappresentazioni, che l’hanno progressivamente de-istituzionalizzata, fino a rendere ridicolo il ritornello mediatico di un “ritorno della Guerra”. E a nulla vale aggiungere la precisazione “sul suolo europeo”, declassando i fatti di Sarajevo, la guerra del Kosovo o il genocidio di Srebrenica a lotte minori: la guerra è cambiata, ma non era mai finita. Di fronte alla “lotta al terrorismo”, alla “guerra ibrida”, e alle varie forme dell’interventismo umanitario che si sono diffuse dagli anni Novanta, la nozione di guerra si è globalmente frantumata in stati di violenza – come già recitava il titolo di un saggio precedente, États de violence[1] –, venendo meno le categorie più classiche con cui pensarla. In questa terra di mezzo tra pace e guerra, apertasi clamorosamente dal settembre 2001, o forse fin dalla Guerra del Golfo, dove i reciproci confini si fanno chiaroscurali, i conflitti del XXI secolo diventano più ambigui. Perdono la distinzione tradizionale tra civile e militare e, segnatamente, tra nemico e criminale, come notava Carlo Galli[2]. Nello spazio internazionale segnato dal collasso sovietico, la guerra vuole nuove forme e giustificazioni. In questo quadro, Gros fa appello agli autori classici (Grozio, Hobbes, Kant, Rousseau, Hegel, Marx, Tocqueville) per costruire una tassonomia con cui inseguire le trasformazioni della guerra: “guerra globale”, “guerra di caotizzazione”, e la degenerazione – non esclusa – di una “guerra totale”. A partire da una definizione classica: la guerra come «conflitto armato, pubblico, giusto» (p. 21). Quella che avrebbe colpito l’Ucraina dal 2022.
Pur tenendo ferma l’illegalità assoluta – ma formale – della “guerra di aggressione”, le attuali guerre globali si muovono in un panorama ben lontano da quello ottocentesco, quando sul campo europeo la guerra si imponeva come esercizio sovrano di uno Stato, dello jus ad bellum di un attore statale contro un altro – ugualmente riconosciuto come sovrano, come nemico giusto (justus hostis), passibile di sanzioni punitive, ma senza l’annientamento radicale dei suoi diritti. E rispetto a cui il generale prussiano Carl von Clausewitz poteva parlare a ragione della guerra come della «continuazione della politica con altri mezzi»; un esercizio regolato, normato dal diritto, e al di fuori del terreno della morale. Ma si tratta ora di capire quali nuove forme abbia assunto il fatto della guerra, al di là delle sue mistificazioni retoriche, in un sistema post-vestfaliano, il nostro, che eredita le ambiguità giuridiche sancite dalla fine della Seconda guerra mondiale, e che sembra ricadere in un’involuzione rispetto alle guerre tradizionalmente moderne. Sul filo delle tesi di Carl Schmitt, Gros si interroga sugli effetti della criminalizzazione giuridica della guerra nel secondo Novecento: a partire dal 1945 viene istituito l’ONU e, a doppio filo con la diffusione del pacifismo come ideologia di massa, si sviluppa progressivamente una giuridicizzazione etico-criminale della guerra, in quanto crimine contro la pace. E poco importa che l’avvento ideologico della democrazia e del pacifismo avvenga proprio in seno al continente sostanzialmente sconfitto dalla Seconda guerra mondiale, cioè nei regimi liberal-democratici europei divenuti effettualmente incompatibili con la dimensione bellica della potenza e degli armamenti di massa; e che quindi la stessa condizione della cultura umanitaria e democratica, sorta “sotto tutela” di una nuova superpotenza vittoriosa, sia stata sempre “vegliata” da chi non ha mai rinunciato alla propria potenza militare, gli Stati Uniti[3]. Ciò che conta è che la guerra non è più moderna, non è più quella regolata tra gli Stati sottoscriventi la pace di Vestfalia (1648), in cui l’equilibrio di potere si giocava sul riconoscimento del giusto nemico. Alla dimensione esclusivamente statale subentra ora un organismo internazionale; la guerra deve sublimarsi in “operazioni di polizia internazionale”, trasfigurarsi in “interventi”, “operazioni”, “conflitti preventivi”, e legittimarsi come “autodifesa necessaria” anche in assenza di minacce immediate. Cambiano gli attori in gioco: non si tratta più di decisioni sovrane tra Stati riconosciuti, ma di risoluzioni all’unanimità decretate in nome della sicurezza internazionale, dell’autodifesa, in parallelo alla salvaguardia della democrazia e dell’umanità; motivazioni essenzialmente etiche. E che conducono al paradosso odierno di una cultura umanitaria che è costretta a giustificare l’interventismo militare proprio riabilitando le grammatiche – pre-moderne, pre-vestfaliane – della guerra giusta, ma senza che sia chiamata tale.
Tornando al saggio di Gros, è indicativo che il capitolo sulla “Guerra giusta” faccia da premessa a quello sulla “Guerra totale”. È il richiamo alla guerra giusta, e la sua inaspettata ricomparsa nel XXI secolo, che riesce paradossalmente a conciliare una cultura pacifista, tipicamente occidentale, con un ricorso alla forza sempre più deregolamentato, parte di una degenerazione che de-istituzionalizza i conflitti, preparando il terreno per i loro esiti peggiori. Avviene così, con le lotte al terrorismo, che il nemico non sia più il giusto nemico, ma uno Stato canaglia, un criminale slegato da un’identità stato-nazionale riconosciuta, e rispetto cui proprio il ricorso alla morale può giustificare la tortura, o l’annientamento totale. Se nell’Ottocento lo stesso Clausewitz poteva parlare di un “punto culminante della vittoria”, rispetto cui il proseguimento dell’offensiva sarebbe stato vano, se non addirittura controproducente, la retorica della guerra giusta lo abolisce. La guerra perde il limite, e si spinge fino a un punto indefinito; il punto degenerativo in cui l’annientamento, l’ingerenza istituzionale, e la creazione di un nuovo regime, si rivelano instabili, controproducenti. E di questo processo è sintomatico che nel secondo Novecento le democrazie abbiano giustificato l’uso della forza non tanto contro gli Stati, quanto ai regimi: non alla Corea, ma al comunismo, non all’Iraq ma al baathismo; non all’Ucraina, ma al fascismo. Si potrebbe così inscrivere l’aggressione russa come l’apice di quel processo di “crisi costituente”[4], in atto già dall’inizio degli anni Novanta. Un processo che ha portato a una rilegittimazione progressiva dell’uso della forza, in parallelo alle sue nuove retoriche moralistiche: l’attacco russo all’Ucraina viene così chiamato “operazione militare speciale” in soccorso a una parte della popolazione oppressa da un regime fascista. È in questo nuovo panorama che la morale trova così il proprio complementare nell’annientamento: compare una saldatura reciproca tra guerra giusta e guerra totale, moralizzazione e de-istituzionalizzazione, che Gros ben sintetizza: «Più l’obiettivo della guerra è di tipo morale, meno sarà morale la guerra. E spingendo oltre il ragionamento, possiamo immaginare che la guerra più sregolata, più “altrove”, sarà quella che vorrà realizzare una pace eterna e definitiva» (p. 108). Di fronte all’ineffettualità dell’ONU, al peso crescente di attori privati o para-privati, alle guerre ibride condotte a distanze (con droni, raccolte di metadati, cyberspionaggio), insieme allo slittamento semantico che indebolisce e annienta qualunque controllo democratico sull’uso della forza, sempre torniamo a fare i conti con un’aporia fondamentale: «Se assolutizzate la pace, deregolamentate la guerra; se banalizzate la guerra, devalorizzate la pace» (p. 108).
Sul filo di una disamina continua di queste categorie – insistendo su “guerra totale” e “pace armata” –, nelle conclusioni Gros affronta la fatidica domanda sulla guerra. Non le cause, né le ragioni: il “perché” di fondo. Libera il campo dalle tesi della guerra come parte essenziale della natura umana, di una presunta bestialità, o freudianamente di un’aggressività “naturale” (più o meno inconscia) che spingerebbe ai conflitti; ed è interessante come riesca a inquadrare la guerra in Ucraina recuperando Hobbes, ma integrandolo con Hegel e Marx. Nel XIII capitolo del Leviatano, Hobbes parlava dell’avidità materiale, della paura, e della vanità (la ricerca di gloria, o l’esibizione di potenza) come motori dei conflitti. Il primo fattore, l’avidità, può spiegare la guerra a partire dalla proprietà privata, e dalla scarsità di risorse: sono note le tesi marxiste dell’imperialismo come conseguenza del capitalismo, sua fase suprema; e il caso ucraino chiaramente ci riporta alla «volontà russa di controllare il granaio d’Europa» (p. 125). In seconda battuta, la paura è ciò che, nell’instabilità generale dell’anarchia internazionale e della debolezza dell’ONU, fa scattare una “guerra preventiva” – un’aggressione raccontata come legittima difesa dall’espansione della NATO. Quanto alla vanità, contropartita della paura, questa non sarebbe altro che l’esibizione della potenza: la guerra è una ricerca del riconoscimento per il quale ogni Stato gioca hegelianamente “la vita per la vita”; o, in termini attuali, «l’Ucraina è l’ultimo bastione che permette alla Russia di credersi un impero» (p. 125). In questo modo Frédéric Gros restituisce una tassonomia sul presente che tuttavia rimane mobile, e ci fa ritornare alla nota formula di Clausewitz, «la guerra come continuazione della politica con altri mezzi». Il presagio che oggi sia essenzialmente la politica ad aver perso il primato, facendosi “continuazione della guerra con altri mezzi”, rimane una questione aperta.
[1] Frédéric Gros, États de violence. Essai sur la fin de la guerre, Gallimard, Parigi 2006.
[2] Cfr. Carlo Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari 2002.
[3] Cfr. l’intervento di Ernesto Galli della Loggia, La coscienza europea e le guerre del Novecento, in Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Ernesto Galli della Loggia, Elisabetta Rasy, Senza la guerra, il Mulino, Bologna 2016, pp. 9-39.
[4] Si veda Alessandro Colombo, La guerra in Ucraina e l’inarrestabile declino dell’ordine internazionale post-novecentesco, in Ritorno al futuro: Rapporto ISPI 2023, Alessandro Colombo e Paolo Magri (a cura di), Ledizioni, Milano 2023, pp. 25-35.