Perché nell’era digitale serve una “innovazione liberale”
- 13 Aprile 2023

Perché nell’era digitale serve una “innovazione liberale”

Scritto da Gabriele Giacomini

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La resistenza come diritto liberale

Un liberalismo, cento liberalismi. Definire il liberalismo non è semplice: a differenza del socialismo, non ha un manifesto. E si è affermato grazie a prospettive eterogenee e talvolta conflittuali. Tuttavia, alcuni elementi consentono di identificare i regimi liberali. Primo, il rispetto dei diritti fondamentali che nella Dichiarazione universale del 1948 consistono nel godimento della libertà, nella sicurezza personale, nella tutela della proprietà, in un tenore di vita sufficiente. I diritti umani costituiscono un vincolo non negoziabile per le decisioni politiche: lo scopo dell’esistenza stessa dello Stato è la tutela dei diritti individuali.

Da ciò deriva un secondo elemento: la pratica della separazione dei poteri, volta a scongiurare eventuali abusi attraverso un sistema di reciproci controlli. Infine, un terzo elemento consiste nell’interpretazione dello Stato come depositario di un potere affidatogli dal popolo per tutelarsi: perciò, qualora lo Stato fallisca in questo compito, il potere può essergli revocato dal popolo medesimo. Se il governo non è soddisfacente ci sono le elezioni. Ma, in casi eccezionali – ad esempio, quando le elezioni sono soppresse, o si verificano brogli –, ciò potrebbe non essere sufficiente. Trascurato dalle teorizzazioni contemporanee, John Locke, padre del liberalismo, concettualizzava nel secondo dei Two treatises of government (1690) il “diritto alla resistenza”. Esso, in particolare, si configurava come la legittimità per il popolo in condizioni estreme – ovvero quando le finalità minime del corpo politico fossero state sovvertite gravemente dai governanti – di ribellarsi agendo secondo coscienza.

In epoca contemporanea il “diritto alla resistenza” si connette all’utilizzo delle Ict. Mentre a molti all’inizio del nuovo millennio è sembrato inevitabile che Internet avrebbe avvantaggiato i movimenti dal basso, i moti rivoluzionari che hanno avuto luogo negli ultimi due decenni sotto regimi autoritari hanno sollevato dubbi sul potenziale “liberale” delle tecnologie digitali. Infatti, pur favorendo inizialmente la mobilitazione nazionale e allertando l’opinione pubblica e le autorità internazionali con la divulgazione di informazioni sulla situazione interna, le Ict sono state ben presto cooptate dai regimi illiberali e utilizzate a scopo repressivo.

Occorre comprendere, dunque, come il digitale possa costituirsi in quanto strumento per la promozione della libertà, scongiurando il rischio che diventi un formidabile alleato dei regimi autoritari. La risposta a questo interrogativo non può che provenire dal contesto liberale, essendo sua la tradizione politica più sensibile alla limitazione del potere in difesa dei diritti. Occorre una “innovazione liberale”, ossia la teorizzazione e implementazione di un’architettura politica che – coniugando un livello internazionale, uno nazionale e uno individuale – valorizzi gli elementi emancipatori dei media digitali.

 

È possibile la resistenza ai poteri autoritari nell’era digitale?

Le Ict hanno giocato un ruolo nelle sollevazioni antiautoritarie degli ultimi due decenni. Ma valutarne l’effettivo impatto nel medio e lungo termine è difficile.          Se si pensa alla “Rivoluzione verde” iraniana del 2009, ad esempio, risulta chiaro come, pur essendo inizialmente avvantaggiata dalle Ict, la rivolta abbia successivamente subito negativamente l’impiego delle tecnologie. Infatti, il regime non si è limitato a ostacolare l’accesso a Internet, ma ha organizzato una vera e propria cyber army addestrata allo scopo di reprimere la ribellione spiando i cittadini e diffondendo false notizie di stampo filogovernativo: a questo dispiegamento di forze la popolazione, scarsamente alfabetizzata sul piano digitale, non aveva i mezzi adeguati ad opporsi.

Qualche anno dopo è stato il momento delle “Primavere arabe”. In Egitto la popolazione richiedeva modeste azioni di giustizia sociale, oltre che il limite di due mandati alla carica presidenziale, a fronte dei quasi trent’anni di ininterrotto potere di Hosni Mubarak. Anche in questo caso, il movimento rivoluzionario ha utilizzato Internet. Le e-mail, Facebook, Twitter, almeno in un primo periodo, hanno contribuito a trasformare uno sciopero generale in una delle proteste più significative nella storia egiziana. Il contrattacco del governo egiziano, tuttavia, ha realizzato quello che sembrava impossibile: dopo la mezzanotte del 28 gennaio, un Paese tecnologicamente avanzato, densamente cablato, con oltre venti milioni di persone online è stato “staccato” da Internet. Il governo di Mubarak era talmente compromesso, e la protesta così estesa nella società, che il kill switch di Internet non è stato sufficiente. Tuttavia, con Abdel Fattah Al-Sisi la repressione è tornata, anche su Internet.

Nel 2018 Al-Sisi ha firmato una nuova legge sulla “criminalità informatica”: i siti web possono essere bloccati e chiunque sia ritenuto colpevole di aver gestito o semplicemente visitato tali siti o di aver diffuso informazioni sulle forze di sicurezza può essere condannato a gravissime pene. In un opuscolo intitolato “Come protestare in maniera intelligente” è consigliato di «non usare Twitter o Facebook o altri siti web perché sono tutti monitorati dal Ministero dell’Interno». Per diffondere informazioni è meglio usare la fotocopiatrice e abbandonare lo smartphone. Si suggerisce di usare le bombolette spray per oscurare la videosorveglianza.

Altri casi ancora più recenti, come quello della Bielorussia, di Hong Kong o del Myanmar vedono emergere nuove tecniche informatiche, sia da parte dei manifestanti sia da parte dei governi, ma seguono simili dinamiche: a una primissima e rapida fase, in cui la protesta si infiamma anche attraverso l’uso delle Ict, segue una lunga fase di repressione da parte del regime, sempre attraverso le tecnologie digitali, prima netta e violenta, poi più “morbida” ma capillare. Sotto questa cappa, l’impressione è che i regimi se la cavino piuttosto bene.

Recentemente, per “stringere la presa” sulla popolazione durante l’aggressione all’Ucraina, il governo russo ha agito chiudendo social occidentali – come Instagram – e aumentando le pene per i “disubbidienti” online: sono state introdotte pesanti pene detentive, fino a 15 anni di prigione, per chiunque pubblichi “fake news” sull’esercito. Secondo fonti esperte in cyber-security, sembra che il governo russo si stia preparando a trasferire tutte le trasmissioni, le connessioni ai server e la gestione dei domini su una rete parallela, la intranet nazionale “Rucom”, per controllarla completamente.

Almeno allo stato attuale, non è possibile affermare che un regime tirannico o con tendenze autoritarie possa essere destituito utilizzando le Ict. Il problema è che, detto con uno slogan, Internet libero servirebbe soprattutto quando… non è libero. Com’è possibile fare mobilitazione in un regime in cui i manifestanti sono presentati come ribelli, banditi, terroristi, anche se questi manifestanti sono moralmente nel giusto? Quali sono i mezzi e le risorse che gli attivisti potrebbero mobilitare per superare le – gravi – difficoltà organizzative di fronte a governi repressivi? Se si vuole evitare che le Ict divengano strumenti al servizio di un potere autoritario, occorre teorizzare e implementare quella che si potrebbe definire una “innovazione liberale”: un’architettura politica in continuità con la tradizione liberale che sappia valorizzare gli elementi emancipatori delle Ict.

 

Dall’Habeas corpus all’Habeas mentem. L’innovazione liberale nei diritti 

La libertà moderna è frutto di una lotta secolare contro il potere arbitrario del sovrano. In principio, con la Magna Charta inglese del 1215, venne sancito il principio dell’Habeas corpus – letteralmente «abbi il tuo corpo» – che salvaguardava la libertà individuale nella forma dell’integrità fisica. A partire da questo nucleo, il progresso politico ha nel tempo guadagnato all’individuo i diritti inviolabili sistematizzati nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

Ma, affinché la libertà sia salvaguardata, i diritti riconosciuti devono tenere il passo con l’evoluzione del contesto storico. Ora, la rivoluzione digitale comporta il rischio che un potere autoritario manipoli o reprima i cittadini secondo modalità inedite. Perciò è irrinunciabile l’introduzione di un nuovo principio, un Habeas mentem – «abbi la tua mente» –, concretizzantesi in un aggiornamento del sistema dei diritti umani che tuteli la libertà di intervenire sulla gestione degli elementi informazionali veicolati dalle tecnologie, garantendo il diritto ad accedere autonomamente alle informazioni, a proteggere i propri dati sensibili, a comunicare liberamente le proprie opinioni e a sottrarsi ai condizionamenti manipolatori del potere.

L’ipotesi di una sistematizzazione dei diritti connessi alle Ict incontra ancora oggi una certa resistenza, poiché molti temono che questa collida con la tradizione libertaria della prima fase della Rete. Peccato che la fase pioneristica di Internet è superata da molto tempo, con il cristallizzarsi di enormi poteri digitali. Inoltre, si può obiettare, con Stefano Rodotà, che una simile innovazione in ambito politico e istituzionale non mira a soffocare le libertà favorite dall’espansione tecnologica, bensì a promuoverle e tutelarle, superando un contesto da “libera volpe in libero pollaio”. In primo luogo, identificando un nucleo di diritti aggiornati nel campo del digitale. Tra questi figura senz’altro il diritto all’accesso alla Rete. Esso, del resto, è un diritto che nei regimi liberali gode di una crescente tutela. I regimi autoritari, invece, ritenendo questo diritto una minaccia alla propria stabilità tendono a ostacolarlo.

Un altro diritto digitale è quello all’oblio, ossia il diritto dell’individuo di chiedere che le proprie informazioni siano rimosse da Internet, o quantomeno de-indicizzate. Il diritto all’oblio costituisce una tutela dai tentativi di abuso di un potere pubblico o privato, poiché sottrae la possibilità di raccogliere indiscriminatamente informazioni. Simile discorso è da applicare al diritto alla protezione dei dati personali. Un altro diritto fondamentale risulta quello all’anonimato, che consente agli utenti la libertà di navigare in Internet senza essere identificati: esso viene esercitato utilizzando sistemi di crittografia che rendono inaccessibili a soggetti indesiderati le informazioni sugli utenti e sulla loro attività online. L’anonimato è un diritto controverso, ma costituisce una tutela preziosissima per i dissidenti politici.

L’innovazione liberale, del resto, non si limiterebbe ai diritti civili, ma si estenderebbe ai diritti politici, in particolar modo quelli legati alla partecipazione alle decisioni pubbliche. Il diritto all’accesso alle informazioni, ad esempio, sostiene il diritto del popolo ad autogovernarsi, garantendo ai cittadini la possibilità di vigilare sulla condotta del governo anche grazie all’azione di giornalisti, ricercatori e attivisti.

 

L’innovazione liberale nelle istituzioni internazionali e nazionali        

Si sa, i diritti non sono sufficienti. Servono organizzazioni e istituzioni che possano effettivamente aiutare i movimenti che lottano per la libertà. Ad esempio, in che modo si potrebbero contrastare a livello internazionale gli abusi commessi attraverso le Ict dai regimi autoritari? Una risposta può provenire dall’estensione del ruolo svolto dall’ONU: tale istituzione potrebbe porre sotto la propria egida il supporto digitale ai dissidenti dei regimi autoritari, allo scopo di favorire l’informazione e la mobilitazione nei Paesi oppressi. Inoltre, il suo appoggio potrebbe facilitare la lotta dei gruppi di opposizione esuli o costretti alla clandestinità in nazioni tecnologicamente avanzate, consentendo il trasferimento online di uno Stato legittimo attraverso la registrazione di un dominio e l’installazione dei server in una nazione amica (se, a causa delle regole decisionali dell’ONU, ciò non fosse percorribile, istituzioni di difesa militare come la NATO potrebbero muoversi in questa direzione? Con quali giustificazioni?).

Se l’attenzione si sposta dal sostegno alla dissidenza al contrasto alla sorveglianza, si può prendere in considerazione l’OCSE: quest’ultima, pur occupandosi di regolamentazione del commercio, è stata tra le prime a emanare, nel 1980, linee guida per la tutela della privacy, tema sul quale rimane attiva formulando proposte in materia di sicurezza, commercio elettronico e reti globali. Più vincolante, del resto, può essere l’azione delle istituzioni regionali, come testimoniano le normative dell’UE, culminate nel 2018 nel Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR). Tale regolamento risulta interessante in quanto estende la validità delle proprie disposizioni a tutte le organizzazioni europee ed extraeuropee che trattino i dati personali di cittadini europei, richiedendo una protezione adeguata di tali dati.

A livello nazionale, invece, l’attenzione si focalizza sulla separazione del potere digitale e sul pluralismo. Naturalmente, questo punto non si applica ai regimi in cui la separazione dei poteri è già collassata sotto il peso dell’autoritarismo, ma può essere utile per prevenire derive autoritarie di governi eletti democraticamente: non sono pochi i Paesi, una volta democratici, che scivolano verso situazioni preoccupanti: si pensi alle cosiddette “democrature”. Come sappiamo, la suddivisione delle autorità dello Stato in esecutiva, legislativa e giudiziaria risponde alla necessità di istituire dei limiti che permettano ai detentori del potere di sorvegliarsi a vicenda. Inoltre, nel contesto della tradizione liberale più recente, altri poteri – come quello delle ONG – sono individuati come attori sulla scena pubblica che dovrebbero poter operare in relativa autonomia dal governo.

La separazione dei poteri dovrebbe senz’altro applicarsi anche al digitale, predisponendo alcuni contropoteri per prevenire derive dispotiche nell’utilizzo delle risorse tecnologiche. Al potere giudiziario spetta ostacolare gli eventuali tentativi del governo di spiare e classificare i cittadini con fini autoritari. L’assolvimento di tale compito, peraltro, risponde tanto alla necessità di protezione sociale quanto, essendo le decisioni dei giudici contestuali e non definitive, a quella di garantire l’adattabilità dei principi astratti individuati dal potere legislativo a un contesto mutevole come quello tecnologico. Il potere tecnico-burocratico, infine, pur con il limite di una scarsa aderenza alla volontà popolare, si caratterizza per i vantaggi della relativa autonomia dall’autorità politica e della valorizzazione delle competenze degli esperti: i suoi organi si configurano come autorità indipendenti e comitati etici. Esempi di autorità indipendenti sono le agenzie e le organizzazioni responsabili del controllo dell’attuazione delle normative vigenti in materia di diritti digitali.

Inoltre, tra le organizzazioni della società civile vanno annoverate anche le aziende, che negli ultimi anni hanno rivestito un ruolo sempre più decisivo. Imprese di dimensione internazionale – come Meta, Amazon o Google – possono limitare gli abusi di governi autoritari non consentendo l’accesso alle proprie banche dati o evitando di rimuovere contenuti indesiderati per il regime.

 

In conclusione, le basi. Sull’importanza della cultura digitale

Per evitare che le Ict diventino strumenti al servizio dei regimi autoritari occorre innovare il sistema liberale, individuando principi e implementando procedure a tutela dei diritti fondamentali – inclusi i nuovi diritti digitali. Tuttavia, risulta irrinunciabile che il cittadino sia in grado di difendere il più possibile la propria sfera personale attraverso un’approfondita alfabetizzazione digitale. Questa, infatti, consentirebbe di intraprendere nel contesto virtuale iniziative che permettano di contrastare i sistemi di sorveglianza e di repressione, sabotando il regime con un’azione non necessariamente dichiaratamente politica, ma dagli effetti potenzialmente dirompenti, soprattutto se molto diffusa fra la popolazione.

Si tratta di operazioni già oggi alla portata di molti utenti che possono limitare le interferenze del potere e contribuire ad un ambiente digitale più rispettoso della libertà individuale. Naturalmente, non è sempre possibile eludere la sorveglianza, ma si può renderla più complessa e dispendiosa, contribuendo ad allentare la morsa repressiva. L’efficacia di questa linea d’azione, del resto, è proporzionale alla conoscenza del cittadino degli strumenti digitali: ecco perché occorre che l’utente raggiunga un livello di conoscenza che gli consenta, in determinate situazioni, di “uscire dal sistema”. Se percorribile politicamente, sarebbe opportuno inserire programmi di digital literacy nei curriculum scolastici, affiancando alle capacità di leggere e scrivere basi di programmazione, rudimenti di conoscenza delle principali minacce e dei più comuni tipi di attacco ai sistemi informatici, consapevolezza delle best practice in materia di cybersicurezza.

È fondamentale anche non sottovalutare altri ordini di competenze, come la capacità di valutare criticamente le fonti e quella di collaborare, impiegando le risorse in modo flessibile e solidale. Uno strumento decisivo per rispondere efficacemente alle derive autoritarie del potere è senza dubbio l’educazione al pensiero critico. Con la collaborazione attiva e consapevole della popolazione, le istituzioni nazionali e internazionali pensate per limitare l’arbitrio del potere nel contesto digitale non potrebbero essere svuotate del proprio significato, potendo contare sul sostegno movimenti vivaci e consapevoli, anche in contesti in cui la libertà è sotto attacco.

Scritto da
Gabriele Giacomini

Ricercatore all’Università di Udine e collaboratore della Fondazione Giannino Bassetti di Milano. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Il governo delle piattaforme” (con Alex Buriani, Meltemi 2022), “The Arduous Road to Revolution” (Mimesis International 2022), “Potere digitale” (Meltemi 2018) e “Psicodemocrazia” (Mimesis 2016).

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