Scritto da Cosimo Francesco Fiori
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Il dibattito sulla nuova legge elettorale e la corsa per approvarla – cominciata come breve volata, e trasformatasi poi in mezzofondo se non in maratona – si sono sviluppati mettendo in ombra un dato fondamentale: una legge elettorale esiste, e non è il Porcellum (per inciso: la mania di dare alle leggi elettorali i nomignoli in “-um”, che costringe – per farsi capire – a parlare di Mattarellum, Consultellum e Italicum, è una colpa della quale Sartori e i suoi epigoni sciocchi dovrebbero rendere conto al tribunale della Storia).
La Corte Costituzionale (dopo una vicenda processuale lanciata ad arte – si può dire – proprio per condurre al giudizio di legittimità costituzionale) è intervenuta sul testo delle leggi elettorali di Camera e Senato1 trasformandole in senso nettamente proporzionale, con l’eliminazione dei premi di maggioranza (e, inoltre, introducendo le preferenze). Intervento politico, certo, come non può non essere quello di un giudice delle leggi. Il sistema risultante è simile a quello della cosiddetta Prima Repubblica. L’impellenza di cambiare il Porcellum, espressa talvolta persino dai suoi ideatori – impellenza tale che per anni non si è fatto nulla – oggi non ha più ragion d’essere, perché il Porcellum non esiste più. Ma del resto anche i motivi per i quali tale legge era considerata vergognosa erano sovente strumentali; la questione è tutt’altra.
Il dibattito attuale ha, come inespresso presupposto, il seguente: la legge ora vigente è una legge proporzionale, ancorché con soglie di sbarramento certo non indifferenti, e quindi con implicita torsione maggioritaria (a scapito soprattutto delle liste singole non coalizzate); si cerca invece di dare al sistema un carattere fortemente maggioritario (molto più di quanto non fosse prima). Poche voci sono discordi; tutto il resto – premio di maggioranza, doppio turno, preferenze, etc. – è dettaglio. Questo articolo vuole mettere in questione proprio questo presupposto implicito e inespresso della discussione, ovvero la preferenza indiscutibile per una legge maggioritaria. Il maggioritario è la formula magica che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta; per essere più maliziosi, trasforma una minoranza in maggioranza, un 35% di voto popolare nel 55% dei seggi, per esempio. Insomma, l’acqua in vino: miracolo!
L’infatuazione per il maggioritario che ha colto la sinistra all’inizio degli anni ’90 è fenomeno innanzitutto opportunistico: noi minoranza, si riteneva, con un buon escamotage diventeremo maggioranza. Peccato che al primo tentativo (‘94) vinse comunque Berlusconi, e anche in seguito per vincere le elezioni si dovettero inventare coalizioni larghe stile Prima Repubblica (unica differenza: coalizioni pre-elettorali e non post-elettorali). Il tentativo attuale è più ardito: si tratta finalmente di far sì che possano esistere governi monocolore, monopartitici, a immagine e somiglianza di sistemi totalmente diversi dal nostro.
Bisogna per vero aver chiaro che tra maggioritario e proporzionale sussistono differenze di grado: si può dire che un sistema è tanto più maggioritario quanto più distorce il voto popolare favorendo la concentrazione dei seggi nelle mani di pochi gruppi partitici, e sfavorendo la rappresentanza dei partiti che ricevono meno voti (in tal senso la non proporzionalità di un sistema è misurabile). Certamente, un doppio turno con premio di maggioranza alla lista – che prelude a una maggioranza e a un Governo monocolore – e la permanenza di soglie di sbarramento non insignificanti introducono un grado maggioritario molto forte. Ma se si vuole andare alla radice della questione occorre mettere in discussione il principio del maggioritario.
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Indice dell’articolo
Pagina corrente: Il dibattito sulla legge elettorale
Pagina 2: Proporzionale e governabilità
Pagina 3: Proporzionale e vita politica