Permacrisi: un estratto dal libro di Gordon Brown, Michael Spence e Mohamed El-Erian
- 31 Maggio 2024

Permacrisi: un estratto dal libro di Gordon Brown, Michael Spence e Mohamed El-Erian

Scritto da Gordon Brown, Mohamed El-Erian, Michael Spence

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«Il mondo sta cambiando davanti ai nostri occhi e noi abbiamo il dovere di cogliere il significato dei cambiamenti in corso: primo, il passaggio da un mondo unipolare a uno multipolare; secondo, da un’iper-globalizzazione a una globalizzazione light; terzo, da un’era neoliberale in cui l’economia dettava le decisioni politiche a una neo-nazionalista, in cui la politica e la sicurezza nazionale dettano le condizioni economiche. Il mondo sta cambiando, ma che aspetto avrà questo cambiamento dipende da noi».

In Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi – edito in Italia da Bocconi University Press con prefazione di Tito Boeri – Gordon Brown, Mohamed El-Erian e Michael Spence delineano la natura della permacrisi: il periodo prolungato di instabilità e di insicurezza, derivato da una serie di eventi catastrofici, che stiamo vivendo. E suggeriscono che, nonostante il prefisso “perma”, esistano strade attraverso cui uscirne, ma solo se saremo in grado di imprimere un vigoroso cambio di rotta. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Bocconi University Press / Egea, un estratto del testo.


L’«arma» dell’interdipendenza

L’interdipendenza e la minaccia di farne un uso improprio e bellicoso, sia essa percepita o reale, rischiano di trasformarsi in un nuovo tipo di corsa agli armamenti globale, in cui il problema non è la costruzione di armi, ma la contrapposizione di posizioni. Un Internet dominato dall’Occidente potrebbe rapidamente vedere l’ascesa di un Internet concorrente decentralizzato e non regolamentato – o splinternet – che allo stesso tempo ridurrebbe le vulnerabilità globali per gli Stati e aumenterebbe i rischi per l’umanità, per quel che riguarda il finanziamento facile di scambi illeciti, terrorismo e trafficking. Oppure, l’economia mondiale rischia di assistere a un breakdown completo e totale delle catene di approvvigionamento globali – che hanno finora definito l’era dell’iperglobalizzazione – a favore di reshoring, allyshoring e nearshoring. È molto preoccupante che le mosse per riorganizzare le catene di approvvigionamento e il commercio in luoghi altri dalla Cina abbiano condotto non solo al de-risking, ma anche al de-coupling, o disaccoppiamento. E mentre pensiamo ai sistemi commerciali, occorre non dimenticare i sistemi finanziari e il modo in cui potrebbero essere sfruttati, non in ultimo da attacchi informatici, in particolare se un avversario mettesse gli occhi su un sistema aperto come quello degli Stati Uniti. Si specula molto sul fatto che il dominio del dollaro USA come valuta di riserva mondiale potrebbe cedere alla frammentazione, uno scenario che appare plausibile fino a quando una grande economia non abituata a vedere la propria valuta come una riserva affidabile non farà default.

Il ruolo del dollaro cambierà se la gente teme di non poter rischiare di usarlo. Le valute, compreso il dollaro USA, e i sistemi di pagamento internazionali, dovrebbero essere usate con parsimonia in qualità di armi, soprattutto perché esistono altre armi più efficaci. Per esempio, l’incriminazione del Presidente Putin per crimini di guerra in Ucraina non avrebbe lo stesso effetto della strumentalizzazione «armata» del dollaro o, peggio, dell’esclusione della Russia dal sistema internazionale di pagamenti SWIFT. Il divieto non sembra aver avuto il desiderato impatto a breve termine dato che l’economia russa, che sarebbe dovuta crollare del 10 per cento e poi rimanere ferma, per un certo periodo è cresciuta più velocemente di quella britannica. Costretta ad aggirare il dollaro, la Russia ha fatto proprio questo: ha venduto gas all’India e alla Cina, è stata pagata in valuta locale, ha convertito in valuta saudita e turca, e poi in rubli. Che messaggio arriva alla Cina? È un segnale di cambiamento tellurico: polarità globale, nazionalismo e globalizzazione. E dimostra che è possibile aggirare il dollaro, forse presagendone l’erosione dell’egemonia.

Possiamo immaginare un futuro in cui il commercio, il capitale tecnologico e le guerre per le risorse sono destinate a intensificarsi. Questo non anticipa una frattura completa dell’ordine globale però significa che, in un mondo in permacrisi, le modalità di gestione della nostra interdipendenza dovranno evolvere e migliorare.

 

Tre cambiamenti tellurici 

In quest’epoca interdipendente, tre cambiamenti storici – uno di natura geopolitica, uno economico e uno ideologico – iniziano a definire il nuovo ordine mondiale. È un passaggio significativo: vuol dire che occorre ripensare quello che chiamiamo ordine basato su regole liberali. Così come dal 1945 agli anni Settanta le tariffe e le valute fisse hanno limitato la diffusione della globalizzazione, in una fase precedente all’era di iperglobalizzazione che ha aperto il mondo al libero scambio, ora nuove tariffe e barriere non tariffarie stanno, ancora una volta, definendo i limiti e la portata della globalizzazione.

 

Shift 1: dall’unipolarismo al multipolarismo

In primo luogo, la geopolitica si è spostata da un mondo definito dall’unipolarità – l’egemonia americana – a una crescente multipolarità, con diversi centri di gravità politica. Sebbene l’America sia indispensabile, indiscutibilmente prima tra i pari e ancora efficace nel combinare potere militare, economico e soft power, non potrà fare affidamento su comando e controllo; dovrà invece esercitare il potere della persuasione.

Nel 1945, all’alba dell’era delle superpotenze e con l’America come egemone globale, gli Stati Uniti rappresentavano il 50 per cento del PIL mondiale, una cifra destinata a dimezzarsi entro la metà degli anni Settanta[1]. Negli anni Settanta, il potere americano si basava su un ordine economico in cui i controlli nazionali sul commercio, la valuta e i movimenti finanziari tenevano a bada l’iperglobalizzazione. Per tutti gli anni Settanta, come prodotto finale di un’inflazione elevata, del peggioramento dei deficit commerciali e della crescita del pensiero neoliberale, emerse un diverso tipo di superpotenza statunitense: l’America cedeva il potere non a un altro Paese ma alle forze del mercato. Pur conservando la supremazia militare e restando leader industriale, l’America divenne temporaneamente dipendente dal resto del mondo per l’energia e per i risparmi mondiali per finanziare il suo debito. Nel 1985 un responsabile degli investimenti di Nomura Securities descrisse le decine di miliardi di dollari che il Giappone investiva in titoli di Stato americani come «potenzialmente il più grande flusso di capitali nella storia del mondo»[2]. In altre parole, l’America non era più un colosso indipendente, ma dipendeva dal buono stato di salute del resto del mondo.

L’America non poteva sottrarsi a un mondo interdipendente, doveva piuttosto assicurarsi che il mondo funzionasse nel suo interesse. Nonostante i crescenti squilibri economici, negli anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda, l’America era l’indiscutibile egemone militare, con una proiezione di forza senza rivali, e anche un colosso economico: il dollaro che regnava sovrano. Nella nuova era, la superiorità militare e finanziaria dell’America non è in grado – nei momenti di internazionalismo – di frenare l’avanzata del mondo multipolare.

Questo crescente multipolarismo si riflette sempre più spesso in un indebolimento dell’impegno dei Paesi non allineati nei confronti di una delle grandi potenze. Consideriamo l’India. Durante una visita in India, nel marzo 2022, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi affermò: «Se la Cina e l’India parlassero con una sola voce, il mondo intero starebbe a sentire»[3]. Eppure, l’India, secondo il ministro degli Esteri di Narendra Modi, Subrahmanyam Jaishankar, starebbe perseguendo un «approccio multi-allineato». Nel suo libro The India Way, Jaishankar scrive: «È il momento di coinvolgere l’America, gestire la Cina, coltivare l’Europa, rassicurare la Russia, ingaggiare il Giappone, attirare i vicini, estendere il concetto di vicinato e ampliare le tradizionali catene di sostegno»[4]. Jaishankar vuole che l’India metta le grandi potenze l’una contro l’altra e conclude: «Solo un’Asia multipolare può condurre a un mondo multipolare».

Il votarsi dell’India al multiallineamento ricorda lo spirito di quel memorabile aforisma del film d’animazione di supereroi Gli Incredibili: «Quando tutti saranno super, nessuno lo sarà più». Quando un Paese non è allineato, allora si dice che è multi-allineato. C’è una ragione strategica per questo, ovviamente. Il movimento dei non allineati di cinquant’anni fa sosteneva le proprie ragioni sulla base di principi universalmente validi, contro il colonialismo e con una propensione per un mondo non nucleare e più equo. La nuova e crescente lista di Paesi multi-allineati agisce per un ristretto interesse personale, mettendo i Paesi l’uno contro l’altro – principalmente Cina e America – nella speranza di ottenere migliori accordi commerciali, ristrutturazioni del debito più favorevoli, altri incentivi frutto del corteggiamento e uno status globale più sofisticato. Questo vale per Sudafrica, Brasile, Argentina, Malesia e molti altri Paesi ben più piccoli dell’India.

Stiamo assistendo a nuove alleanze opportuniste con quelli che vengono talvolta definiti «swing states», «hedgers» o «fence sitter»: sfruttano il controllo delle risorse, l’accesso ai capitali o la posizione geografica strategica per ottenere il massimo vantaggio nazionale. Il presidente brasiliano Lula, recentemente rieletto, ha dichiarato auspicabile la creazione di un nuovo «polo» di potere in Sudamerica che avvicini il Brasile alla Colombia, all’Argentina, alla Bolivia e al Cile[5]. Propone inoltre che i BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – creino una propria valuta di riserva e ne estendano la possibilità di adesione ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Algeria e alle due dozzine di Paesi che si dice abbiano manifestato interesse a aderire. Gli equilibri di potere si stanno modificando, con la possibilità che l’Iran entri a far parte della cinese Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, e che si consorzi con la Russia per creare un’alternativa al sistema di pagamenti SWIFT, dal quale entrambi i Paesi sono stati esclusi. Nel 2023 la Cina ha negoziato una nuova pace tra Arabia Saudita e Iran. Cina, Russia e Sudafrica hanno organizzato esercitazioni navali congiunte. E mentre passiamo dall’era del petrolio a un’era ad alta intensità di minerali, Paesi come Indonesia e Cile, che possiedono notevoli riserve di nichel e rame, sono già devoti al nazionalismo delle risorse, e cercano di fare leva sul loro cresciuto potere contrattuale ed economico. Questo è tanto più significativo in quanto la percentuale di minerali rari detenuti dalla Cina, di cobalto dalla Repubblica Democratica del Congo, di rame dal Cile e dal Perù e di nichel dall’Indonesia è, in ognuno dei casi citati, pari a circa un terzo delle risorse finora scoperte[6].

La fine del mondo unipolare ha creato un vuoto che ha lasciato tutto in movimento. Nel prossimo decennio, quando i Paesi dovranno fare delle scelte reali tra America, Cina e un mondo sempre più multi-allineato, verranno posate alcune pietre.

 

Shift 2: dal neoliberismo al neonazionalismo 

La logica politica e la logica economica stanno divergendo. Se negli ultimi trent’anni è stata l’economia a guidare le decisioni politiche, ora è la politica a determinare le decisioni economiche: un Paese dopo l’altro strumentalizza i propri commerci, la tecnologia, l’industria, le catene di approvvigionamento e la concorrenza[7].

Il secondo cambiamento è che il nazionalismo ha sostituito il neoliberalismo come ideologia dominante. L’economia win-win del commercio reciprocamente vantaggioso è stata sostituita dalla rivalità a somma zero del «io vinco, tu perdi», mentre movimenti come «America First», «China First» e «India First» minacciano di trascendere in una geopolitica «noi contro loro» del «il mio Paese è il primo e l’unico». Anche il nuovo slogan statunitense «America First» del Presidente Trump è diventato «Buy America» sotto il Presidente Biden, non alterando in modo sostanziale lo spirito nazionalista del messaggio. Il patriottismo è una forza positiva fondata sull’amore per il proprio Paese, la sua storia e i suoi valori, pur accogliendo i tratti distintivi che definiscono le nostre identità nel mondo interdipendente di oggi. Ma mentre i patrioti sono a loro agio con le identità multiple, i nazionalisti lo sono molto meno. Il nazionalismo è un’ideologia che promuove l’idea di un «noi» e di un «loro» in costante conflitto, e si concentra sui peccati dello straniero nel tentativo di suscitare risentimento e reazioni xenofobe. I nazionalisti sono assetati di assoluti: sono ostili agli estranei e amano l’idea di una singola identità. Per dirla con George Orwell, il nazionalismo è «inseparabile dal desiderio di potere»[8]. Questa linea di demarcazione nazionalista rende impossibile affrontare la sfida del nostro tempo: bilanciare l’autonomia che la gente desidera con la cooperazione internazionale di cui il mondo ha bisogno.

Come è accaduto nel corso della storia, viviamo un periodo in cui il patriottismo si arma e prende la forma di un nazionalismo aggressivo. L’amore positivo per il proprio Paese e l’orgoglio, in molti luoghi, hanno assunto la forma di un nazionalismo infausto che si è tramutato in uno strumento di odio, identificando e persino inventando nemici inesistenti, e alimentando rancori più immaginari che reali. Si pensi sia alle tensioni tra comunità etniche e religiose all’interno dei Paesi, sia alla lista sempre più lunga di conflitti che vanno oltre la guerra nazionalista tra Ucraina e Russia. Ci sono tensioni ben documentate per esempio tra Cina e Taiwan, India e Cina, Pakistan e India, Etiopia ed Eritrea, Sudan e Sud Sudan, Marocco e Tunisia, la guerra per procura tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda; per non parla re della quasi dozzina di Paesi usciti dal blocco sovietico che vivono conflitti etnici, e con enormi porzioni di territorio che sono ancora oggetto di contesa.

C’è il nazionalismo difensivo, che ha portato al protezionismo e che ha caratterizzato il mondo dal 2016 al 2019 con barriere commerciali, controlli sulle importazioni, posti di frontiera e una notevole riluttanza a cooperare. E poi c’è il nazionalismo aggressivo, che fa della non cooperazione e dell’unilateralismo di molti Stati una virtù.

Un sintomo di questo nazionalismo aggressivo è il protezionismo che metastatizza in un mercantilismo profondo (l’uso di tutto il potere e le risorse dello Stato per perseguire i propri interessi sacrificando la cooperazione). Questo nazionalismo aggressivo «noi contro di loro» si è trasformato in una corruzione del patriottismo, con molti leader che non temono di intraprendere anche le azioni economicamente più irrazionali. Aumentano i divieti di commercio, compreso quello che impedisce l’esportazione di prodotti e tecnologie verso Paesi ritenuti ostili, o per proteggere le forniture locali. Ci sono divieti sulla manodopera attraverso i controlli sull’immigrazione, così come i più recenti divieti di viaggio rivolti a gruppi specifici di persone. I Paesi hanno eretto divieti di investimento verso l’interno, impedendo a un Paese di investire in un altro, in modo diretto oppure negando l’accesso alle borse valori. E ci sono divieti di investimento verso l’esterno che impediscono alle aziende di un Paese di investire in regimi considerati ostili.

Senza un sano patriottismo che riconosca i benefici della cooperazione assisteremo all’intensificarsi di nazionalismi aggressivi. Ciò di cui abbiamo bisogno è un patriottismo libero dal nazionalismo (e questa è certamente cosa non facile).

 

Shift 3: dall’iperglobalizzazione a una globalizzazione gestita e leggera 

Il terzo cambiamento, che è in parte il risultato di un ordine mondiale più fratturato e frammentato, è la transizione da un mondo pesantemente globalizzato o iperglobalizzato a un mondo definito da una globalizzazione light, con supply chain in evoluzione, near shoring, friend-shoring e un nuovo mercantilismo caratterizzato da Paesi che si riallineino politicamente con i loro partner commerciali più forti[9].

La globalizzazione «pesante» si basava non solo sul libero flusso di capitale, manodopera, energia e tecnologia, ma anche su capitale, energia e lavoro a basso costo. Ma nel mondo di oggi ovunque volgiamo lo sguardo vediamo nuove restrizioni al libero flusso di lavoro, capitale e tecnologia attraverso divieti diretti, barriere indirette e costi più elevati. E mentre gran parte dell’Unione Europea, che è a sua volta un’area di libero scambio, rimane legata ai principi che costituiscono le basi del libero scambio, della parità di trattamento, della reciprocità e dello stato di diritto, l’opinione pubblica americana continua come sempre a oscillare tra apertura e protezionismo, internazionalismo e isolazionismo. Dopo il 1945, gli Stati Uniti hanno costruito la struttura delle relazioni commerciali globali difendendo accordi commerciali internazionali. Ora, il surplus commerciale americano del passato si è trasformato in un deficit ancora più grande, un deficit che è stato usato come un punto focale del discorso volto a rafforzare la demagogia dell’«America First». Non è il commercio che sta cambiando il modo di fare politica, è la politica che sta cambiando il modo di fare commercio.

Nell’era iperglobalizzata, tra il 1990 e il 2009, il commercio è aumentato due volte più velocemente della crescita, ma la maggiore integrazione economica attraverso il commercio non ha portato alla maggiore armonia globale come alcuni avevano sperato. Nel 1996, mentre l’Occidente cavalcava la scia del crollo dell’Unione Sovietica, Thomas Friedman definì la «teoria degli archi d’oro sulla prevenzione dei conflitti»: non è mai accaduto che due Paesi dotati di McDonald’s si facessero la guerra[10]. Per tre decenni questa teoria si è dimostrata vera; è stata la guerra della Russia in Ucraina (e le sue ramificazioni) a mandarla in frantumi. È forse una metafora dei nostri tempi il fatto che, mentre McDonald’s ha riaperto in Ucraina, la casa del Big Mac – che è stata una delle prime aziende statunitensi a mettere piede in Russia dopo la caduta del Muro di Berlino – sia stata tra le 1.000 aziende che hanno abbandonato il mercato russo nel 2022 e rapidamente sostituita dall’azienda «Vkusno i Tochka» («Gustoso e basta»)[11].

Quelle che un tempo erano campagne contro la globalizzazione e contro il libero scambio in particolare, al di fuori dei vertici dei summit della World Trade Organization o nel cuore degli Stati Uniti, non si limitano ai liberi cittadini e agli uomini della strada. I leader provano a tratti lo stesso disagio: l’ungherese Viktor Orbán, il britannico Boris Johnson, il turco Recep Tayyip Erdoğan e l’americano Donald Trump hanno tutti inveito contro i danni che un mondo aperto ha arrecato ai loro Paesi.

L’idea che il libero commercio ci abbia resi liberi e che «i diritti e le opportunità di cui godono i cittadini dei Paesi occidentali possano e debbano essere universali» è diventata così radioattiva che, secondo il ministro delle Finanze e vice primo ministro canadese anti-protezionista Chrystia Freeland, «è impossibile pronunciare queste parole senza un briciolo di vergogna»[12].

La globalizzazione gode ancora di ottima salute, anche se in misura diversa, e con dei cambiamenti in atto. Descrivendo un mondo in cui il commercio e gli investimenti transfrontalieri stanno rallentando, i prestiti bancari diminuiscono e le catene di approvvigionamento si riducono, l’Economist ha intravisto la morte dell’«età dell’oro della globalizzazione» e chiamato la nuova era «Slowbalisation»[13]. In questa nuova era, le aziende e i Paesi tendono a dare più spazio alla resilienza anziché all’efficienza e risultano più interessanti le forniture garantite – una politica del «just in case» – indipendentemente dal costo più basso (ossia la vecchia politica del «just in time»). La globalizzazione sta attraversando una crisi di identità. Tuttavia, piuttosto che pensarla in termini di «velocità» o «lentezza», preferiamo pensare a un futuro definito da una globalizzazione light, che tenderà a funzionare meglio se ben gestita.

Nonostante il Covid e la guerra in Ucraina la globalizzazione è sopravvissuta, anche se è ferita, ammaccata e cambiata. Si sono riscontrati picchi e valli, crolli e creste, non diversamente da come è accaduto a qualsiasi ciclo economico. Con i cambiamenti della globalizzazione, gli aerei non vanno più piano. Le ferrovie non hanno più passaggi a livello e il traffico digitale, semmai, si muove più velocemente.

Mentre la globalizzazione vive, l’era dell’iperglobalizzazione invece giace cadavere. L’attuale globalizzazione light, incentrata sulla sicurezza, è come un interruttore dimmer che può regolare l’intensità, bilanciando il grado di integrazione di cui i Paesi hanno bisogno con l’indipendenza che desiderano. L’era della luce accecante dell’iperglobalizzazione ci ha mostrato i suoi limiti inequivocabilmente.

Negli Stati Uniti, la luce della globalizzazione si è un po’ affievolita. In un recente discorso, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha contestato la visione neoliberale secondo la quale tutto il commercio è buono, tutta la crescita è buona e che tutti e due conducono alla pace e alla prosperità[14]. Il bipartisan CHIPS and Science Act del 2022 prevede una spesa di 50 miliardi di dollari per «rivitalizzare l’industria manifatturiera nazionale, creare posti di lavoro americani ben retribuiti, rafforzare le catene di fornitura americane e accelerare le industrie del futuro»[15]. Micron ha annunciato l’intenzione di spendere cento miliardi di dollari per costruire una fabbrica di chip per computer a New York, mentre Intel sta destinando una cifra simile in Ohio[16]. Secondo il FMI, dal Covid, «le menzioni di reshoring, onshoring e nearshoring nelle presentazioni degli utili delle aziende sono quasi decuplicate»[17]. La strategia «China Plus One», in base alla quale le aziende evitano di investire solo in Cina cercando piuttosto di diversificare le attività, si sta facendo strada. Ma quand’anche il «disaccoppiamento» avvenisse, si tratterà solo di una risposta temporanea.

Occorrerà tempo, tra gli annunci di un maggiore protezionismo e l’attuazione di queste misure, perché il reshoring, il nearshoring e l’allyshoring accorcino le supply chain globali. Senza restrizioni protezionistiche sui flussi di dati transfrontalieri, il commercio online di servizi continuerà a espandersi grazie ai progressi della connettività digitale, mentre passiamo dalla preminenza del commercio fisico al commercio online con molti più dati e, per logica, meno beni fisici. Ma le dimensioni delle supply chain attuali e future si riflettono nel fatto che la Cina controlla più di un quarto della produzione manifatturiera mondiale. Come abbiamo visto con i lockdown dovuti al Covid, qualsiasi interruzione in Cina ha gravi conseguenze a catena. Spostare le supply chain non è un esercizio di vanità, ma una grande rivoluzione economica. E con le cautele politiche che ora guidano le azioni economiche, i cambiamenti non tarderanno ad arrivare.

Per trent’anni i governi hanno avuto un ruolo nella «liberazione» del commercio e questo è stato il cuore del movimento neoliberale. Oggi i governi tentano, con risultati alterni, di dirigere i mercati rinunciando in parte al profitto a vantaggio di una certa sicurezza, all’efficienza per la resilienza e preferendo al «just in time» il criterio dello «just in case». Come ha detto il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, «non possiamo permettere a Paesi come la Cina di usare la loro posizione di mercato relativa a materie prime, tecnologie o prodotti chiave per distruggere la nostra economia o esercitare un’indesiderata leva geopolitica»[18].

Sia il commercio che la geopolitica avranno un aspetto diverso nei prossimi anni, e saranno definiti da una forma di globalizzazione più protezionista. Sebbene Jake Sullivan abbia promosso alleanze bilaterali, regionali e basate su temi specifici – per esempio l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity – la sua politica è piuttosto scettica riguardo al ruolo della rete istituzionale internazionale nella risoluzione di problemi globali che necessitano di soluzioni globali[19]. E se dovessimo fare fatica a trovare tale equilibrio, quella che il FMI chiama «frammentazione geoeconomica inarrestabile» potrebbe portare a «una nuova guerra fredda che rischia di vedere il mondo frammentarsi in blocchi economici rivali»[20]. E la frammentazione ha un costo. I dati del FMI suggeriscono che questo spostamento verso una maggiore sicurezza economica potrebbe ridurre la produzione globale tra lo 0,2 per cento e il 12 per cento, a seconda di quel che accadrà nei prossimi anni[21]. La Banca Centrale Europea ha calcolato l’impatto potenziale sull’inflazione che, a seconda del grado di flessibilità salariale nei Paesi in cui si verifica l’onshoring, potrebbe aumentare tra lo 0,9 per cento e il 4,8 per cento[22].

Non è necessario che tutto questo accada. È possibile evitare una nuova guerra fredda e le relative e profonde conseguenze economiche. La nostra sfida consiste nel riuscire a distinguere tra ciò che è essenziale per promuovere una crescita economica sostenuta, e quanto è necessario per preservare l’autonomia dei Paesi.


[1] «A short history of America’s economy since World War II», Wilson Center, 23 gennaio 2014.

[2] Peter T. Kilborn, «Japan Invests Huge Sums Abroad, Much Of It InU.S. Treasury Bonds», New York Times, 11 marzo 1985.

[3] Aparajit Chakraborty, «India sees enhanced strategic cooperation with China, Russia, experts say», China Daily, 8 aprile 2022.

[4] Subrahmanyam Jaishankar, The India Way: Strategies for an Uncertain World, New York, HarperCollins, 2020.

[5] David Adler, Guillaume Long, «Lula’s foreign policy? Encouraging a multipolar world», Guardian, 1° gennaio 2023.

[6] Rodrigo Castillo, Caitlin Purdy, «China’s Role in Supplying CriticalMinerals for the Global Energy Transition», LTRC (Leveraging Transparency to Reduce Corruption), luglio 2022.

[7] Gordon Brown, «Nationalism is the ideology of our age. No wonder the world is in crisis», Guardian, 15 novembre 2022.

[8] George Orwell, «Notes on Nationalism», The Orwell Foundation.

[9] Benny Kleinman, Ernest Liu, Stephen J. Redding, «International Friends and Enemies» (luglio 2020), NBER Working Paper No. 27587.

[10] Thomas Friedman, «Foreign Affairs Big Mac I», New York Times, 8 dicembre 1996.

[11] Elliot Smith, «Russia faces “economic oblivion” despite claims of short-term resilience, economists say», CNBC, 2 agosto 2022.

[12] Chrystia Freeland, «How democracies can shape a changed global economy», intervento al Brookings Institution, Washington, D.C., 11 ottobre 2022

[13] «The steam has gone out of globalization», The Economist, 24 gennaio 2019.

[14] Jake Sullivan, «Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution», White House, 27 aprile 2023.

[15] «Fact Sheet: CHIPS and Science Act Will Lower Costs, Create Jobs, Strengthen Supply Chains, and Counter China», White House, 9 agosto 2022.

[16] Lauren Feiner, «Micron to spend up to $100 billion to build a computer chip factory in New York», CNBC, 4 ottobre 2022.

[17] Kristalina Georgieva, «Confronting Fragmentation Where It Matters Most: Trade, Debt, and Climate Action», imf.org, 16 gennaio 2023.

[18] «Remarks by Secretary of the Treasury Janet L. Yellen at LG Sciencepark», US Department of the Treasury, 19 luglio 2022.

[19] Jake Sullivan, «Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution», White House, 27 aprile 2023.

[20] Georgieva, op. cit.

[21] Ibidem.

[22] Maria Grazia Attinasi, Mirco Balatti, «Globalisation and its implications for inflation in advanced economies», European Central Bank, aprile 2021.


Copyright © 2023 by Gordon Brown, Mohamed A. EI-Erian and Michael Spence with Reid Lidow.

Scritto da
Gordon Brown

È stato Cancelliere dello Scacchiere e Primo Ministro del Regno Unito. Membro del Parlamento dal 1983 al 2015, oggi è inviato speciale delle Nazioni Unite per l’istruzione globale e Ambasciatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il finanziamento della salute globale. Tra le sue pubblicazioni: “Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi” (Bocconi University Press 2024).

Scritto da
Mohamed El-Erian

Presidente del Queens’ College dell’Università di Cambridge. Dal 2014 è Chief Economic Advisor presso Allianz. È presidente di Gramercy Fund Management, editorialista di «Bloomberg Opinion» e collaboratore del «Financial Times» e inoltre è Rene M. Kern Practice Professor presso l’Università della Pennsylvania. Tra le sue pubblicazioni: “Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi” (Bocconi University Press 2024).

Scritto da
Michael Spence

Philip H. Knight Professor Emeritus of Management presso la Stanford University e Senior Professor of Economics all’Università Bocconi e honorary fellow del Magdalen College di Oxford. Nel 2001 ha ricevuto il Premio Nobel per le Scienze Economiche per il suo lavoro nel campo dell’economia dell’informazione. Tra le sue pubblicazioni: “Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi” (Bocconi University Press 2024).

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