Piano per il Sud e Next Generation Fund: per un rilancio degli investimenti
- 18 Settembre 2020

Piano per il Sud e Next Generation Fund: per un rilancio degli investimenti

Scritto da Andrea Ciarini

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Il varo del Piano per il Sud è una buona notizia per le regioni del Mezzogiorno. Sono molti i punti qualificanti che a maggior ragione oggi, con la pandemia e la grave recessione che ne è seguita, segnano un punto di svolta rispetto alle stagioni passate. Degli approcci allo sviluppo territoriale inaugurati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso si è scritto molto. Non sono mancate letture critiche che a più riprese hanno messo in luce i limiti di una idea di sviluppo che abbandonando gli interventi settoriali e l’azione dall’alto dello Stato spesso ha finito con l’aggravare i divari territoriali. Saremmo tuttavia fuori strada se di fronte ai limiti di quella stagione tornassimo a rivendicare l’intervento straordinario tout court, o il ritorno al Keynesimo dall’alto, senza una pari considerazione dei problemi che hanno riguardato tutto il Paese, non una parte soltanto. La crisi del Mezzogiorno, la sua bassa produttività, l’acuirsi delle disuguaglianze e la forte ripresa dell’emigrazione, soprattutto quella high-skilled, sono a ben vedere la cartina di tornasole di un ventennio perduto che ha investito tutto il Paese, comprese quelle aree di piccola e media impresa che tanta attenzione avevano attirato in precedenza, tanto da fare da modello per le politiche di sviluppo territoriale inaugurate con i Patti territoriali.

Il punto di inizio non può che essere la transizione italiana degli anni Novanta, con i passaggi che hanno scandito le scelte di politica economica e l’ingresso nell’euro. Le questioni che in questo scenario si dipanano si muovono tra un piano macro (i vincoli esterni, la costruzione europea, le scelte imposte dall’alto) e uno più micro, relativo cioè alle scelte degli attori, intendendo con questi non solo i governi e le élite politiche, ma anche le grandi organizzazioni sociali, i sindacati, le imprese, i partiti. Dati i vincoli esterni che già prima dell’aggancio all’euro avevano tracciato uno spazio d’azione, che cosa si è fatto e cosa si poteva fare?

Il vincolo esterno ha funzionato da leva per riforme che altrimenti avrebbero incontrato forti resistenze, a partire dai primi tentativi di risanamento finanziario. C’è stato anche un prezzo che il sistema politico e quello produttivo hanno pagato: la fine delle svalutazioni competitive che sostenevano la specializzazione flessibile di imprese piccole ma già concentrate in settori maturi, a basso tasso di valore aggiunto, le manovre “lacrime e sangue” che hanno ridotto l’indebitamento e compresso fortemente la spesa pubblica (compresa quella per investimenti), la moderazione salariale, inaugurata con gli accordi del ’92-93 e molte altre cose. C’è stata però anche una scommessa del ceto politico e delle coalizioni di governo che hanno guidato il risanamento, è cioè l’idea che con un miglioramento dei conti pubblici e l’ingresso nell’euro ci sarebbero state condizioni molto più favorevoli per gli investimenti, per il credito bancario (all’epoca oneroso per le imprese), e dunque per sostenere il riaggiustamento verso l’alto del nostro sistema produttivo. Così in effetti è stato. In quegli anni crollano i tassi di interesse e le condizioni per la via alta ci sono. Manca però la politica industriale, in parallelo alla fine dell’intervento pubblico nell’economia (la liquidazione dell’IRI) e mancano quei beni collettivi di sostegno allo sviluppo economico su cui nei fatti non si è puntato.

Quella micro-concertazione su cui tanto si era investito, anche simbolicamente, senza coordinamento dal centro, ha prodotto risultati ben lontani dalle aspettative. Naturalmente qui non ci sono solo responsabilità delle istituzioni o dei governi. Nei primi anni Novanta si consuma uno strappo molto forte all’interno di Confindustria, che avrà conseguenze. Lo sforzo di risanamento finanziario accettato dai sindacati con i grandi accordi di concertazione del ’92-93 aveva come contropartita un impegno forte dal lato degli investimenti, che però sono mancati. Le scelte di Confindustria vanno in tutt’altra direzione, trovando sintesi nella richiesta di sola flessibilità e riduzione del costo del lavoro, oltre che delle tasse. Le imprese rivendicano in sostanza la riproposizione della via bassa alla competitività che però non era più praticabile nel nuovo contesto che si era aperto con l’ingresso nell’euro.

Per varie ragioni, dagli anni Novanta l’Italia non è stata più capace di trovare un modello di crescita adatto a confrontarsi con il nuovo quadro europeo, se non il tentativo di riprodurre un modello trainato dall’export con compressione della domanda interna, ma a basso valore aggiunto. Il prezzo di queste politiche sbagliate lo paghiamo ancora oggi, non solo per colpa dell’euro o dell’austerity, o della teoria dei vincoli esterni. Ma per l’incapacità di ripensare le leve dello sviluppo, in un contesto che non poteva più essere quello degli anni Ottanta. Questo vale per l’economia e per i divari Nord-Sud, tornati a riacutizzarsi come mai prima, almeno se si prende a riferimento l’ultimo cinquantennio. È una spirale negativa fatta di disimpegno pubblico, taglio degli investimenti, deficit amministrativi e desertificazione industriale quella che ha colpito le regioni meridionali. L’inversione di tendenza affidata ai soli fondi strutturali non ha modificato più di tanto questo quadro deficitario. E non ha giovato certo alla discussione l’idea che il problema principale fosse da rintracciare nella qualità della pubblica amministrazione locale o nel basso capitale sociale con cui al Sud si governavano i processi di sviluppo.

Senza risorse adeguate, senza mission strategiche e strutture in grado di accompagnare i territori nella progettazione e realizzazione degli interventi, il capitale sociale da solo non basta. Rischia anzi di produrre un ulteriore irrigidimento delle reti spartitorie, sempre in agguato anche quando lo sviluppo è dal basso. A dire il vero già negli anni più recenti si è assistito a un tentativo di ribilanciamento dei rapporti tra centro e territori, con una azione di coordinamento centrale che è tornata a indicare priorità e assi strategici per la costruzione dei partenariati territoriali.

Il Piano per il Sud rafforza questo indirizzo, nel merito e nel metodo. Nel merito per la definizione di mission strategiche su cui fare convergere le regioni del Mezzogiorno e anche lo Stato. Uno Stato “promozionale”, disponibile cioè ad assumere rischi di investimenti a lungo termine nei campi strategici dell’istruzione e ricerca scientifica, del trasferimento tecnologico tra università e imprese, della transizione tecnologica e ambientale, delle infrastrutture materiali e immateriali, tutti fattori che giocano un ruolo determinante ai fini del riposizionamento verso l’alto delle imprese. Nel metodo, per il tentativo di potenziare il coordinamento centrale in stretta relazione con i territori, chiamati ad attivare risorse e capitale sociale non su obiettivi generici, ma su specifici target, da monitorare nel corso del tempo. Può un piano di questo genere sostenere la ripresa del Mezzogiorno e contribuire a ridurre le fratture territoriali?

Un primo elemento da non sottovalutare è la ripresa di una idea unitaria della politica industriale in favore del Mezzogiorno, con un chiaro indirizzo di policy volto a favorire un reinsediamento industriale e riattivare il motore della domanda interna, troppo spesso trascurato e invece funzionale anche alle imprese del Nord. Il secondo aspetto riguarda la mobilitazione di investimenti strategici tanto sulle strutture produttive, quanto sulle infrastrutture sociali e sui beni pubblici di sostegno all’economia. Si dimentica troppo di sottolineare come sulla forte ripresa dell’emigrazione dal Mezzogiorno, soprattutto quella più scolarizzata, non influisce solo la carenza di adeguate occasioni di lavoro. È un problema anche di qualità della vita, di servizi e infrastrutture sociali scadenti o troppo disperse sul territori, di diritti di cittadinanza e livelli essenziali delle prestazioni negati, soprattutto nelle aree interne. L’intervento su queste criticità è uno dei punti qualificanti del Piano, e lo è tanto più adesso alla luce degli effetti sociali della pandemia e della risposta senza precedenti messa in campo dalle istituzioni europee, a cominciare dal Next Generation Fund.

È questo il terreno cruciale su cui giocherà il successo del Piano per il Sud, la capacità cioè delle sue line programmatiche di intercettare gli assi di interventi e i progetti messi a finanziamento dai fondi europei. La questione è complessa e va affrontata con strumenti da non limitare alla sola ingegneria finanziaria o al disegno istituzionale. Se per certi versi il Piano per il Sud ha anticipato alcune delle linee programmatiche europee, la sua riuscita dipende oggi più che mai dalla capacità di messa a terra degli investimenti su pochi ma ben delineati obiettivi. Per fare questo occorre una visione di indirizzo (e questa non manca), e una regia davvero in grado di integrare al meglio il piano macro strutturale (ancora una volta i vincoli esterni, l’azione delle istituzioni comunitarie) e quello micro degli attori sociali nella loro più larga accezione (non solo le istituzioni locali, ma anche le grandi organizzazioni sociali, le imprese, le organizzazioni del terzo settore). Una delle questioni fondamentali è qui l’incubazione dell’innovazione economica e sociale. Perché questa non diventi fine a sé stessa, occorre moltiplicare su scala nazionale il parco di “buoni progetti” da finanziare e incubare, soprattutto in quelle aree di intervento che più possono dare in termini di nuova occupazione, nuove reti di imprese e contributo al rafforzamento delle dotazioni di servizi sui territori: contrasto della povertà, creazione di lavoro, sostenibilità ambientale, servizi alle persone. Per questo è importante che le scelte di investimento vengano accompagnate da una attenta analisi dei fabbisogni territoriali. Data l’estrema frammentazione interna e la grande varietà degli approcci di governance sul territorio, vanno recuperate risorse per una piena integrazione tra investimenti strategici e programmazione territoriale.

Senza questo collegamento, da affidare a strutture articolate territorialmente in grado di attivare e seguire le fasi implementative (troppo spesso dimenticate in Italia), il rischio è quello di finire in uno dei tanti libri dei sogni mai portati a compimento. Ne è piena la storia, non solo recente, di questo Paese. Mai come in questo momento ci sono le condizioni per una reale inversione di rotta che curi insieme ai mali della pandemia anche i problemi irrisolti del ventennio perduto che ha segnato in profondità il declino italiano. La partita è aperta e molto dipenderà dalla capacità di creare un consenso trasversale, nella società che più solo tra i policy makers, ben sapendo tuttavia che gli effetti si andranno a dispiegare su un arco di tempo medio-lungo. Per questo è importante e non da sottovalutare l’idea di accompagnare alla realizzazione del Piano, misure di impatto più immediato come gli sgravi contributivi alle assunzioni o le varie agevolazioni fiscali per far ripartire l’occupazione. Presi da soli saremmo di fronte a una riedizione di misure già introdotte in passato. Non così sarà – e ci auguriamo lo sia per il futuro – se le leve dell’incentivazione fiscale incroceranno il ritorno della politica industriale e degli investimenti a lungo termine.

Una strategia a breve necessita di azioni in grado di incidere sui contesti. La stagione dei patti territoriali portava con sé l’idea di replicare nelle aree del Mezzogiorno quel sistema reticolare di piccole imprese integrate tipico dei sistemi a economia diffusa del Centro-Nord e della dorsale adriatica. Di contro, venivano archiviate e definitivamente abbandonate tutte le politiche settoriali e le istituzioni che avevano accompagnato l’intervento straordinario. Ma ha senso oggi parlare di nuovo intervento straordinario per il Sud? Messo a confronto con i lasciati delle politiche pattizie, verrebbe da dire di sì. Più volte la micro-concertazione territoriale dei patti ha finito per rafforzare quei circuiti spartitori che si intendevano contrastare, con poco o nulla peraltro in termini di sviluppo economico o nuovi insediamenti produttivi. Anche per questo, quel lontano passato fatto di un connubio tutt’altro che episodico, ma attentamente pianificato, tra pubblico e privato torna oggi a interrogarci. Senza pensare di replicare tout court esperienze ormai superate, resta la questione di come accompagnare dal centro – e non solo nei rapporti tra gli stakeholders territoriali – lo sviluppo produttivo. Per questa ragione soprattutto il Piano per il Sud appare promettente. Non antepone il metodo (cioè il come si fa) agli obiettivi (fare che cosa). Al contrario fissa obiettivi di medio e lungo termine su cui ancorare una rosa di azioni, demandate tanto allo Stato quanto alle società locali, senza inutili contrapposizioni – tra centro e periferia, o tra Stato, mercato e società – che possiamo tranquillamente lasciare agli anni scorsi senza sentirne troppo la mancanza.

Scritto da
Andrea Ciarini

Professore associato di Sociologia dei processi economici, organizzativi e del lavoro presso il Dipartimento di scienze sociali ed economiche della Sapienza di Roma, dove insegna sociologia economica e sociologia del welfare. È stato membro dell’High-Level Task Force for social infrastructures promossa dalla Commissione Europea e dall’European Long-Term Investors Association (ELTI). Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Politiche di welfare e investimenti sociali (il Mulino 2020) e Le politiche sociali nelle regioni italiane. Costanti storiche e trasformazioni recenti (il Mulino 2012).

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