Recensione a: Giacomo Pisani, Piattaforme digitali e autodeterminazione. Relazioni sociali, lavoro e diritti al tempo della “governamentalità algoritmica”, Mucchi Editore, Modena 2023, pp. 202, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Nasi
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Molti dei dibattiti che ruotano intorno all’impatto sociale del digitale condividono una domanda di fondo: quale spazio di libertà rimane per l’essere umano? Studiando varie realtà, che appartengano al mondo del lavoro, dell’istruzione o della pubblica amministrazione, ciò che spesso si cerca di fare è comprendere quanto, e in quali modalità, gli strumenti digitali possano condizionare, modificare o addirittura determinare la condotta delle persone. Si interrogano così gli spazi in cui viene riformulata l’idea di libertà e di autodeterminazione in una società sempre più caratterizzata dall’utilizzo di algoritmi e sistemi di decisione autonoma.
È questo il tema al centro del libro di Giacomo Pisani Piattaforme digitali e autodeterminazione. Relazioni sociali, lavoro e diritti al tempo della “governamentalità algoritmica”. Pisani è dottore di ricerca in Diritti e Istituzioni presso l’Università di Torino e nel corso della sua ricerca si è occupato di welfare e diritti sociali, trasformazioni del lavoro, filosofia e teoria sociale critica del diritto. L’autore indaga il problema dell’autodeterminazione nella società degli algoritmi da una prospettiva profondamente interdisciplinare, tenendo insieme filosofia, sociologia e diritto, con un focus sulla questione del lavoro delle piattaforme, soprattutto legato alla cosiddetta gig economy.
Il volume inizia con un inquadramento teorico incentrato sulle modalità attraverso cui gli algoritmi influenzano gli esseri umani. Ciò significa, sostanzialmente, parlare di potere. Su questo tema esiste una corposa letteratura in ambito sociologico (soprattutto all’interno della cosiddetta teoria critica) che si rifà alle categorie introdotte dal filosofo francese Michel Foucault, in particolare quella di governamentalità. Si tratta di un termine complesso che, come ha ben mostrato William Walters[1] in un importante studio sul tema, presenta significati differenti in diversi passaggi nell’opera di Foucault. Pisani si rifà alla definizione più diffusa, quella di governamentalità come ragione liberale[2]. In questo caso, la governamentalità si configura come una forma di potere molto diversa rispetto alla disciplina delle carceri o alla sovranità degli Stati. È una forma di potere che «non mira a ridurre la libertà del soggetto, ma ad organizzarla e indirizzarla in modo da renderla conveniente con gli interessi di mercato» (p. 42). Si tratta quindi di un potere “nascosto”, lontano dalla violenza esplicita della sovranità o dalla rigidezza della disciplina, e che proprio per questa capacità di non farsi vedere impatta profondamente sull’identità della persona, andandone a indirizzare volontà e soggettività, ledendo lo spazio per l’autodeterminazione. Di questa prima parte, particolarmente apprezzabile è il tentativo di rendere conto della complessità del potere delle piattaforme, mostrando come diversi algoritmi possano costituire diverse relazioni. Diventa allora importante distinguere tra algoritmi descrittivi, predittivi e prescrittivi, o ancora tentare una classificazione degli algoritmi sulla base dell’autonomia del soggetto umano, come proposto da Michael Gal (p. 22).
Nel secondo capitolo, il framework foucaultiano viene utilizzato per leggere la realtà del lavoro nell’economia delle piattaforme digitali, con servizi come Uber, Lyft, Deliveroo, Glovo, ma anche Upwork o ProntoPro. La governamentalità algoritmica passa attraverso tutta una serie di tecnologie, come le forme di sorveglianza nell’ambito della logistica e i meccanismi reputazionali di valutazione delle prestazioni. Si va così a formare un sistema in cui lo spazio per l’autodeterminazione umana viene profondamente eroso. Questo restringimento deriva soprattutto dal fatto che il lavoro digitalmente mediato, dietro la promessa di una maggiore libertà, nasconde di fatto un’interiorizzazione della soggezione. Come sottolinea Pisani: «il controllo sul lavoratore non scompare: esso si focalizza, però, più sul risultato da ottenere che sulle modalità di esecuzione della singola mansione. L’obiettivo dell’azienda è, allora, la normalizzazione delle persone piuttosto che la normalizzazione delle azioni». A questo si aggiunge poi la questione dell’opacità algoritmica, per cui gli utenti/lavoratori sono spesso all’oscuro delle esatte ragioni che determinano le loro condizioni di lavoro. Questo concorre, tra l’altro, a «modificare la percezione della norma, la cui essenza viene mimetizzata entro l’immanenza dei meccanismi di funzionamento della rete» (p. 69), contribuendo così ad aumentare le asimmetrie di potere tra lavoratore e datore di lavoro.
Qui entra in gioco il diritto. La giurisprudenza italiana ed europea ha attenzionato il tema del lavoro delle piattaforme da alcuni anni, orientandosi verso un riconoscimento della dipendenza dei provider nei confronti delle piattaforme digitali. Si può parlare di una “svolta verso la subordinazione”, per cui al lavoro di rider e altri utenti/lavoratori/sfruttati vengono riconosciute le stesse forme di tutela del lavoro subordinato. Ma molta strada resta ancora da fare per riequilibrare davvero le asimmetrie di potere in questi ambiti. Per esempio, in una società in cui sempre più spesso “il capo è un algoritmo”[3], emerge con forza l’esigenza di affermare un “diritto alla spiegazione”, affinché le decisioni degli algoritmi siano conoscibili e trasparenti, così come indicato dalla recente direttiva dell’Unione Europea.
La prospettiva del diritto non può però essere la panacea di tutti i mali. Secondo Pisani, un grosso limite dell’attuale framework legislativo (a cominciare proprio dal GDPR, la legge europea sulla protezione dei dati personali) sta nell’adottare un’impostazione esclusivamente individualista, che non riesce a rappresentare la dimensione collettiva in gioco. Come afferma l’autore «le possibilità messe a disposizione dal GDPR si rivelano insufficienti al fine di garantire l’autodeterminazione del soggetto. Ammettendo che il singolo utente sia in grado di decifrare il funzionamento algoritmico e di opporsi efficacemente all’uso che, di volta in volta, le piattaforme pretendono di fare dei propri dati, egli sarebbe comunque impossibilitato a percorrere delle alternative che favoriscano la propria autorealizzazione» (p. 128).
La tesi con cui Pisani chiude il suo lavoro tenta di rispondere a questo dilemma. Secondo l’autore, la sfida per l’autodeterminazione del soggetto nella società degli algoritmi non può essere esclusivamente individuale e basata su un’idea di libertà negativa. C’è bisogno, al contrario, di uno sforzo collettivo, comunitario, che ponga al centro una libertà positiva di fare e di fare insieme. Per essere veramente libero, infatti, il soggetto non può essere solo nella condizione di contestare a posteriori l’uso dei propri dati o la scelta dell’algoritmo, ma deve poter contribuire a monte a definire le norme che regolano gli spazi digitali. È quindi necessario promuovere la valorizzazione e l’iniziativa degli utenti, mettendo al centro la dimensione collettiva dell’autodeterminazione della persona, in un più ampio tentativo di democratizzare e politicizzare il digitale.
Ciò che Pisani propone è di fondamentale importanza. Il digitale, strettamente legato al più ampio processo di sviluppo della tecnica, è sempre stato caratterizzato da una certa aura di “neutralità” che l’ha esentato da forme democratiche di politicizzazione. La verità, però, è che la digitalizzazione è un fenomeno impregnato di politica e relazioni di potere che, come tali, possono essere modificate in una direzione o in un’altra. Se l’attuale governance del digitale presenta tratti spesso “autoritari”, concentrati quasi esclusivamente sulla massimizzazione del profitto e sull’accentramento di potere e risorse, ciò non significa che non possa esistere un altro digitale, più etico e democratico.
A livello giuridico, l’autore riprende questa idea dal principio di sussidiarietà orizzontale dell’ordinamento italiano, che rompe con una concezione piramidale del diritto per valorizzare il pluralismo e il dinamismo sociale. Questa formula trova espressione nel modello dell’amministrazione condivisa, delineato all’articolo 55 del Codice del terzo settore, per cui «la realizzazione dell’interesse generale deve essere promossa anche attraverso la collaborazione fra il pubblico e quegli attori sociali la cui azione sia orientata al bene comune, in un’ottica di “pluralizzazione” della decisione politica» (p. 154). Pisani riporta l’esempio di Barcellona, dove nel 2017 è stata promossa un’esperienza di city data commons, un modello di gestione pubblica e trasparente dei dati: è questo tipo di formule che bisognerebbe cercare di diffondere, per portare avanti una gestione democratica del digitale che riconosca il potere delle persone e dia loro l’opportunità di ribaltare nella prassi (non solo nella teoria del diritto) le asimmetrie di potere.
Gli spunti di discussione che vengono dal libro sono numerosissimi. Il tentativo dell’autore di tenere insieme la prospettiva filosofica del potere foucaultiano, l’analisi sociologica del lavoro delle piattaforme, il quadro giuridico delineato dalle istituzioni nazionali e internazionali e un’originale proposta normativa è affascinante e restituisce una dimensione olistica ad un ambito di studi che richiede, per sua natura, una forte interdisciplinarità. Affrontando così tante questioni, certe intuizioni interessanti (come quella sulle diverse relazioni di potere che si instaurano con diversi tipi di algoritmi e diverse soggettività umane) rimangono purtroppo in secondo piano. Se in certi passaggi gli elementi presentati faticano a stare tutti insieme, in generale il percorso delineato da Pisani risulta però sempre lineare, accompagnando il lettore attraverso temi complessi con una buona chiarezza espositiva.
La scelta di focalizzarsi sul potere per parlare dell’autodeterminazione è vincente. Ancora più importante è aver legato questo aspetto alla necessità di riaffermare una dimensione collettiva dell’autodeterminazione, poiché il singolo individuo da solo risulta, nei fatti, impossibilitato ad opporsi con successo ad un sistema di relazioni sociali strutturato in maniera non democratica. Quest’intuizione, seppur teoricamente molto rilevante, rischia però di scontrarsi con una contingenza storica in cui lo spazio per l’azione politica si è molto assottigliato, soprattutto su temi così complessi e non ancora largamente politicizzati come quelli relativi ai dati e al digitale. Se infatti ormai tra gig economy, chatbot e intelligenze artificiali le questioni relative al digitale sono al centro del dibattito pubblico, la consapevolezza dell’intrinseca politicità di questi temi sembra ancora lontana. Ma è proprio da questa consapevolezza che passa la possibilità di costruire quella che potremmo chiamare una “governance democratica del digitale”.
[1] William Walters, Governmentality. Critical Encounters, Routledge, Londra e New York 2012.
[2] Questa è l’idea di governamentalità intesa nella celebre definizione contenuta nel ciclo di lezioni Sicurezza, territorio e popolazione: «the ensembled formed by the institutions, procedures, analyses and reflections, calculations and tactics that allow the exercise of this very specific albeit complex form of power, which has as its target population, as its principal form of knowledge political economic and as its essential technical means apparatuses of security». Michel Foucault, (1978/2004, p. 88) Security, territory and population. Lecutres at the Collège de France, 1977-1978, Michel Senellart (a cura di), Palgrave Macmillnan, Londra 2009.
[3] Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Laterza, Roma-Bari 2020.