Piero Calamandrei, una vita per la libertà
- 20 Aprile 2019

Piero Calamandrei, una vita per la libertà

Scritto da Michelangelo Morelli

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“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale solo quando comincia a mancare”. Quella che sembra la massima di una saggezza arcana, è in realtà una frase tratta da un’appassionata difesa della giovane Costituzione Italiana che Piero Calamandrei pronunciò davanti agli studenti milanesi nel 1955. Giurista, padre costituente e appassionato uomo politico, Calamandrei attraversò la brutale temperie culturale e politica fascista recando con sé un nuovo ordine di principi di diritto, fondamentale per la successiva edificazione di quel sistema costituzionale per cui egli, nei primi cruciali anni, si prodigò con ardente passione e straordinario senso civico.

Piero Calamandrei nacque a Firenze il 21 aprile 1889 da Rodolfo, professore di diritto commerciale, e Laudomia Pimpinelli. L’infanzia si svolse placidamente all’insegna delle idealità repubblicane dal padre, deputato dal 1906 al 1908, che impartì al figlio un’educazione severa, di cui il rigore morale caratteristico del giurista è la cifra più evidente. Questi dimostrò precocemente una spiccata vocazione letteraria, trasposta nei versi e favole pubblicati tra 1910 e 1912 su alcune riviste, tra cui il celebre Corriere dei Piccoli e Il Giornalino della Domenica.

Seguendo la tradizione famigliare Calamandrei si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove nel 1912 discusse con Carlo Lessona una tesi di laurea sulla chiamata in garanzia. Recatosi successivamente a Roma per perfezionare gli studi di diritto processuale, rimase profondamente influenzato da Giuseppe Chiovenda, fondatore di una nuova scuola processualcivilistica improntata ad un approccio più sistematico della materia e del diritto in generale.

Nel 1915, anno in cui ottenne la cattedra di diritto processuale civile a Messina, Calamandrei scelse di arruolarsi nell’esercito, complice un effimero quanto diffuso entusiasmo interventista all’ingresso dell’Italia in guerra. Iniziando come sottotenente, per poi diventare sul finire del conflitto capitano decorato e successivamente tenente colonnello, Calamandrei si distinse sul fronte tanto in battaglia quanto nel campo dell’avvocatura. Infatti, nel mezzo del conflitto scelse di difendere otto commilitoni accusati di aver abbandonato il loro posto, riuscendo a vincere il processo e ad evitar loro pesanti conseguenze.

All’indomani della ripresa dell’attività accademica Calamandrei si concentrò sullo sviluppo delle tesi chiovendiane di rottura con la tradizione giuridica d’ascendenza liberale. Chiovenda infatti, superando la concezione tradizionale dell’istituto processuale, in cui l’utilizzo dei relativi strumenti doveva essere riservata in via privilegiata alle parti interessate, vi sostituì un sistema dove l’attribuzione di larghi poteri ai giudici aveva come obiettivo la soddisfazione di interessi non più particolari, bensì generali.

Tale caratura, lungi dal suggerire tentazioni stataliste, rappresentava invece un passo in direzione di una visione più realistica del processo. Nella visione liberale quest’ultimo era visto come luogo ideale per la composizione di controversie tra parti, che a loro volta erano reputate perfettamente alla pari nell’utilizzo degli strumenti giuridici a disposizione. La nuova redistribuzione di potere teorizzata da Chiovenda prendeva invece atto di una realtà diametralmente opposta, caratterizzata da inevitabili squilibri tra i contendenti. In tal senso la funzione riequilibratrice del giudice era perciò necessaria per un il buon funzionamento dell’istituto e consequenzialmente per la salvaguardia dell’interesse generale.

Nei due volumi su La Cassazione Civile, pubblicati nel 1920, Calamandrei riprese l’afflato riformista proprio delle teorie del maestro. Oltre ad un approccio propriamente politico del diritto, evidente nella proposta di istituire una corte di cassazione unica al posto delle cinque corti regionali, il giurista fiorentino perseguì una costante ricerca di strumenti giuridici capaci di assicurare sia la supremazia del diritto che la sua certezza di fronte ad ogni sorta di sperequazione.

A tale impeto riformista fa da cornice il sistematico superamento di quel “formalismo labirintico” che, stritolando il sistema liberale nelle spire di un rigorismo fine a se stesso, finiva inevitabilmente per corrompere il buon andamento delle procedure giudiziarie. A tal proposito Calamandrei esaltava la “funzione utile del diritto”, riconducendo puntualmente le più ardite costruzioni teoriche alla loro matrice ideologica in nome della valorizzazione della finalità ultima della processualistica civile: un rapporto chiaro ed efficace con il cittadino e i suoi diritti.

I primi segni del passaggio di Calamandrei dalla “politica del diritto” alla politica vera e propria sono rinvenibili nell’incontro con Gaetano Salvemini nel 1919 e nella collaborazione con L’Unità nel 1920, anno in cui partecipò anche alla fondazione del Circolo di cultura fiorentino. Un anno dopo venne dato alle stampe Troppi Avvocati!, in cui Calamandrei affrontava il nodo della formazione giuridica degli avvocati e della loro organizzazione professionale, proponendo in tal senso una riforma complessiva delle facoltà di Giurisprudenza.

Nel 1921 Calamandrei, diventato professore ordinario a Siena, tenne nell’ateneo della città un discorso intitolato Governo e Magistratura, felice incontro tra le suggestioni chiovendiane e un’apologia del moderno Stato di diritto. Oltre a rivolgere i propri strali contro l’astruso dogmatismo liberale Calamandrei implementò la costruzione teorica del maestro, legando le implicazioni sociali di quest’ultima all’efficienza propria del Rechtsstaat, criticando per questo le ingerenze dell’esecutivo nella sfera del potere giudiziario in favore di una sua maggiore autonomia ed indipendenza dei suoi operatori. In altre parole, Calamandrei non solo recepì la lezione del maestro in materia di maggiori attribuzioni alla magistratura, ma sviluppò una teorizzazione più universale, oltre il seminato della processualistica civile, inserendovi un ordine di principi generali evidenti poi nell’opera di disturbo/revisione del regime fascista e nell’impegno successivo per la legalità costituzionale.

 

Calamandrei e il fascismo

L’avvento del fascismo impresse un rinnovato vigore all’attivismo politico di Calamandrei, indignato dalla barbarie squadrista rivolta contro il Circolo di cultura fiorentino e contro molti studi di avvocati da parte dei fascisti il 31 dicembre 1924. Il sentimento di progressiva degenerazione del tessuto sociale e politico lo portò ad aderire a numerosi atti di protesta pubblici, sottoscrivendo insieme a molte personalità del tempo Il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Il delitto Matteotti non fece altro che radicalizzare questa presa di posizione, portandolo ad aderire all’Unione Nazionale di Giorgio Amendola e alla società Italia Libera, oltre ad intessere stretti rapporti con il circolo antifascista fiorentino Non Mollare.

La breve stagione politica di Calamandrei terminò con la normalizzazione del regime a metà degli anni Venti, inducendolo a ritirarsi nell’esercizio dell’avvocatura e all’insegnamento nell’ateneo fiorentino al quale era arrivato nel 1924. Egli fu comunque chiamato in quello stesso anno nella sottocommissione incaricata di riformare il codice di procedura penale, senza che tuttavia le proposte elaborate nei due anni di lavori venissero recepite dal regime. Nonostante la collaborazione, Calamandrei fu uno dei pochi intellettuali a non chiedere la tessera del Partito, giurando però nel 1931 fedeltà al regime per poter proseguire nell’insegnamento accademico.

Il tentativo di riformare i codici di diritto italiani, iniziati con la commissione del 1924 a cui partecipò Calamandrei, rimase comunque lettera morta negli anni a venire, nonostante i tentativi dei ministri di Grazia e Giustizia Pietro De Francisci e Arrigo Solmi. Nel 1939 il progetto fu ripreso da Dino Grandi, salito alla guida del dicastero in quell’anno, che affidò l’incarico al magistrato Leopoldo Conforti e coinvolse i più importanti esperti di procedura civile del tempo, tra cui lo stesso Calamandrei. L’anno successivo Grandi decise di privilegiare il rapporto con il giurista fiorentino, tanto che in una riunione con Mussolini il gerarca ebbe a raccomandare lo stesso al duce con le parole “il più fascista è il non fascista Calamandrei”.

Le motivazioni che spinsero un intellettuale come Calamandrei, ben consapevole delle implicazioni politiche di tale lavoro, a collaborare con il regime di cui fu sempre fiero oppositore sono simili a quelle di molti altri antifascisti nelle loro attività pubbliche, che tentarono di servirsi di queste occasioni per mitigare per quanto possibile la rudezza di un regime sulla strada di un ulteriore imbarbarimento a causa della crescente vicinanza alla Germania nazista. In altre parole, se lo scontro col fascismo sul piano politico era ormai impraticabile a causa del controllo poliziesco del regime, Calamandrei cercò di imprimere un nuovo indirizzo direttamente dall’interno, servendosi dell’insegnamento universitario e, per l’appunto, del nuovo incarico.

Piero Calamandrei

Sebbene molti dei fautori del nuovo codice di procedura civile, entrato in vigore nel 1942, tra cui Conforti e Grandi, affermarono di essersi richiamati nella stesura del testo a Chiovenda, di quest’ultimo nel testo c’è ben poco. Si tratta infatti di un codice di diritto coerente con un regime dittatoriale e liberticida, dove la figura del magistrato, sebbene riprendesse lo spirito chiovendiano della tutela dell’interesse generale, presentava una caratterizzazione fortemente inquisitoria e liberticida, piegando il tema delle istanze sociali alla logica securitaria dell’autoritarismo fascista.

Nel 1941 Calamandrei aderì al movimento Giustizia e Libertà, mentre l’anno successivo fu insieme a Ugo La Malfa e Ferruccio Parri tra i fondatori del Partito d’Azione. Nel maggio del 1943 dovette difendersi da un’accusa di disfattismo, per cui intervennero in sua difesa il Rettore dell’Università di Firenze Arrigo Serpieri e il Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo De Marsico, che intercesse per lui presso lo stesso Mussolini. Il 26 luglio 1943, dopo la caduta del regime Calamandrei prese il posto di Serpieri, abbandonando però dopo l’8 settembre Firenze e l’incarico a causa di un mandato di cattura, trasferendosi prima a Treggiaia, poi a Collicello Umbro e infine nuovamente nel capoluogo toscano dopo la liberazione della città nell’agosto 1944.

 

Libertà è Costituzione: l’ossigeno della democrazia

Il periodo tra la liberazione di Firenze e l’instaurazione della Repubblica apre uno dei momenti più alti della teorizzazione di Calamandrei, ormai sciolto dai rapporti di forza col fascismo e impegnato nella strenua difesa del paradigma liberaldemocratico. Il nuovo ordine, base imprescindibile per la nuova Costituzione, doveva segnare una cesura rivoluzionaria con il passato fascista e monarchico: in tal senso Calamandrei rivendicò fortemente la sovranità dell’Assemblea Costituente, cui spettava di diritto la scelta riguardante la nuova forma di Stato che l’Italia avrebbe dovuto assumere.

Una simile rottura non implicava però il rigetto aprioristico dalla Monarchia: quando infatti il Re Umberto II prospettò l’ipotesi di un referendum istituzionale, Calamandrei si oppose alacremente per poi, a consultazione avvenuta, prendere atto della realtà di fatto repubblicana. La preferenza espressa per una continuità istituzionale tra vecchio e nuovo regime era evidente nella sua proposta in commissione di una repubblica presidenziale, con un capo di Stato a elezione diretta e facente funzioni di capo del governo, in modo da assicurare stabilità e governabilità alla nascente democrazia.

Altro nodo affrontato da Calamandrei nei lavori assembleari fu quello dell’incompatibilità tra i Patti Lateranensi, inseriti poi nell’Articolo 7 della Costituzione, e lo spirito di quest’ultima. Per Calamandrei affermare la “pari sovranità” dello Stato e della Chiesa significava provocare nel nuovo ordine un’incrinatura confessionale, frutto anche delle difficoltà nell’interpretare correttamente il rapporto tra le norme concordatarie e costituzionali. Ad aggiungersi a questa problematica vi era anche l’intenzione in Assemblea di sancire l’indissolubilità dell’istituto matrimoniale, scongiurata anche dalla ferma opposizione del giurista fiorentino.

Il tema dei rapporti tra Stato e Chiesa rifletteva anche i complessi rapporti di forza tra la sinistra e la destra dell’arco assembleare, impegnate in un dialogo tanto estenuante quanto agguerrito. Se l’Articolo 7 fu senza dubbio il risultato di una concessione da parte del PCI di Togliatti, un altro campo, quello dei diritti sociali, fu altrettanto travagliato da esigenze e sentimenti contrastanti. Se da un lato Calamandrei sottolineava la natura imprescindibile e propulsiva di tali diritti, necessaria affinché lo Stato rimuovesse gli ostacoli economici e sociali tra l’individuo e la sua piena realizzazione, dall’altro egli stesso dubitava della possibilità concreta riguardante la loro effettiva attuabilità. Infatti, quando i costituenti optarono per l’inserimento di un ampio catalogo di diritti, Calamandrei affermò che non si trattava altro che di una “rivoluzione promessa” alla sinistra per compensarla di una rivoluzione mancata.

Piero Calamandrei

Piero Calamandrei tra Benedetto Croce ed Enrico De Nicola

Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione Calamandrei entrò nel Unione dei Socialisti, con cui fu eletto in raggruppamento al Partito Socialisti dei Lavoratori Italiani (poi PSDI) alle elezioni del 1948. Strenuo oppositore alla Legge Truffa del 1953, Calamandrei fuoriuscì quell’anno dal PSDI quando questo votò in favore alla nuova quanto effimera legge elettorale, fondando dapprima Autonomia Socialista e in seguito, assieme a Ferruccio Parri, il gruppo di Unità Popolare. Quest’ultimo, nonostante non fosse riuscito a eleggere alcun deputato nella prima legislatura, impedì comunque alla Democrazia Cristiana di prendere abbastanza voti da far scattare il premio di maggioranza previsto dal sistema elettorale.

Negli ultimi anni di vita Calamandrei concentrò i propri sforzi sulla concretizzazione dei punti cardine della Costituzione, primo fra tutti quello riguardante la Corte Costituzionale, operativa dal 1955, a cui lo stesso partecipò nella prima udienza in veste di avvocato. Il suo anelito a difesa della nuova legalità costituzionale, magistralmente condotta attraverso le pagine de Il Ponte, venne espresso anche tramite clamorose prese di posizione pubbliche. Ne è un esempio l’accorata difesa di Danilo Dolci nel Marzo 1956, reo di aver condotto uno “sciopero alla rovescia” in cui, assieme ad alcuni braccianti disoccupati, aveva iniziato a riparare una strada dismessa tra Partinico e Trapani. Il processo venne subito stigmatizzato come “processo alla Costituzione” dagli intellettuali laici tra i quali lo stesso Calamandrei, che morì qualche mese dopo a Firenze, il 27 novembre 1956.

L’ottica in cui la pratica e il pensiero di Calamandrei si mossero, al di là degli approcci particolari ai singoli temi, fu quella di tutela dell’interesse generale e difesa del principio di legalità. Queste tematiche segnarono come stelle polari il cammino intellettuale del giurista fiorentino, segnato dagli anni di elaborazione delle tesi chiovendiane e dalla testarda quanto sagace opera di disturbo durante il fascismo. Un cammino terminato nel cuore degli anni del miracolo, immerso nell’ordine repubblicano di cui egli fu senza dubbio dotto custode e fedele partigiano.

Scritto da
Michelangelo Morelli

Laureato in Storia delle istituzioni politiche all’Università di Bologna, frequenta attualmente il corso magistrale in Scienze storiche presso il medesimo Ateneo ed è alunno della Scuola di Politiche.

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