Piero Gobetti tra formazione delle élite e crisi della rappresentanza liberale
- 13 Luglio 2017

Piero Gobetti tra formazione delle élite e crisi della rappresentanza liberale

Scritto da Federico Diamanti

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Questo articolo apre un ciclo dedicato all’analisi del pensiero di Piero Gobetti che prosegue in due contributi: I consigli di fabbrica a Torino nell’analisi di Piero Gobetti e Le riviste come strumento politico: il caso de “La Rivoluzione liberale” ed è tratto dal testo di un intervento tenuto dall’autore in occasione del seminario “Gobetti e Matteotti interpreti della crisi della rappresentanza liberale”, svoltosi presso il Collegio Borromeo di Pavia il 09.05.2017. Si chiede pazienza al lettore, ma questo articolo non è autosufficiente: esso andrà letto come preliminare per i prossimi.


A Jaka Makuc, organizzatore dell’evento e animatore di quel dibattito, è con amicizia dedicato questo stralcio, così come i prossimi

Tra i molteplici spunti di riflessione “tematici” che si possono espungere dall’ampio cimentarsi di Piero Gobetti in ambito culturale e politico, indubbiamente una sferzante critica nei confronti della classe dirigente post-risorgimentale, del sistema politico italiano e delle culture politiche dominanti agli albori della sua generazione, che come viene programmaticamente definita in sede di prefazione alla Rivoluzione liberale, “sta assolvendo dei doveri che le attribuiscono alcuni inesorabili diritti” è fil rouge che accompagna tutti gli scritti del giovane intellettuale – dall’epistolario privato (ancora inedito per quanto riguarda l’ampio biennio dell’attività dell’intellettuale torinese, ’24 – ’26, mentre è stato pubblicato solo qualche mese fa, dopo un lavoro più che decennale, il carteggio dell’anno 1923) agli articoli pubblicati man mano sulle tre riviste guidate da Gobetti (Energie Nove e Rivoluzione liberale nella fattispecie: Il Baretti ebbe taglio piuttosto letterario). In quella che appare un’attività tutta tesa alla diagnosi dei mali dell’Italia più che ad una prognosi (perlomeno positiva) e ad una eventuale cura, l’analisi sulla classe dirigente e sui limiti della rappresentanza democratica da essa, al momento dell’analisi gobettiana, interpretata è punto cruciale ma non unico.

Sarebbe probabilmente troppo facile, e abbastanza inutile, trascrivere un rosario di esempi “limite”, di passaggi dell’opera politica di Gobetti in cui l’intellettuale lamenta una inadeguatezza della rappresentanza della classe dirigente al governo dell’Italia, dei partiti (e in generale dei corpi intermedi). Sarebbe facile ma probabilmente anche impresa colossale, se animata da una volontà di completezza, e dunque vi ho rinunziato. Le critiche che in tutta la seconda sezione di Rivoluzione liberale[1], nonché nei numerosissimi articoli che Gobetti pubblicava settimana per settimana sulle riviste da lui dirette (e non solo, è noto a tutti il fatto che il nostro collaborò con decine di periodici nel corso della sua vita), il giovane torinese riserva all’intera classe dirigente del paese sono all’ordine del giorno e perfettamente visibili in un quadro d’insieme, in cui molti sono i sommersi (la buona parte della classe dirigente post-unitaria e post-risorgimentale) e pochissimi i salvati. È molto interessante, piuttosto, evidenziare come i pochissimi salvati da Gobetti siano, in un modo o in un altro, spesso con differenze profondissime sia per quanto concerne il retroterra culturale che per quanto riguarda l’azione politica (tre nomi su tutti: Cavour, Gramsci, Sturzo: tre personalità disposte a poli opposti, per epoca per pensiero e per progetto politico), forieri di una sorta di “alternativa di rappresentanza” (così si potrebbe definirla), di una risposta netta alla crisi della politica.

 

Gobetti e la riflessione su liberalismo e socialismo

Nel capitolo di R.L. dal titolo “Una rivoluzione mancata”, che è parziale rielaborazione di un articolo uscito sulla rivista nel ’22, Gobetti ci aiuta a comprendere come il problema della politica italiana, a fronte del deficit culturale insito nell’Italia (male della nazione che, col fascismo, si accinge a scriversi un’autobiografia impietosa) che pone freno ad uno sviluppo degli ideali risorgimentali e unitari, sia un problema strutturale riguardante le élite. “A questi fermenti e a queste speranze mancarono le energie direttrici, le aristocrazie capaci di interpretarli e rafforzarli. […] Né i vecchi partiti potevano intendere e dare espressione ai bisogni nuovi, sì che furono inariditi da un insuperabile dissidio tra la loro opera di interpretazione del reale e la loro praxis. Per quattro anni (nel dopoguerra) la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta sociale”: è evidente qui la critica di Gobetti, articolata in termini vieppiù precisi in tutta la seconda parte del libro, è una critica che parte dalla constatazione di una assoluta incapacità della struttura di rappresentanza democratica dei corpi intermedi, non (più, o ancora) in grado di generare élite di governo, e assolutamente distanti dal rappresentare gli effettivi bisogni delle classi “in ascesa” nel dopoguerra (per intenderci: il proletariato piuttosto che la borghesia). È evidente, per dirla in linguaggio marxiano, che la sovrastruttura non riesce a tenere il passo sincronizzato con la struttura. Particolare critica viene riservata ai due modelli ideali a cui il giovane Gobetti si sente più affine: il liberalismo e il socialismo.

Per quanto concerne il liberalismo, esso non ha saputo, nelle varie formazioni presenti nella lotta politica dell’epoca, “intendere il problema dell’unità” (problema per Gobetti, di nuovo, primariamente culturale). Per quanto invece concerne il socialismo, Gobetti ammette che in potenza avrebbe potuto realizzare “l’idea dell’avvenire”, ma è stato frenato dalla propria “impotenza di partito di governo”, espressa nella figura di Turati. Ed ecco che arriviamo al punto di rottura del ragionamento: Turati sarebbe complice di avere “accettato l’eredità” – parole di Gobetti – “di una corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria”. Il problema è dunque di “democrazia”, oltre che di classi dirigenti. Di lotta politica, oltre che di partiti. E la soluzione è la “rivoluzione”, concetto vivente in Piero Gobetti, sempre in fieri e mai definito con chiarezza di intenti e di risoluzioni, ma di sicuro scaturito dalla crisi della rappresentanza democratica e risolvibile in una serie di misure di risposta a questa crisi.

La rivoluzione, che passerà necessariamente dal movimento operaio (il punto di contatto più importante per Gobetti con il movimento dell’Ordine nuovo e del neonato Partito Comunista d’Italia, a cui comunque Gobetti non risparmierà critiche sferzanti), che anche in questo articolo viene definito “il primo movimento laico d’Italia”, dovrà però passare anche da rinnovati strumenti politici, di risposta a questa crisi. In seno a questa riflessione, che è indispensabile comprendere, scaturisce il discorso di Gobetti come teorico della crisi della rappresentanza liberale: ne “I torti della teoria liberale”, Gobetti denota alcune “insufficienze pratiche” in cui si può scorgere un sintomo oltre che delle “teorie liberali elaborate nell’ultimo cinquantennio”, anche della profonda crisi di rappresentanza che si verifica nel primo ventennio del secolo. La riflessione del giovane torinese, che professa un liberalismo rinnovato, generato certo da parametri classici (il magistero di Einaudi su tutti, elementi del liberismo economico classico) ma compenetrato con elementi della vicina teoria socialista e avanguardista, ci torneremo, è chiaramente tutta improntata sugli errori della generazione di politici liberali eredi del Cavour: ma va molto oltre, poiché alla diagnosi succede un’intenzione risolutiva.

 

Il compito dei liberali

Il punto nodale della crisi della rappresentanza politica secondo Gobetti risiede nella mancata attuazione di una effettiva rappresentanza di quella classe sociale che, dopo la borghesia sette e ottocentesca, aveva rappresentato le istanze più innovatrici (oltre che, in potenza, rivoluzionarie) nell’economia e nella società: il movimento operaio. Così la critica sferza la classe politica rappresentata teoricamente dalla elaborazione di Mosca e di Pareto, che “avrebbe potuto illuminare i significati della lotta nel campo sociale se fosse stata connessa più direttamente con le condizioni della vita pubblica e con il contrasto storico dei vari ceti”. In questo senso, continua Gobetti, è mancato il passaggio tra la teoria, la vita pratica e la rappresentanza politica delle istanze di classe: è mancato, in sintesi, il passaggio della creazione delle élite.

Leggiamo: “Il concetto di una élite che si impone sfruttando una rete di interessi e condizioni psicologiche generali, contro vecchi dirigenti che hanno esaurita la loro funzione, è schiettamente liberale come quella che scopre nel conflitto sociale la prevalenza degli elementi autonomi e delle energie reali rinunciando all’inerzia di quelle ideologie che si accontentano di avere fiducia in una serie di entità metafisiche come la giustizia, il diritto naturale, la fratellanza dei poli. Il processo di genesi dell’élite è nettamente democratico: il popolo, anzi le varie classi, offrono nelle aristocrazie che le rappresentano la misura della loro forza e della loro originalità. Lo stato che ne deriva non è tirannico e vi hanno contribuito i liberi sforzi dei cittadini divenuti per l’occasione combattenti. Il regime parlamentare, nonché contrastare a questa legge storica della successione dei ceti e delle minoranze dominanti, non è che lo strumento più squisito per lo sfruttamento di tutte le energie partecipanti e per la scelta pronta dei più adatti”. A fronte dunque di un sistema che sembrerebbe, perlomeno teoricamente, tenere (la scelta dei più pronti caso per caso dovrebbe essere garantita dal sistema di rappresentanza partitico e parlamentare), ci troviamo una scienza dominante che, appagatasi di ideali vuoti come “unità sociale” e “interesse generale”, ha definitivamente dimenticato il conflitto.

Conflitto che non va esclusivamente silenziato in nome di pretese che Gobetti definisce intimamente “anti-liberali” – commentando il celebre articolo di Croce, Partito come giudizio e come pregiudizio, nel cui commento sarà impegnato anche Antonio Gramsci nel XIII dei Quaderni del Carcere – ma che va studiato e rappresentato: questo i liberali paiono avere dimenticato. Solo un nuovo liberalismo che sappia “differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati” potrà avere voce in capitolo nella lotta politica italiana, potrà risolvere una ineluttabile crisi di élite e di rappresentanza democratica.

Consapevoli di “essere una minoranza”, per le condizioni storiche in cui l’Italia e la sua democrazia ancora immatura versano, i liberali hanno il compito di preparare al paese un avvenire migliore con una opposizione organizzata e combattiva. Diversi da tutte le espressioni di rappresentanza politica coeva (le quali peccano tutte di un peccato se vogliamo antitetico rispetto a quella liberale, ovvero di un eccessivo corporativismo ed una rappresentanza altrimenti eccessivamente legata alle contingenze del particolare): “i liberali non potranno peccare di nazionalismo”, che si rivelerebbe inutile, parole di Gobetti, “non potranno essere amici dei siderurgici, legati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che voglion il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative”. Poiché il liberalismo non è, a detta di Gobetti, indifferenza, non è astensione: ma possibilità della creazione, alfine, di una classe dirigente che sappia, nel rappresentare lotte “eterne” in nome dei valori della teoria liberale, rappresentare il blocco storico che, in quelle date condizioni storiche, possa meglio portarle avanti.


[1] D’ora innanzi R.L. S’è rinunziato alle note, sostituite però da puntuali riferimenti ai capitoli di R.L. citati.

Scritto da
Federico Diamanti

Studente di filologia classica e allievo del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Si occupa di presenze greche nell’umanesimo italiano, rapporti tra intellettuali e potere, della narrativa di Pier Vittorio Tondelli e delle forme poetiche del XX secolo.

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