Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali: verso un’Europa più equa?
- 22 Novembre 2017

Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali: verso un’Europa più equa?

Scritto da Francesco Corti

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Venerdì 17 novembre 2017 il Consiglio Europeo, il Parlamento e la Commissione hanno ufficialmente firmato la Proclamazione inter-istituzionale sul Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. Due anni dopo il lancio dell’idea da parte del presidente Juncker durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione e sei mesi dopo la pubblicazione da parte della Commissione Europea delle sue Raccomandazioni sul progetto, il Pilastro Sociale ha compiuto il suo primo passo concreto. La firma è arrivata dopo che i ministri degli affari occupazionali e sociali dei 27 Paesi membri dell’Unione hanno trovato un accordo durante l’ultimo incontro a Lussemburgo il 23 ottobre. È stato un momento storico, nel quale i capi di governo dei Paesi membri si sono riuniti per parlare di questioni sociali e di crescita equa, vent’anni dopo il Jobs Summit del 1997.

Nonostante la rilevanza del tema, poco spazio è stato dedicato sia sui media nazionali sia sui mezzi di informazione per gli addetti al settore che gravitano attorno alla bolla bruxellese. Non solo, tra gli interventi (pochi) che sono stati fatti, le visioni sono state piuttosto discordanti. Alcuni commentatori hanno messo già una pietra sopra il Pilastro, come progetto fallito; altri sono rimasti scettici; infine, un terzo gruppo, seppur riconoscendo i limiti politici e giuridici della proposta, ha messo in evidenza il valore aggiunto del Pilastro come “spazio di possibilità”, il cui impatto sarà largamente dipendente dalla volontà dei principali attori politici.

Quale significato possiamo dare dunque a questa proclamazione inter-istituzionale e, in generale, al Pilastro Europeo dei Diritti Sociali? Si tratta di una semplice bandiera con cui, come hanno commentato alcuni leader del gruppo S&D, Juncker e il Partito Popolare Europeo vogliono potersi fregiare della parola “sociale”? Oppure, si tratta di un vero primo passo nella direzione di un’Europa che, concretamente, mette la dimensione sociale al centro della propria agenda? Per rispondere a queste domande proviamo a ripercorrere brevemente la storia del Pilatro, mettendone in luce, in particolare, le difficoltà politiche e giuridiche che lo hanno fino ad oggi accompagnato.

 

Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali: un dibattito ancora aperto

Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali viene lanciato ufficialmente nel 2015 dal presidente Juncker, con l’esplicito obiettivo di dare all’Unione Europea la cosiddetta “tripla A” sociale. Nel marzo 2016 la Commissione individua venti aree di intervento, suddivise in tre macro-settori: uguali opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque, protezione ed inclusione sociale. Tra le aree individuate dalla Commissione alcune fanno già parte delle competenze dell’Unione Europea, come i diritti di “uguali opportunità”, “parità di genere” e “salute”, mentre altre nuove sono state introdotte, come il diritto al “reddito minimo”, al “salario minimo” e ad “un’abitazione dignitosa”. L’idea alla base del Pilastro è quella di creare un quadro di riferimento con indicatori specifici al fine di favorire la convergenza sociale tra gli Stati membri dell’Unione e intervenire, attraverso la creazione di nuovi strumenti, là dove l’integrazione all’interno dell’Unione Economica e Monetaria aveva creato esternalità negative. In sintesi, l’intento politico è quello di rimettere la dimensione sociale al centro dell’agenda dell’Unione, al fine di risolvere due problemi fondamentali del sistema di welfare europeo: da un lato, le sfide del XXI secolo (digitalizzazione, invecchiamento, automazione etc.); dall’altro, la necessità di bilanciare le asimmetrie all’interno dell’Unione Economica e Monetaria (UEM), esacerbate durante la crisi finanziaria.

Nonostante la chiarezza degli intenti politici, sin da subito il dibattito europeo si è acceso intorno alle soluzioni. Dalla consultazione pubblica, che ha coinvolto attori istituzionali, parti sociali, forze politiche e società civile in tutta Europa, diverse posizioni sono emerse. Alla base di questo confronto, il doppio squilibrio che da sempre caratterizza ogni discussione sulla dimensione sociale dell’UE. In primo luogo, lo scarto tra le limitate competenze dell’Unione in materia di politiche sociali e la necessità di bilanciare le esternalità negative procurate dal Mercato Interno. Dall’altro, lo squilibrio tra la governance economica di stampo monetarista dell’Unione Economica e Monetaria e varietà dei sistemi di welfare dei singoli Stati membri (quelli dei paesi del Nord maggiormente favoriti dai criteri dell’UEM e quelli del Sud più svantaggiati).

È alla luce di questo contesto, che dobbiamo interpretare la proposta della Commissione di un accordo inter-istituzionale, che è stato proposto come quadro di riferimento sulla base del quale, in un secondo momento, lanciare una serie di iniziative legislative più specifiche. Il punto di partenza dell’intero percorso di implementazione del Pilastro e dei suoi principi sta dunque nella Proclamazione inter-istituzionale che impegna politicamente le istituzioni firmatarie ad agire nella direzione indicata. Nella storia dell’Unione c’è un solo precedente in cui si è utilizzato lo strumento della proclamazione, ossia la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE del 2000, la quale è stata poi incorporata nei trattati nel 2007 e che oggi svolge un ruolo fondamentale come quadro di riferimento cui gli Stati membri devono attenersi quando legiferano.

Non è un caso che, insieme alla proposta di accordo inter-istituzionale, la Commissione abbia subito lanciato quattro significative iniziative politiche: la creazione di un’Autorità Europea del Lavoro, la revisione della direttiva sul Bilanciamento vita famigliare e lavorativa, la consultazione con le parti sociali per un’azione volta ad affrontare le sfide di accesso alla protezione sociale per tutte le categorie di lavoratori e l’introduzione di un “Social Scoreboard”, ossia di uno strumento per monitorare i trend e le performance sociali degli Stati membri, nel quadro del Semestre Europeo.

 

Non un punto di arrivo bensì un primo passo

Il fatto quindi che venerdì, a Göteborg le tre istituzioni europee si siano incontrate e abbiano approvato il testo proposto sulla base di tutti i 20 principi e diritti proposti dalla Commissione e appoggiati dal Parlamento Europeo è un passaggio di fondamentale importanza. Firmando l’accordo, ad esempio, gli Stati membri si sono impegnati a garantire il diritto di uguale trattamento e accesso alle protezioni sociali a tutte le forme di lavoratori, a prescindere dalle forme contrattuali, il diritto all’educazione permanente e alla formazione attiva per chi perde il posto di lavoro, il diritto ad un salario minimo, il diritto per i bambini ad avere uguali opportunità e il diritto ad avere un’abitazione dignitosa.

Diversi commentatori hanno concentrato la loro critica sul fatto che la Proclamazione non sia un atto legalmente vincolante. Se, da un lato, questo è vero, tuttavia, non va dimenticato, come detto sopra, che la Proclamazione non è un punto di arrivo bensì un primo passo, che serve da base per la successiva implementazione di misure e strumenti legislativi concreti. Il fatto che Proclamazione sia un quadro di riferimento, non significa automaticamente che i principi e diritti in essa contenuti siano automaticamente garantiti. Sta poi alla volontà politica dei diversi attori istituzionali politici fare del Pilastro e della Proclamazione il trampolino per lanciare una serie di iniziative legislative concrete.

Scritto da
Francesco Corti

Nato nel 1992. Dottorando in Studi Politici presso l'Università degli Studi di Milano, dove si occupa di Unione Europea e politiche sociali. Fa parte del team di ricerca "REScEU: Reconciling economic and social Europe" e della FEPS YAN. Ha lavorato al Parlamento Europeo e continua, tuttora, come prestatore di servizi.

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