Scritto da Giacomo Bottos, Raffaele Danna
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La riduzione dei divari territoriali, intesi come divari di cittadinanza, è una delle tre priorità trasversali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. In particolare ci si prefigge di favorire un processo di convergenza tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, destinando non meno del 40% delle risorse territorializzabili del Piano alle regioni del Mezzogiorno. Per approfondire la tematica dei divari tra aree del Paese, nel PNRR e in una prospettiva più generale, abbiamo intervistato Giuseppe Provenzano, già Ministro per il Sud e la coesione territoriale.
Il contrasto del ‘divario di cittadinanza’, attraverso la riduzione delle fratture tra Nord e Sud, è una delle priorità trasversali del Piano. Rispetto a stagioni passate, c’è oggi maggiore consapevolezza della necessità di un nuovo intervento incisivo su questo fronte?
Giuseppe Provenzano: I diritti sono decisivi nelle dinamiche di sviluppo. E sono proprio le disuguaglianze nell’accesso ai diritti di cittadinanza e nella garanzia della loro esigibilità a rappresentare l’elemento caratterizzante dei divari territoriali. È una questione che, nel nostro Paese, non riguarda solo il Sud, ma anche le periferie e le aree interne. La ‘nuova’ questione meridionale si manifesta nelle forme di una ‘cittadinanza limitata’ – in qualche caso persino ‘negata’ – che va ad aggiungersi alla strutturale carenza di occasioni di lavoro di qualità, innescando un circolo vizioso che solo le politiche pubbliche possono spezzare. Pertanto, promuovere la parità di accesso ai diritti, in ogni area del Paese, non è solo un atto di giustizia: è la leva essenziale per attivare il potenziale di sviluppo inespresso dei cosiddetti ‘luoghi che non contano’. Tale consapevolezza, che è stata presente fin dalle fasi iniziali della predisposizione e dell’elaborazione del PNRR, era stata ‘anticipata’ in modo sistematico nel Piano Sud 2030 – Sviluppo e Coesione per l’Italia, presentato il 14 febbraio 2020, appena prima che il Paese si trovasse a dover fronteggiare l’emergenza della pandemia. Il Piano Sud prevedeva, ad esempio, un rilancio importante degli investimenti pubblici per il finanziamento delle infrastrutture sociali al Sud, in particolare nei Comuni medi e piccoli. Era previsto anche il potenziamento e il rilancio della Strategia nazionale per le aree interne – un tema che, da Ministro, ho affrontato anche in una conversazione apparsa nel numero 2/2020 di Pandora Rivista –. Mi sono poi battuto affinché nel PNRR fosse prevista una dotazione congrua destinata a questo capitolo. La pandemia, quando è arrivata, non è stata dal mio punto di vista un ‘cigno nero’: è stata invece una lente di ingrandimento su problemi e nodi irrisolti del nostro sviluppo nazionale. La crisi sanitaria e i suoi impatti economici e sociali hanno fatto da acceleratore formidabile di dinamiche già in atto, in particolare sul tema della coesione territoriale, mostrandoci l’insostenibilità di un modello di sviluppo che ha teso a concentrare la ricchezza e a favorire processi di agglomerazione in pochi luoghi, con l’esclusione di interi territori. La ‘nuova’ Europa del Next Generation EU, accanto alle sfide delle transizioni, pone quella decisiva di coniugare crescita ed equità, due obiettivi complementari che si traducono, specie nel nostro Paese, nell’impegno a ridurre i divari territoriali e a favorire uno sviluppo più diffuso. Del resto, la svolta storica che si è realizzata in Europa per reagire alla pandemia sarebbe vanificata dalla riproposizione di quell’indifferenza agli squilibri territoriali che ha caratterizzato le politiche pubbliche nel ventennio ‘pre-Covid’. Finalmente, con Next Generation EU, la coesione territoriale esce dall’ambito – importante, ma limitato – delle sole politiche finanziate dai Fondi strutturali, per plasmare le politiche ordinarie attraverso il volano di questo strumento straordinario, che vorremmo diventasse permanente a livello europeo. Era l’idea alla base del Piano Sud 2030, che ora può essere supportata da un impegno finanziario imponente: affermare il protagonismo delle aree marginalizzate dalle politiche pubbliche nella nuova stagione di investimenti, attivare uno sviluppo sostenibile, in quanto al tempo stesso più equilibrato, capace di diffondere diritti e opportunità per tutti e di liberare il potenziale di tutte le persone in tutti i luoghi.
Come la crisi innescata dalla pandemia ha inciso sul Mezzogiorno? Come si presenta la situazione rispetto alla fase precedente? Quale dovrebbe essere a suo avviso la visione necessaria per far fronte a queste criticità e rilanciare il Mezzogiorno?
Giuseppe Provenzano: Diciamoci la verità, è il Paese nel suo complesso ad essere arrivato alla pandemia stremato da decenni di declino economico e sociale. Il reddito pro capite in Italia era di oltre il 25% superiore alla media europea nel 1995, mentre nel 2019 era diventato del 5% inferiore alla media. Questo arretramento si spiega con il rallentamento progressivo delle nostre ‘locomotive’ del Nord e con l’allontanamento del Mezzogiorno dalle altre periferie d’Europa. Non c’è regione italiana – con la sola eccezione dell’Emilia-Romagna – che nell’ultimo ventennio non abbia perso posizioni nella graduatoria delle regioni europee per PIL pro capite. Inoltre al Sud l’impatto della pandemia si è sommato alle fragilità economiche e strutturali, nonché alle ferite sociali non ancora sanate causate dalla Grande recessione soprattutto al mercato del lavoro dove, più che al Nord, prevalgono la precarietà, l’irregolarità e il lavoro fragile. La ‘visione’ da accogliere, dunque, è che il Mezzogiorno è parte integrante delle difficoltà e delle opportunità del sistema-Paese e che non sarà sufficiente un ritorno alla ‘normalità’ pre-Covid, perché quella normalità non era affatto soddisfacente. Bisogna abbandonare le illusioni di una ripartenza basata sulle teorie dello ‘sgocciolamento territoriale’: Nord e Sud hanno pari dignità di accesso allo sviluppo. La storia economica del nostro Paese racconta di una forte interrelazione e interdipendenza tra aree forti e aree più deboli, a dispetto delle interpretazioni di chi per anni ha voluto raccontare l’Italia come un Paese diviso, e il Sud come un sistema a parte con problemi a sé e con una domanda di politiche fatte di assistenza. La parola ‘interdipendenza’ è la chiave: un termine che nella pandemia si è caricato di un significato molto profondo, perché ci siamo accorti che la nostra vita e persino la nostra morte dipendono dai comportamenti degli altri, e viceversa. Questo concetto, che troppo a lungo è stato rimosso nell’analisi dei rapporti tra territori, per lasciare spazio alla narrazione della ‘dipendenza’ del Sud, va riportato al centro delle politiche pubbliche, anche perché gli investimenti nelle aree meno sviluppate sono capaci di attivare reddito e lavoro in misura maggiore per tutto il Paese. Già prima della crisi eravamo consapevoli che per ogni 10 euro investiti al Sud, 4 tornano al Centro-Nord in termini di attivazione di domanda di beni e servizi. Ora che il Mezzogiorno, dopo la crisi pandemica – a differenza che nella recessione precedente – sta partecipando alla ripresa, questa straordinaria leva di sviluppo va attivata per massimizzare le potenzialità della nuova stagione di investimenti e politiche di sviluppo.
Il Governo ha deciso di investire non meno del 40% delle risorse territorializzabili del PNRR (pari a circa 82 miliardi) nelle otto regioni del Mezzogiorno, a fronte del 34% previsto dalla legge per gli investimenti ordinari destinati su tutto il territorio nazionale. È un impegno apprezzabile? Ci sono ostacoli sulla strada dell’attuazione di questo obiettivo?
Giuseppe Provenzano: Partiamo da un dato ormai acquisito: il crollo degli investimenti pubblici frutto degli anni dell’austerità ha penalizzato soprattutto il Mezzogiorno. E questo si traduce in meno servizi e in una minore qualità di essi – pensiamo, ad esempio, alla scuola o alla sanità –. Ora abbiamo gli strumenti per colmare questo gap, mettendo a sistema il complesso – davvero senza precedenti – delle risorse disponibili: la spesa ordinaria vincolata al 34%, la spesa ‘aggiuntiva’ della politica di coesione nazionale ed europea e le ‘nuove’ risorse del PNRR. Questa sinergia tra i diversi bacini finanziari disponibili per il prossimo decennio è un tema che da Ministro ho voluto sottolineare fortemente, e in relazione al quale avevo proposto di predisporre un Piano unico, che comprendesse tutte le fonti finanziarie per le politiche di coesione territoriale, in modo da verificare e rafforzare la complementarietà, evitando duplicazioni o sostitutività degli interventi. Il PNRR è sicuramente il più imponente programma di investimenti e riforme che l’Italia ricordi dalla ricostruzione post-bellica, ma non cambierà il volto del Sud se il complesso delle politiche generali ordinarie non sarà orientato in base alla missione della coesione territoriale. Se anche si raggiungesse, come mi auguro, l’obiettivo di spesa del PNRR per il Sud, ma la politica ordinaria non facesse fino in fondo la sua parte, si riproporrebbe la stessa situazione a cui abbiamo più volte assistito in decenni di fallimenti delle politiche di sviluppo territoriale, nella quale la mancata aggiuntività degli interventi vanificherebbe le possibilità di convergenza e recupero dei divari. Per la verità, il rischio che il PNRR diventi in gran parte ‘sostitutivo’ di investimenti già finanziati investe tutto il Paese, ma per il Sud mancare l’occasione di quella possibile radicale trasformazione sarebbe cosa ben più grave. Ecco perché la ‘quota Sud’ del 40%, che pure è apprezzabile e in linea con gli obiettivi di destinazione territoriale previsti fin dall’inizio, è una bandiera che non mi appassiona. La questione fondamentale non è fissare con le norme quote il cui raggiungimento è, peraltro – come rimarcano gli uffici studi di Camera e Senato –, difficile da verificare nei documenti ufficiali e nelle schede tecniche del PNRR, ma ottenere risultati. Come ho sostenuto anche da Ministro, il PNRR è un programma performance based: non dobbiamo ‘solo’ certificare la spesa in Europa, la finalità è raggiungere obiettivi concreti. Nell’attuazione del PNRR sarebbe stato necessario allineare maggiormente la destinazione territoriale della spesa ai diversi fabbisogni dei territori, tenendo conto della disponibilità di infrastrutture e servizi per cittadini e imprese, e della distanza dai target da conseguire. Insomma, non basta monitorare il rispetto delle quote di spesa come previsto: l’efficacia di ogni linea di investimento va valutata per l’effettiva capacità di rispondere ai fabbisogni. Questo aspetto diventa cruciale anche in relazione alle modalità scelte per realizzare gli investimenti nelle infrastrutture sociali: l’assegnazione ‘a bando’ delle risorse trasferite dai Ministeri agli enti territoriali. I criteri dei bandi devono favorire quei territori in cui si registrano i maggiori ritardi rispetto agli obiettivi da conseguire. Questo non è avvenuto, ad esempio, nel caso dell’assegnazione delle risorse del Fondo asili nido e scuole dell’infanzia ai Comuni, oggetto di attenzione da parte dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Le Regioni del Mezzogiorno hanno sì ricevuto oltre il 54% delle somme stanziate, ma i criteri del bando – che non prevedevano esplicitamente la distanza dall’obiettivo di copertura del 33% – hanno di fatto favorito le realtà a minor fabbisogno. Si è ancora in tempo a correggere ed è in corso uno sforzo su questo. In generale la priorità dev’essere il criterio della distanza dei territori dai target europei da conseguire.
Uno degli elementi spesso dibattuti in relazione alle politiche per il Sud, ad esempio per quanto riguarda le risorse europee, ha a che fare con la ridotta capacità di spesa. Come si configura questa problematica e quali ne sono le cause principali? In quale modo questo divario di efficienza amministrativa rischia di impattare la fase attuativa del Piano?
Giuseppe Provenzano: Anche qui sono necessarie alcune premesse e precisazioni. La politica di coesione europea è stata decisiva per il Sud: al netto di tutti i suoi limiti, senza questa leva di investimenti non avremmo avuto nessuna azione di riequilibrio territoriale negli ultimi trent’anni. La ridotta capacità di spesa per investimenti non è una prerogativa esclusiva delle Regioni meridionali, e nel Mezzogiorno come al Nord esiste una certa variabilità tra Amministrazioni regionali nella capacità di spesa. Non sono solo i Programmi regionali a scontare dei ritardi, che riguardano anche molte Amministrazioni centrali – come mostrano gli avanzamenti lenti di Programmi di spesa in ambiti di intervento nevralgici come l’inclusione sociale e la legalità –. Ho più volte rimarcato la necessità di riattivare il braccio nazionale delle politiche di coesione – il Fondo Sviluppo e Coesione –, azione intrapresa durante il mio mandato da Ministro, con una forte accelerazione della spesa, malgrado i mesi di lockdown. Tutto ciò premesso, non bisogna nascondere i limiti della programmazione e dell’attuazione della politica di coesione in molte Regioni del Sud. È un tema questo che, osservo con una certa amarezza, viene ancora utilizzato strumentalmente da alcuni amministratori del Nord che si candidano a ricevere le risorse del PNRR che il Sud non sarà in grado di spendere. In realtà, veri e propri ‘residui’ di spesa sui fondi strutturali non se ne sono prodotti: i target sono stati sempre rispettati. Ma esiste invece il problema, a cui ho accennato, della ‘sostitutività’ di queste risorse e soprattutto della qualità della spesa. Le responsabilità sono da condividere tra Amministrazioni centrali e singole Amministrazioni regionali e consistono in: ritardi accumulati in fase di programmazione che portano ogni ciclo a sovrapporsi al precedente; un rapporto tra livelli di governo che tende troppo spesso alla ‘conflittualità’ piuttosto che al coordinamento e alla reciproca collaborazione; una funzione di accompagnamento svolta dalle strutture tecniche centrali a lungo carente; un’assistenza tecnica molto spesso di limitata qualità; ridotte capacità delle Amministrazioni locali di progettare e realizzare gli interventi. Quest’ultimo è l’aspetto più preoccupante. Su 191 miliardi complessivi, i progetti di investimento che prevedono il coinvolgimento diretto degli Enti territoriali come soggetti attuatori valgono tra i 66 e i 71 miliardi. SVIMEZ – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – stima che Regioni e Comuni del Sud dovranno gestire oltre 20 miliardi nel sessennio di attuazione del Piano. Questo implica un carico amministrativo aggiuntivo straordinario che dovrà camminare sulle gambe fragili di Enti da lungo tempo depauperati di risorse umane e competenze tecniche. Nel biennio 2024-25, quando si raggiungerà il picco dello sforzo attuativo richiesto dal PNRR, SVIMEZ stima che gli Enti territoriali del Sud dovranno sopportare uno sforzo aggiuntivo di spesa pari al 51% rispetto all’ultimo triennio pre-Covid. Si tratta, peraltro, di valutazioni al ribasso, considerato che le Regioni del Sud saranno responsabili dell’attuazione di programmi di spesa relativi alle politiche di coesione del ciclo 2021-27 ben più consistenti rispetto al ciclo precedente. D’altra parte, la carenza di personale qualificato pesava sull’efficacia dell’azione pubblica ben prima che la pandemia mettesse ancor più in evidenza le debolezze della macchina amministrativa che oggi è impegnata nell’attuazione del PNRR, soprattutto negli Enti territoriali del Mezzogiorno. I dati della Ragioneria Generale dello Stato sull’occupazione in Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni ci dicono che quell’immagine del Mezzogiorno, caratterizzata da un settore pubblico ipertrofico in quanto serbatoio di assunzioni clientelari, non esiste più. In media le Regioni ordinarie del Sud hanno un numero di addetti per 1.000 abitanti negli Enti locali pari a 6,1 contro un valore medio di 7,3 nel Centro-Nord. La marcata riduzione dell’occupazione nella PA intervenuta tra il 2010 e il 2019 (-15%), ha interessato soprattutto gli Enti locali del Sud (-27% nelle Regioni a statuto ordinario rispetto al -18,6% del Nord). Sono state queste valutazioni a spingermi da Ministro, già prima della pandemia, a fare una battaglia per un piano di ‘rigenerazione amministrativa’ (il Piano Sud 2030 prevedeva 10.000 assunzioni di giovani qualificati da assumere nelle Amministrazioni del Mezzogiorno), addizionale rispetto al normale turn-over, la cui attuazione è stata già avviata con le prime 2.800 assunzioni. Ma non illudiamoci. La rigenerazione amministrativa ha bisogno di tempi lunghi, il PNRR va attuato adesso. Avremmo avuto bisogno di una innovazione nella governance che non c’è stata: riaffermare la responsabilità del Governo centrale nel realizzare gli interventi, rompendo quel circolo vizioso per cui il deficit amministrativo è maggiore proprio laddove maggiore è il fabbisogno di investimenti. Insomma, la priorità è sicuramente attrezzare la macchina delle Amministrazioni locali attraverso il reclutamento di nuove figure e nuove competenze, soprattutto al Sud. Ma nel frattempo i grandi centri di competenza nazionale (Invitalia, Cassa Depositi e Prestiti e altri), con una forte regia di Palazzo Chigi, devono accompagnare gli Enti locali più fragili nella progettazione e nell’accesso ai bandi del PNRR. Nessuno si può permettere di sperare che il Sud non spenda le risorse per redistribuirle altrove. Un tale scenario configurerebbe un esito opposto rispetto a quello per cui il PNRR è stato pensato. E, se non riusciamo a vincere la sfida della capacità amministrativa, a perdere sarà tutta l’Italia, non solo il Sud.
Quali provvedimenti specifici presenti nelle diverse Missioni del PNRR sono particolarmente rilevanti per il Mezzogiorno e la riduzione dei divari territoriali?
Giuseppe Provenzano: Già nelle prime bozze del PNRR, il riequilibrio territoriale e il rilancio del Sud rappresentavano priorità comuni a tutte le Missioni: per la trasversalità delle problematiche del Mezzogiorno rispetto alle Missioni del Piano e per la necessità di considerare gli interventi per il Sud come parte essenziale e integrante di una strategia nazionale di rilancio del sistema-Paese. Questa impostazione è stata conservata nel PNRR poi approvato Bruxelles. Per la verità, inizialmente questo approccio era stato in qualche modo messo in discussione con l’annuncio di un ‘Capitolo Sud’, che sarebbe stato utile qualora avesse dettagliato gli interventi esplicitamente orientati al Mezzogiorno per marcare un cambio di passo. Ma il tutto si è risolto nell’inserimento di un nuovo paragrafo, meritoriamente intitolato alla riduzione del divario di cittadinanza, che però manca di questo dettaglio. Soprattutto, questo dettaglio è assente in molte delle schede tecniche. Tutta la parte infrastrutturale, ovviamente, avrà un impatto maggiore al Sud. Tuttavia avevo insistito molto affinché nel Piano fossero presenti alcuni grandi progetti, che avevo chiamato insieme a Gaetano Manfredi, Ecosistemi dell’innovazione al Sud, sull’esempio del lavoro fatto a San Giovanni a Teduccio, in cui l’innovazione tecnologica si sposa con l’innovazione sociale, la ricerca applicata con la rigenerazione urbana. Questa linea di intervento è ora finita nel cosiddetto Fondo nazionale complementare. Il mio auspicio è che alla sua attuazione si dedichi la stessa attenzione che verrà riservata al PNRR, perché si tratta di una linea di intervento che può davvero trasformare il volto delle città meridionali, nel rapporto con l’università e le grandi imprese. Altro che resilienza!
Oltre la delineazione di incentivi e di aree a fiscalità speciale, a suo avviso sarebbe necessario immaginare una politica industriale per il Mezzogiorno? E, nel caso, questa che caratteri dovrebbe avere?
Giuseppe Provenzano: La politica industriale resta, anche dopo l’approvazione del PNRR, un nodo non sciolto non solo per il Sud, ma per l’Italia intera. Altri Paesi, come Germania e Francia, hanno potuto usare il PNRR per ‘affinare’ le proprie politiche industriali nazionali. Noi ci troviamo a ricostruire sulle macerie volute da chi predicava fino a ieri l’altro che la migliore politica industriale era nessuna politica industriale. La fiscalità di vantaggio per il lavoro, per cui mi sono battuto e che la Ministra Carfagna si sta impegnando a mantenere, non è politica industriale: serve a compensare i deficit di infrastrutture e servizi al Sud, nella fase in cui ci si impegna a colmarli, e a massimizzare l’impatto occupazionale degli investimenti, per fronteggiare l’enorme questione sociale rappresentata dalla mancanza di lavoro. Tuttavia, avevo promosso iniziative per una politica industriale specifica al Sud con un fondo destinato alla crescita dimensionale delle imprese, con linee specifiche per gli investimenti innovativi, attraverso protocolli con CDP, con misure volte a favorire gli investimenti privati e dedicate al potenziamento della R&S nelle imprese meridionali. Il complesso di questi strumenti va reso stabile nel tempo. Ma il tema di quale politica industriale debba essere sottesa al PNRR resta il vero limite di questa fase, e incide anche al Sud. La mia proposta è di lavorare sulle filiere mettendo in campo, con un disegno strategico, tutti gli strumenti – a partire dallo stesso PNRR – per accompagnarle nella transizione ecologica e digitale. Occorre farlo in primo luogo responsabilizzando i capi filiera. È ciò che serve all’industria italiana e, specialmente, a quella meridionale. Da questo punto di vista ciò che sta avvenendo in alcune importanti realtà produttive, come Leonardo che ha messo in cassa integrazione i lavoratori di tutti gli stabilimenti meridionali, è preoccupante. Il Presidente degli Stati Uniti Biden, quando ha presentato il suo piano di investimenti nelle transizioni, ha detto parole chiare: «deve servire a creare lavoro in America per le imprese americane». Noi vogliamo limitarci a importare tecnologie e prodotti necessari alle transizioni, o vogliamo avere l’ambizione di trasformare il nostro sistema produttivo? Questo è il punto, anche per creare lavoro buono, che è ciò che serve al Sud. E serve più coraggio.
La storica questione dell’emigrazione delle giovani generazioni si presenta al Sud con intensità particolare, con flussi sia verso l’estero che verso il Nord. Le azioni previste dal PNRR potranno permettere di ridurre o invertire questo fenomeno? A quali condizioni? Quali sono i principali strumenti messi in campo?
Giuseppe Provenzano: Non direi che il PNRR preveda strumenti ‘diretti’ per frenare quello che può essere definito un grande esodo di competenze, di futura classe dirigente. Come definire altrimenti un fenomeno di queste proporzioni? Dal Duemila hanno lasciato il Mezzogiorno 2 milioni e 311.000 residenti: oltre la metà, giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, un quinto laureati; il 16% circa si sono trasferiti all’estero. Poco più di un milione di loro non fa più ritorno nel Mezzogiorno. Nel 2019 il Mezzogiorno ha perso oltre 158.000 residenti, un terzo dei quali laureato. Un’inversione di tendenza potrà osservarsi se riusciremo ad agire sulle determinanti che incidono sulla scelta di andare via: la creazione di lavoro di qualità e l’affermazione piena dei diritti di cittadinanza. Sono le condizioni di quello che ho chiamato ‘diritto a restare’, senza il quale la libertà sacrosanta di andarsene non è più libertà. Per questo, serve ritrovare e ritrovarsi in un orizzonte di progresso, che includa quelle aree geografiche e sociali che negli ultimi decenni si sono sentite escluse. Perché non c’è progresso senza equità e, nel nostro Paese forse più che altrove, l’equità ha una fortissima connotazione meridionale.