“Politica americana. Una introduzione” di Mattia Ferraresi
- 02 Aprile 2017

“Politica americana. Una introduzione” di Mattia Ferraresi

Recensione a: Mattia Ferraresi, Politica americana. Una piccola introduzione, Luiss University Press, Roma 2016, pp. 128, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Sin dagli albori della sua storia, la politica americana ha rappresentato un esperimento di netta cesura rispetto al vecchio continente. I pilgrim fathers, i coloni che fuggirono dalle persecuzioni religiose e dalla miseria per raggiungere le coste del New England, fondarono un nucleo comunitario dal quale sarebbe sorta una società con peculiarità eccezionali, culla del «sogno americano». E il Nuovo Mondo, con le sue risorse illimitate, la sua wilderness incontaminata, faceva presagire un futuro più benevolo, incastonato nell’auto-percezione di un «destino manifesto». Fu Alexis de Tocqueville, liberale ed aristocratico francese, il primo europeo a studiare e a registrare la portata universalizzante della democrazia americana. Sorta illibata e svincolata dai retaggi dell’ancient régime, incentrata sulla progressiva conquista della frontiera come eterna riproduzione delle sue logiche costitutive – uguaglianza delle condizioni, libertà, proprietà – la Democrazia in America per Tocqueville fu la quintessenza della modernità. Da allora comprenderne le dinamiche, recepirne l’originalità e le contraddizioni che hanno plasmato la costruzione del «secolo americano», divenne imperativo per tutti gli studiosi del settore.

“Non stupisce che questo impianto ideale, fondato sulla libertà individuale come pura autonomia e potenza creatrice, abbia assunto le fattezze di una precettistica universale, perfino religiosa” (p. 9). Nell’introduzione del suo libro Politica americana, Mattia Ferraresi riprende proprio il tema dell’eccezionalità, ricorrente nella saggistica accademica e nelle narrazioni più basilari della storia degli Stati Uniti, come cifra attraverso cui leggere la natura e la struttura della democrazia americana. Un volume versatile che cerca di illustrare al lettore (anche al più inesperto) su quali basi e per mezzo di quali pratiche ed istituzioni sia nato e si sia sviluppato, fino ai nostri giorni, questo esperimento politico inedito.

 

Le origini della politica americana

La prima parte del libro prende in esame l’evoluzione storica del bipartitismo. Premessa fondamentale è l’accenno alla vocazione, quasi antropologica e religiosa, a costruire una sempre more perfect union, al fine di escluderne le faziosità. L’Unione rappresenta il vettore costituzionale per sussumere il «particolare» nel «generale», quella cura per resistere alle forze turbinose e disgregatrici dello spazio politico che James Madison, padre costituente, vide come minacce alla neonata federazione americana. La visione odierna del sistema partitico americano, spesso dipinto come un “bipartitismo perfetto”, in realtà rispecchia fedelmente quello che è il prodotto di un complesso processo storico, ricco di quelli che la scienza politica americana ha definito «riallineamenti elettorali». Mutamenti genetici incorsi nel «corpo politico» indotti spesso da contingenze storiche, pensiamo all’impatto del «wilsonismo», alle rivoluzioni culturali degli anni Sessanta, alla «third way» clintoniana o alla più recente rinascita dei neoconservatori. Repubblicani e democratici, seppur tanto differenti, hanno condiviso un’evoluzione interdipendente, attraversati da diverse «anime» e correnti che ne hanno mutato la conformazione.

Il partito democratico nasce nel 1828, sull’onda della tradizione jeffersoniana e jacksoniana. All’interno di un lungo predominio repubblicano, l’impronta di Woodrow Wilson fu sicuramente quella che più lasciò il segno nel collocamento internazionale del paese e di riflesso nel partito; abbandonando la quasi secolare tradizione isolazionista, Wilson introdusse nell’agenda della compagine democratica un idealismo internazionalista estraneo al pensiero politico americano, ma che si radicò fortemente nonostante il fallimento del progetto politico del Presidente. Il primo dopoguerra fu lo spartiacque per la configurazione elettorale ed ideologica del partito, con la crisi del 1929 e l’avvento di Franklin Delano Roosevelt. Il New Deal, sinonimo di riformismo e di un inconsueto «statalismo», fu la parola d’ordine per ristrutturare il partito intorno all’universo liberal, concetto che da quel momento sarebbe stato indissolubilmente associato alla coalizione democratica, riuscendo “nell’impresa di riunire sotto lo stesso tetto le due anime del partito democratico […]: al nord i liberal-democratici, al sud i cosiddetti conservatori” (p. 32). Era giunta l’età contemporanea per i democratici, che assimilarono quelle idee «egalitariste» che sono tutt’ora le architravi della sinistra americana, e le armi brandite per la battaglia sui diritti civili. Un tema, reintrodotto da Truman e poi ereditato dalle amministrazioni Kennedy e Johnson, che fu un vero e proprio terremoto per la New Deal Coalition, tanto da spostare il bacino elettorale dal sud segregazionista verso il nord-est metropolitano. Gli anni della Great Society, della guerra del Vietnam e dei movimenti della controcultura ispirarono la formazione della New Left, mentre l’anima centrista del partito poté nuovamente ritornare a galla con la coalizione New Democrat solo verso la fine degli anni Ottanta, discostandosi dalla visione «rooseveltiana» dell’interventismo statale per abbracciare, al contrario, una rinnovata fiducia nel libero mercato. Una corrente che con Bill Clinton avrebbe dominato indiscutibilmente gli anni della New Economy, genesi politica americana della globalizzazione economica mondiale, sconfitta soltanto nel 2001 con l’irruzione poderosa della destra ultraconservatrice. L’avventura di Obama ha rivisto il ritorno dello sguardo liberal del partito su temi sociali ed etici, riflettendo un profondo cambiamento insito nella società americana.

Nella ricostruzione storica del partito repubblicano, in principio espressione di una composita schiera di interessi, l’autore individua nel dibattito intorno al Kansas-Nebraska Act – una legge che sintetizzava le tre grandi discordie della politica americana, ovvero la schiavitù, la sovranità degli stati federati e l’opposizione tra interessi agrari e industriali – la genesi dell’agreement repubblicano contro gli schiavisti e i latifondisti degli stati meridionali. La fine della guerra civile e il superamento della conflittualità con il rafforzamento dell’Unione conferì al «partito di Lincoln» la propria identità, mantenuta fino all’epoca del New Deal ed incentrata sulla priorità assoluta assegnata al laissez-faire e alla difesa dell’individuo dall’ingerenza dello Stato. Il Grand Old Party, sottolinea Ferraresi, subirà un forte sconquassamento nelle sue file interne proprio con la Grande Depressione, quando l’Old Right sarà impegnata a combattere il riformismo roosveltiano e contemporaneamente i conservatori repubblicani vicini ai liberal. La critica all’interventismo militare tipico delle amministrazioni democratiche – Wilson, Roosevelt, Truman, Kennedy – diverrà un altro grande tema fatto proprio dai conservatori ed isolazionisti repubblicani e, paradossalmente, attirerà l’influenza dei neoconservatori. Originatisi da una costola degli internazionalisti di sinistra, avrebbero compiuto il voltagabbana più clamoroso nella storia politica americana, confluendo nelle file degli ultranazionalisti, ma rimanendo a lungo sotto traccia. La componente moderata invece – da Eisenhower, a Ford fino all’esperienza Nixon – non incise molto, a dispetto invece della New Right che si ricostruì riproponendo e riconciliando i tre pilastri del conservatorismo: tradizionalismo, anticomunismo e idea libertaria. L’idea del «fusionismo», proposta dal teorico Frank Meyer, intendeva plasmare le correnti repubblicane, storicamente divise dalla dicotomia libertà-tradizione: prima Barry Goldwater e poi Ronald Reagan furono i prodotti – perdente il primo, vincente il secondo – di questo tentativo di sintesi politica per “l’edificazione ideologica di un nuovo conservatorismo” (p. 56). Il successo della Reaganomics e il colpo ferale inferto all’Unione Sovietica conferirono al 40° presidente degli Stati Uniti il titolo di «patrono del partito repubblicano», riappropriandosi dell’elettorato della working class che aveva sostenuto dagli anni Sessanta gli avversari democratici. Dopo la breve parentesi di Bush senior, la vocazione unilateralista e l’ascendente che i neoconservatori seppero esercitare durante la sua amministrazione portarono George W. Bush a gettare un’ombra sull’integrità del partito: il moralismo e la componente religiosa ebbero effetti polarizzanti sia in ambito interno – sulle questioni etiche ed economiche – ma soprattutto rispetto alla condotta nel perseguimento della «guerra al terrore». Il risultato di questa insorgente patologia all’interno del partito è stata in qualche modo catalizzata dal Tea Party Movement, che nel 2009 ha investito il panorama politico americano con una nuova ondata populista, allarmante per una compagine sempre più frammentata in correnti contrapposte, foriere di una “crisi d’identità di un partito che alle primarie del 2016 ha presentato diciotto candidati” (p. 63).

 

Le primarie e il sistema dei checks and balances nella politica americana

Nell’Election Day dell’8 Novembre scorso, nonostante la vittoria di Donald Trump, abbiamo assistito al paradosso per il quale Hilary Clinton ha ricevuto, nel complesso, più voti rispetto a quelli ricevuti dal tycoon newyorkese. Una distorsione che a noi europei potrebbe apparire sconvolgente, ma che invece è perfettamente conforme alle dinamiche elettorali americane, i cui tecnicismi sono ben illustrati dall’autore nella parte centrale del libro. Il sistema elettorale statunitense è sostanzialmente imperniato su due momenti principali: le primarie e le elezioni generali. Come ricorda Ferraresi, la Costituzione americana non accenna all’esistenza di partiti politici né tanto meno a regolamentare i meccanismi di voto; le primarie si sono consolidate come consuetudini ed “uno dei molti rituali della vita civile americana” (p. 77). La particolarità che le caratterizza sono le “preferenze” che i singoli candidati ricevono dalle delegazioni a loro affiliate, una volta riunitisi nell’assemblea nazionale (la Convention, l’unico momento in cui il partito assume un carattere “nazionale”) in cui vige un sistema di rappresentanza indiretta. Una piccola variante è rappresentata dal sistema del caucus, assemblee locali in cui gli elettori avanzano le proprie ragioni sulla scelta di un preciso candidato. L’autore giustamente individua nella “calendarizzazione” delle primarie un aspetto molto importante e per gli amanti della cabala, simbolico: il caucus dell’Iowa apre di fatto la corsa elettorale, e le statistiche suggeriscono che il “candidato che vince in Iowa ha [all’incirca] il 50% di probabilità di ottenere la nomination” (p. 82). L’animosità dei confronti politici nelle primarie è una pura battaglia per rappresentare la «purezza ideologica» del partito: molto interessante infatti è la chiosa finale del paragrafo, con una riflessione sulla strategia di molti candidati presentatisi convinti della propria «eleggibilità», ma surclassati spesso da figure in grado di intercettare i sentimenti dei fedeli del partito. A differenza delle primarie, le elezioni presidenziali sono un procedimento rinchiuso e protetto a livello costituzionale. Il meccanismo di voto è simile a quello descritto precedentemente, con la differenza che il voto indiretto è esercitato tramite i “grandi elettori” riuniti nel collegio elettorale nazionale – un sistema partorito dall’Assemblea costituente di Philadelphia del 1787, quindi di fatto “una delle tracce del dibattito americano intorno ai criteri della rappresentanza” (p. 90). Quella che può sembrare, almeno formalmente, la più grande diseguaglianza nella democrazia americana, ovvero l’ineguale distribuzione del peso dei “grandi elettori” rispetto al rapporto con la popolazione di ogni stato, è in realtà una formula necessaria al federalismo americano, così composito e variegato e protetto dal sistema maggioritario (winner takes all). Oggetto di severe critiche e proposte di riforma, il collegio elettorale viene additato come la causa di molti mali che affliggono la democrazia americana, ma resta di fatto il principale garante dell’autonomia di ogni singolo organo dell’Unione. L’autore ricorda come i finanziamenti ai partiti, seppur spesso molto ingenti ed in grado di spostare gli equilibri, specialmente se provenienti dal settore privato, rappresentano e rispettano fino a prova contraria “il principio della libertà d’espressione garantito dal primo emendamento per liberalizzar[li]. Avere un impatto economico sulle elezioni equivale ad esprimere liberamente la propria opinione in ambito politico, cosa che la legge non può limitare” (p. 97).

Nella terza ed ultima sezione Mattia Ferraresi traccia una panoramica sul ruolo e sulla crescente interdipendenza tra i tre detentori del potere politico: il Congresso, il Presidente e la Corte Suprema. Se il controllo del potere e delle sue derive autoritarie aveva ossessionato i padri costituenti, memori dell’esperienza europea, la costruzione di un sistema di checks and balances per legare i tre poteri l’uno all’altro fu la soluzione. In quest’ottica fu concepito il potere di impeachment affidato a Camera e Senato per la messa in stato d’accusa del presidente, oltre ovviamente all’esercizio del potere legislativo. Il sistema bicamerale nacque – così come il collegio elettorale – dal compromesso di Philadelphia, e ha visto un incremento della sua giurisdizione anche oltre i limiti fissati dal testo costituzionale. Figura importante e singolare, in quanto ufficialmente terza carica dello Stato – dopo presidente e vice-presidente – quella dello speaker: regista dei lavori alla Camera e rappresentativo dei meccanismi di negoziato e compromesso che inquadrano la particolare natura del Congresso, esposto “a scambi e accordi sotto banco fatti nell’interesse del consolidamento del consenso più che in quello del perseguimento del bene comune” (p. 111). Il dibattito intorno all’estensione del potere esecutivo in mano al presidente si è fatto sempre più acceso, soprattutto dopo l’amministrazione di George W. Bush. Parlare di «presidenza imperiale» significa, come rileva giustamente Ferraresi, registrare l’espansione ipertrofica del governo e degli “apparati” rispetto a situazioni eccezionali, quali furono per esempio i poteri concessi dal Congresso al presidente Roosevelt dopo l’attacco a Pearl Harbour oppure nella ratifica del Patriot Act dopo gli attentati dell’11 Settembre. Trattandosi di una democrazia relativamente giovane e protetta da una carta costituzionale aperta all’interpretazione, lo iato tra la teorica divisione dei poteri e l’effettivo decisionismo governativo inducono a pensare ad un sistema malleabile, riassestatosi con la redistribuzione del potere tra legislativo ed esecutivo. In chiusura, una piccola e sommaria digressione sulla Corte Suprema, organo collegiale che ha avuto – contrariamente al senso comune – un ruolo fondamentale nell’indirizzare la politica americana: pensiamo alla sentenza storica sull’aborto, sul matrimonio omosessuale nel 2015 o sulla più controversa pronuncia della Corte sulla legalità dell’utilizzo delle armi, con il richiamo al II emendamento. A livello costituzionale il potere giudiziario era stato concepito come il più debole, ma la storia ha mostrato come abbia avuto un ruolo decisivo nel plasmare i tratti fondamentali della società americana e nel rimarcarne le linee di frattura: “il tempo ha confermato che il potere di interpretare la Costituzione poteva avere effetti enormi sull’organizzazione della società. Non deve stupire, dunque, se le nomine della Corte Suprema sono eventi che scatenano passioni politiche dirompenti […]” (p. 123).

Lungi dal pretendere di essere un manuale di stampo accademico e quindi approfondito nei minimi dettagli, il libro di Ferraresi si limita a riprendere con precisione quasi tutti i caratteri peculiari della vita politica statunitense e si presta ad una lettura molto agevole. La ricostruzione delle dinamiche intercorse tra i partiti e i poteri e la rispettiva storicizzazione, seppur puntuale, è forse viziata dalla mancanza di una visione delle idee di fondo che permeano la tradizione liberale americana e il suo testo costituzionale; alcuni riferimenti, qua e là dispersi nei tre capitoli, sono difficilmente recettibili dall’occhio più inesperto. Il libro è orfano di un’analisi delle strutture intergovernative, ormai pienamente inserite nelle dinamiche istituzionali; un accenno avrebbe sicuramente completato un sguardo panoramico comunque molto valido, consigliabile a coloro che, pur non essendo cultori o un minimo competenti in materia, vogliano addentrarsi in via preliminare all’interno di quel complesso sistema, ben sceneggiato recentemente nella serie televisiva House of Cards, che è la politica americana.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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