Politica e conflitto nello spazio del terzo millennio. Intervista a Marcello Spagnulo
- 24 Giugno 2022

Politica e conflitto nello spazio del terzo millennio. Intervista a Marcello Spagnulo

Scritto da Giacomo Centanaro

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Il settore dello spazio sta conoscendo in questi anni una nuova fase di sviluppo, assumendo un crescente rilievo strategico e diventando un campo di confronto sempre più rilevante per gli attori della scena internazionale, con un ruolo crescente assunto anche dai soggetti privati. In questa intervista Marcello Spagnulo riflette sul rapporto fra lo spazio e la definizione delle leadership globali, con una particolare attenzione al ruolo strategico che il comparto aerospaziale può giocare anche nel contesto italiano. Marcello Spagnulo è ingegnere aeronautico e Consigliere Scientifico di Limes. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Geopolitica dell’esplorazione spaziale. La sfida di Icaro nel terzo millennio, edito da Rubbettino.


Nel 2019 lei ha pubblicato il saggio Geopolitica dell’esplorazione spaziale, edito da Rubbettino. Che cosa intende per “geopolitica dell’esplorazione spaziale” e perché ha scelto questi termini per descrivere il fenomeno? L’Europa, attraverso i singoli Stati o con organizzazioni internazionali o sovranazionali, che ruolo ricopre?

Marcello Spagnulo: Da alcuni anni il termine “geopolitica” è utilizzato negli ambiti più disparati, quasi fosse una scienza sociale in grado di spiegare cause ed effetti di eventi diversissimi. Un politologo francese scrisse nel 2008 persino un piacevole saggio sulla “geopolitica delle emozioni”, ma se restiamo a un terreno più propriamente politico, e volendo semplificare il concetto, potremmo dire che attraverso la globalizzazione acceleratasi negli anni Novanta del secolo scorso, le interconnessioni economiche tra Stati sono esponenzialmente aumentate e naturalmente si sono via via intersecate con le ambizioni di crescita e di sviluppo di ogni nazione. E così un po’ tutto ciò che attiene alla sfera delle attività economiche e produttive degli Stati è divenuto un tema di geopolitica, e ciò perché giocoforza l’influenza delle coordinate geografiche nel processo di espansione economica delle nazioni ha influenzato scelte e decisioni strategiche. Essendo la geopolitica classica una dottrina che studia come gli Stati agiscono nello spazio geografico esterno per aumentare la loro influenza sullo scacchiere internazionale, è stato naturale a mio avviso che nel momento in cui lo spazio eso-atmosferico assumeva una dimensione geograficamente operativa, aggiungendosi alle tradizionali dimensioni terrestre, marittima e aerea, si manifestasse anche una sua essenza geopolitica. Sinteticamente per dimensione geografica operativa intendo il fatto che si sia andati verso un deciso mutamento di prospettiva per le attività spaziali, da una fase di esplorazione nel secolo scorso ad una di sfruttamento, il che vuol dire in concreto che si va nello spazio non solo per la scienza di base quanto per usare i satelliti e per sfruttare risorse extra-terrestri al fine di incrementare una supremazia terrestre, che è commerciale e politica. La dimensione spaziale nel secondo dopoguerra è nata caratterizzandosi per la sua natura di terreno di confronto strategico, ma limitato a due superpotenze; però dal primo decennio del nuovo secolo nasce una nuova dimensione economica che, unitamente a quella strategica, ha fatto dello spazio un luogo geografico denso di attività umane – anche se attuate con satelliti e sonde e solo parzialmente con esseri umani –, dove ora concretamente ci si appresta a svolgere nuove attività che possono al momento persino sembrare irrealistiche. Si pensi per esempio alla forte compenetrazione tra economia e politica a più livelli che si manifesta nel contesto globale ed è rappresentata in maniera emblematica, ma limitativa se ci si ferma a una lettura di primo livello, dal confronto tra Stati Uniti e Cina. A Pechino osserviamo una simbiosi tra Stato e Partito Comunista e di riflesso nel settore spaziale la mano del governo è trainante e primaria. Negli Stati Uniti, accanto alla costante presenza di apparati pubblici per la sicurezza nazionale, cresce nelle missioni spaziali sempre più un utilizzo privato commerciale grazie alla tecnologia delle corporation che si muovono su scala globale, e che adesso manifestano in maniera esplicita anche fini politici. Un esempio di attualità lo vediamo nel conflitto tra Russia e Ucraina, in cui si è inserito Elon Musk proponendo la sua rete Starlink per l’internet satellitare alla popolazione ucraina e aumentando la copertura dei suoi satelliti sul Paese. Può non sembrare una novità che un multimiliardario intervenga nelle questioni politiche persino in tempi di guerra, ma la novità è che oggi lo fa anche con i suoi assetti spaziali. E proprio in questo contesto – come cerco di illustrare su base storica e politica all’interno del mio libro – questi assetti orbitali sono diventati fondamentali per i governi per favorire le proprie ambizioni commerciali e militari, quindi in ultima istanza geopolitiche. L’Europa a mio avviso si colloca in modo un po’ disomogeneo nel contesto geopolitico spaziale globale, e ciò è in parte un riflesso di quanto i Paesi UE fanno nella politica e nell’economia delle questioni terrestri. Possiamo osservare nel continente una certa frammentazione, c’è un’area mediana di capitalismo mercantilistico – a influenza germanica – in antagonismo con quella liberista, a influenza anglosassone del Regno Unito, e in ulteriore antagonismo con quella a forte impronta protezionistica statale, a influenza francese. Senza parlare poi delle differenti posture strategiche di difesa e sicurezza dei diversi Paesi europei che fanno sì che ogni nazione realizzi i propri satelliti militari moltiplicando gli assetti. Tutte queste differenze nel settore spaziale sono state attenuate dal fatto che sin dagli anni Settanta del secolo scorso tutti si sono di fatto riuniti sotto l’egida dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e ciò ha creato una camera di compensazione delle diverse istanze. Ma, come rilevato precedentemente, la dimensione extraterrestre è diventata sempre di più un nuovo strumento attivo di politica estera, di competizione commerciale e soprattutto di sicurezza e difesa, settore quest’ultimo in cui l’innovazione è premiante. E in questo scorgo una peculiarità europea che non è tanto tecnologica quanto culturale. Non è detto che sia per forza un difetto, ma di certo andrebbe adeguata al contesto globale attuale.

 

«La NATO non può difenderci nello spazio e nel dominio cibernetico»[1], così ha dichiarato il Commissario europeo per il mercato interno e i servizi Thierry Breton – tra le cui competenze rientrano quelle relative all’industria, anche aerospaziale – nella conferenza stampa del 15 febbraio con cui venivano presentate nuove strategie per la difesa europea e lo spazio. Il commissario ha riconosciuto che lo spazio sia ormai diventato oggetto di «conflitti quotidiani», davanti ai quali «dobbiamo proteggere le nostre frontiere cibernetiche», per questo ha proposto una rete di comunicazione satellitare europea indipendente e che possa fornire servizi sicuri a Stati, imprese e cittadini dell’Unione. L’approccio sembra indicare una maggiore spinta a una partecipazione nella competizione spaziale non all’interno del paradigma interstatale (ESA), bensì all’interno delle istituzioni comuni europee. Secondo lei questo approccio godrà di un sostegno sufficiente a renderlo vincente?

Marcello Spagnulo: La domanda è assolutamente ben posta e bisogna dire che la risposta potrebbe snodarsi su due binari, e cioè chiedersi se un tale approccio possa risultare vincente sia sul fronte endogeno che su quello esogeno. Mi spiego. La spinta a spostare il baricentro decisionale e operativo della politica spaziale europea dall’ESA alla Commissione sta avvenendo ormai da anni, dietro evidente impulso francese. La Francia, indiscussa nazione leader dello spazio in Europa e storico contrafforte della Germania, vede vacillare la configurazione ESA in cui è sempre stata predominante, infatti è Berlino adesso il maggior contribuente dell’ente spaziale, ma nel contempo il governo tedesco sovvenziona nuove società che progettano razzi e satelliti impostando legami produttivi e strategici con le grandi industrie automobilistiche nazionali. Parigi deve correre ai ripari. Lo fa quindi spostando il baricentro politico verso l’ente sovranazionale, la Commissione europea, che è più libera rispetto a ESA dai vincoli di compromesso quali la regola del giusto ritorno – ogni euro investito da un Paese deve ritornare in termini di contratti al Paese finanziatore – e il divieto di sviluppare sistemi militari. Si tratta quindi di vedere se questo approccio risulti vincente sul fronte interno. Per il momento parrebbe di sì e, se nascerà il progetto di Thierry Breton per una mega costellazione satellitare di comunicazioni sicure, si potrà dire che il fronte interno sarà stato tenuto. Questo programma da svariati miliardi di euro – il conto è ancora in fase di definizione – assicurerà contratti fino alla fine del decennio alle aziende europee, a maggioranza francese, che costruiscono satelliti e lanciatori. Ma se guardiamo al fronte esterno, ci si accorge che nel contempo la sfida geopolitica internazionale si è fatta impervia, forse inarrivabile. Elon Musk ha frantumato il mercato dei lanciatori, un tempo vanto di Parigi, e occupa le orbite basse con il sistema di comunicazione globale Starlink, mentre Stati Uniti, Cina e Russia mettono in orbita assetti spaziali di attacco e deterrenza di straordinaria efficacia. Si pensi ai missili ipersonici, ai droni spaziali come il MEV della Northrop-Grumman, o ai missili killer a impatto cinetico lanciati da Cina, India e Russia. Su questo terreno l’Europa è in posizione di irrilevanza. Anche qui si tratta di vedere se la trazione francese sopra delineata, quella cioè di una competizione non più da gestirsi in ambito ESA ma in quello della Commissione e della European Defence Agency, possa risultare vincente. Ma vincente rispetto a chi? Agli Stati Uniti, alla Cina o alla Russia? Oppure rispetto a India o Giappone, che sono altre due significative potenze spaziali? A mio avviso c’è ormai un divario pressoché incolmabile rispetto alle superpotenze. Qualche numero per avere un’idea: il 2021 è stato l’anno con più lanci spaziali dai tempi dello Sputnik, sono stati 145, di cui 55 cinesi, 51 americani e 25 russi. Dal lato europeo, sei lanci, tre Ariane e tre Vega[2]. Mi pare che già questi numeri dicano molto. In sintesi, direi che l’approccio europeo attuale verte sostanzialmente sul mantenimento della propria base industriale, consolidata con contratti sostenuti dai governi puntando quanto più possibile a programmi con ricadute strategiche, leggasi militari. È ciò che in Francia chiamano “sovranità tecnologica”.

 

In un suo articolo[3] ricorda che lo sviluppo della ricerca in tema spaziale in Italia ha, a partire dagli esordi nei primi anni Sessanta, beneficiato di un intenso rapporto di cooperazione con gli Stati Uniti. Nell’ottica di una più intensa integrazione a livello europeo delle politiche spaziali, l’Italia riuscirà secondo lei a mantenere contemporaneamente, sia a livello politico sia finanziario, due legami così importanti?

Marcello Spagnulo: Se ci è riuscita nel passato non è irrealistico pensare che possa farlo anche ora, in un momento in cui a quanto pare le risorse dedicate allo spazio diventano importanti e il termine space economy viene pronunciato sempre più spesso per definire una grande opportunità di crescita e di sviluppo per il Paese. Per esempio, nel PNRR sono stati allocati 1,5 miliardi di fondi specifici per le attività spaziali, e alla Ministeriale ESA del 2019 l’Italia ha investito 2,2 miliardi di euro, la cifra più alta mai stanziata dal nostro Paese. A fine 2022 ci sarà un’altra Ministeriale per rifinanziare l’Agenzia per un altro triennio, e parrebbe normale attendersi un impegno quantomeno analogo al precedente. In sintesi, sembrerebbe da quanto detto sinora che a livello politico ci sia consapevolezza dell’importanza dell’impegno finanziario per lo spazio, ma occorre vedere se accanto a tale consapevolezza ci sia una strategia che l’accompagni. A questo è legato il mantenimento e lo sviluppo ulteriore dei due legami. Sinora il doppio binario è stato un punto di forza, ritengo debba essere perseguito perché non fa che rafforzare il peso politico e industriale del nostro Paese. Anzi credo che sia quantomai opportuno elaborare una vera e propria strategia di diplomazia spaziale verso tutta una serie di Paesi, grandi e piccoli, che vedono nell’esplorazione dello spazio uno strumento di cooperazione e di crescita.

 

Il “Wolf Amendment”[4] approvato nel 2011 dal Congresso degli Stati Uniti proibisce alla NASA di utilizzare fondi governativi per cooperare con enti cinesi, pubblici o privati che siano, senza prima aver ricevuto espresso consenso dal Congresso e dall’FBI. Già da prima che la Cina assumesse una postura più assertiva, gli Stati Uniti tentavano di tutelare la propria leadership tecnologica in campo spaziale. Le imprese spaziali di tre grandi attori privati statunitensi suggeriscono però che l’arena spaziale nel corso degli anni si sia popolata di attori che possono non condividere le stesse finalità di uno Stato. Sebbene la dimensione spaziale sia ancora poco regolata in termini normativi, è plausibile pensare che la libertà di impresa dei grandi campioni privati dell’industria spaziale sarà influenzata e circostanziata dalle direttive e priorità fissate dai decisori pubblici, con un’ulteriore dimostrazione di “capitalismo politico”? Secondo lei, si potrebbe consolidare una divisione dei compiti oppure è possibile che si giunga a un relativo conflitto tra attori diversi?

Marcello Spagnulo: Questa domanda è talmente attuale che io ne ravviso una valenza per innumerevoli settori, non solo per quello spaziale. Si pensi alla bioingegneria, alla robotica, agli sviluppi di intelligenza artificiale, al biomedicale, solo per fare alcuni esempi. Come si può consolidare una divisione dei compiti tra governo e impresa in tutti questi settori? E includo qui lo spazio che come possiamo ben comprendere va analizzato in piena integrazione con l’infosfera digitale che le imprese private stanno monopolizzando. Ma per andare al nucleo della domanda, vorrei tornare a un esempio che ho sollevato prima, e cioè la plateale – nel senso di esplicita – disponibilità di Elon Musk a fornire terminali satellitari agli ucraini e nel contempo ad aumentare il numero di satelliti in visibilità dell’Europa dell’est. Tutto legittimo. Ricordo però che l’anno scorso la Duma russa voleva approvare una legge per sospendere le trasmissioni satellitari di Starlink, l’internet spaziale di Musk, perché queste bypassavano i sistemi di sicurezza governativi. E ora che la Russia ha invaso l’Ucraina, Musk sembra prendersi una rivincita su Mosca, ma è ovvio che la sua offerta è politica prima che commerciale e rappresenta un indubbio sostegno alla politica sanzionatoria dell’Occidente verso la Russia. Non interessa qui discutere della legittimità di queste azioni perché politicamente va fatto il possibile per aiutare uno Stato soccombente, ma mi pongo delle questioni politiche di prospettiva, e lo faccio con un esempio che potrebbe apparire sopra le righe. Quanto potrà nel futuro un ente regolatore governativo essere indipendente nel valutare le eventuali richieste di Starlink di aumentare i suoi satelliti in orbita da 30.000 a, diciamo, 3 milioni, dato che questi sembrano persino essere uno strumento di politica estera? In questo modo imprenditori privati copriranno il globo con milioni di satelliti e decine di rampe di lancio, e si assicureranno il mercato mondiale delle connessioni mobili e della logistica. Nello stesso tempo garantiranno al loro governo una supremazia indiscussa. A quel punto però l’azienda privata sarà embedded nel corpo governativo, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire. Si potrebbe obiettare che già oggi è così, ma io ritengo che il paradigma sia diverso dall’attuale modello industriale, per esempio della difesa, che si è sviluppato dal secondo dopoguerra. Per esempio, le aziende fornitrici del Pentagono sono sempre potentissime e le loro lobby sono state influenti in ogni amministrazione della Casa Bianca, ma hanno sempre prodotto beni e assetti ben precisi. Ora invece gli imprenditori del New Space stanno realizzando delle infrastrutture globali – e in futuro persino delle industrie produttive eso-atmosferiche – con cui vendere beni e servizi associati a tutti, governi inclusi. Nell’ottimo saggio Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina di Alessandro Aresu[5], questo dualismo tra il modello americano e quello cinese è analizzato mirabilmente e non è difficile scorgere nella postura di Pechino quel controllo pervasivo – sino alla privazione fisica della libertà se pensiamo a Jack Ma – su ogni sviluppo tecnologico, mentre nella postura statunitense si ravvisa un soft power governativo dettato dal sostegno del Pentagono in vista dell’appetibilità per lucrosi appalti. Il punto è che la dimensione terrestre è limitata dalle coordinate geografiche, mentre quella spaziale no. E questo farà la differenza nel modello capitalistico che vivremo nei prossimi anni.

 

Rimanendo sul tema del ruolo dei nuovi attori privati nelle attività spaziali, si potrebbe affermare che il clamore suscitato dalle recenti attività di aziende private nello spazio – percepite come l’avvio di una nuova era dell’esplorazione spaziale – debba, forse, essere ponderato. Le tre imprese infatti – SpaceX, Blue Origin, Virgin Galactic – nascono da case madri che sono tra le imprese più di successo del capitalismo anglosassone, caratterizzato da livelli di profitti, investimenti in ricerca e sviluppo ed espansione spesso rari, per esempio, nell’Europa continentale. Vi sono soggetti europei capaci di una simile espansione? Lo “spazio dei privati” rimarrà appannaggio del mondo anglosassone?

Marcello Spagnulo: Vorrei rispondere facendo un esempio che riguarda proprio l’Italia. Poco tempo fa è stata ampiamente riportata sui media nazionali la notizia che la società D-Orbit, con sede a Como e fondata nel 2011, sarà quotata a Wall Street – tramite una SPAC – con una valutazione miliardaria, si spera. Bene, leggendo questa notizia chiunque penserebbe che questa società si sia adeguatamente sviluppata anche con finanziamenti governativi sino ad arrivare al traguardo prestigioso della borsa statunitense. Ma io penso che in tutti questi anni la società abbia invece ricevuto un significativo supporto da fondi privati e uno molto più limitato dagli enti istituzionali. Amerei essere smentito su questo, ma temo che non avverrà. Ciò, a mio avviso, restituisce una misura di come il modello anglosassone di capitali privati abbia difficoltà a far breccia in Europa, ma di come, quando ci riesce, i successi raggiunti siano importanti. E questo dovrebbe indurre una riflessione politica a livello nazionale per comprendere come avvicinare il mondo dei capitali privati a vantaggio non solo delle aziende, ma anche dei governi. Consideriamo il settore dei lanciatori europei, in cui le industrie si sono sviluppate sotto l’egida delle agenzie spaziali, sino al punto da non poter sopravvivere senza aiuti di Stato pressoché ininterrotti. È difficile che in tale contesto di protezionismo, investitori privati rischino i loro capitali scommettendo su iniziative innovative. Oggi si rileva però un certo fermento, si fanno avanti gestori di fondi di private equity che guardano con interesse al settore spaziale, ma il fatto è che il sistema istituzionale non mi sembra ancora culturalmente pronto ad accompagnare questo processo di integrazione di nuovi capitali perché – e non vuol essere una critica fine a sé stessa quanto una constatazione – è troppo impegnato a sostenere il comparto industriale consolidato. Certo le cose evolvono, ma ci vorrà un po’ di tempo.

 

Il PNRR nella Componente 2 della Missione 1 dedica 1,49 miliardi di euro a tecnologie satellitari ed economia spaziale. Tra i progetti finanziati da portare a termine nei prossimi anni vi è anche quello di completare la messa in funzione di una costellazione italiana di satelliti per operazioni di Earth Observation, che Vittorio Colao, Ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale con delega alle politiche spaziali e aerospaziali, ha definito, per la sua dimensione, «il più grande progetto [per l’osservazione della Terra, ndr] pensato in Europa»[6]. Il progetto, inoltre, vedrà il sostegno anche dell’Agenzia spaziale europea, che proprio in Italia, a Frascati, ha il suo centro di Osservazione della Terra. Quali vantaggi ne deriveranno per l’Italia? Perché sarà proprio l’Italia e non altri Paesi europei con una capacità e conoscenza tecnologica similare a realizzare un simile progetto?

Marcello Spagnulo: Su questo specifico tema credo bisognerà attendere la piena definizione dei requisiti operativi di questa costellazione satellitare, per poter dare una risposta adeguata alla sua domanda. Al momento ci sono pochi elementi in tal senso. Però vorrei far notare il vero tema che questa questione solleva: affidare la gestione dei fondi del PNRR all’ESA – perché di questo si parla – significa che il governo ha ritenuto che l’ente istituzionale nazionale preposto alla gestione dei programmi spaziali non sia affidabile per gestire un progetto di tale rilevanza e dimensione, e perciò ricorre a un ente europeo sovranazionale. Al di là di ogni valutazione che si può fare, è indubbio che i vantaggi che deriveranno da questa scelta politica saranno di tipo amministrativo più che tecnologico, nel senso che le procedure di appalto procederanno in misura tale da assicurare il rispetto delle tempistiche previste dai requisiti europei del PNRR. Sul fatto che un tale progetto potrà assicurare all’Italia lo sviluppo di capacità e conoscenza tecnologica, francamente non ci vedo un nesso con la procedura di affidavit a ESA.

 

All’articolo 7 del Trattato del Quirinale tra Italia e Francia, firmato a Roma il 26 novembre 2021, si legge: «Attraverso la loro cooperazione, le Parti mirano a rafforzare la strategia spaziale europea e a consolidare la competitività e l’integrazione dell’industria spaziale dei due Paesi»[7]. La cooperazione italo-francese dovrebbe portare allo sviluppo dei lanciatori Ariane 6 e Vega C per opera, rispettivamente, della francese ArianeGroup e dell’italiana Avio[8]. La struttura del sistema economico-imprenditoriale italiano è, tuttavia, come in molti altri campi, sostanzialmente diversa da quella francese, sia dal punto di vista delle dimensioni che delle capacità di investimento. Perché è importante una cooperazione industriale su un progetto che miri a sviluppare dei lanciatori? Lei crede che le imprese del comparto aerospaziale italiano risentiranno delle asimmetrie con i partner francesi?

Marcello Spagnulo: In realtà, la gestione del Trattato del Quirinale – quantomeno per il paragrafo attinente allo spazio – è iniziata diversi anni fa e poi curiosamente è finita per intersecare il bilaterale sui lanciatori che il ministro Bruno Le Maire perseguiva sin dal 2019. Così, quasi in contemporanea, i due governi hanno siglato il Trattato del Quirinale e un accordo sui lanciatori, in cui – oltre a dichiarazioni di circostanza sulla comune volontà di supportare i veicoli Ariane e Vega – si definiscono alcune modalità operative concernenti gli sviluppi tecnologici che saranno gestiti da ESA per conto del governo italiano. Difatti una parte dei fondi PNRR sarà dedicata a tecnologie per motori, avionica e materiali per il Vega. Bene, poco dopo le firme congiunte dei due governi, l’azienda franco-tedesca ArianeGroup, che fa parte della Airbus Defence & Space, ha presentato un suo progetto per un nuovo piccolo lanciatore, Maia, che dovrebbe impiegare tecnologie innovative nella propulsione e nell’avionica e che in buona sostanza andrebbe a posizionarsi come diretto concorrente del Vega. Come si può facilmente intuire, le asimmetrie strategiche non mancano, e la strada della cooperazione non è sempre semplice da percorrere e spesso inizia su un terreno di confronto. Cosa peraltro che non stupisce chi è abituato al mondo reale e non a quello della retorica.

 

Nelle sue pubblicazioni, non ha mai mancato di sottolineare l’importanza per la sicurezza nazionale di uno Stato dell’avere non solo capacità operativa autonoma, ma anche una profonda conoscenza e capacità di analisi delle attività spaziali. Quali sono i rischi derivanti dal non avere queste capacità? Guardando all’attuale distribuzione di ruoli e competenze delle istituzioni italiane adibite agli affari spaziali, che cosa renderebbe più efficace l’elaborazione di una progettualità strategica italiana?

Marcello Spagnulo: Il nostro Paese è a tutti gli effetti una nazione con capacità spaziali importanti, magari spesso tendiamo a sottovalutarlo perché ovviamente rispetto alle grandi superpotenze non reggiamo il confronto, ma nel contesto globale l’Italia è nel novero delle nove, dieci nazioni in grado di progettare, realizzare e operare assetti spaziali complessi. Dai satelliti radar al piccolo lanciatore, dai moduli pressurizzati abitabili alle sonde scientifiche, l’Italia possiede una filiera di accademie, centri di ricerca e industrie che poche nazioni al mondo possono vantare. Ovvio che tutto ciò, vista la valenza sempre più geopolitica delle attività spaziali, abbia una ricaduta su aspetti di sicurezza nazionale anche perché le mire di altri Paesi con ambizioni spaziali, sia quelli emergenti che quelli affermati, tendono ad acquisire know-how oppure a limitare il nostro accrescimento. Occorre poi tenere ben presente un altro elemento. Lo spazio non è un settore a sé stante da cui ricaviamo solo segnali di comunicazione, di posizionamento o di immagini della Terra, ma un dominio operativo del tutto integrato con la cibernetica, con la robotica e con le future tecnologie di quantum computing o di intelligenza artificiale – solo per fare pochissimi esempi. Si può dunque facilmente comprendere come tutto ciò riguardi in modo pervasivo la sicurezza nazionale, intesa come protezione di assetti statali o privati che gestiscono beni e servizi essenziali per lo Stato. A ciò va aggiunta un’ulteriore considerazione. Oggi è di gran moda il termine space economy per indicare che satelliti e razzi sono strumenti di uno sviluppo economico dalle enormi aspettative di crescita. E questo è dovuto alla crescente commercializzazione – direi anche privatizzazione – dello spazio, che sta prospettando nuove opportunità per l’acquisizione di beni e servizi anche da parte di enti deputati alla sicurezza nazionale. Immagini di telerilevamento, comunicazioni, posizionamento, monitoraggio di orbite, sono solo alcune delle aree in cui le agenzie di intelligence e difesa stanno valutando offerte alternative al modello tradizionale di acquisizione, per cui alcune capacità spaziali potrebbero essere trattate come beni e servizi da acquisire da società private piuttosto che da far realizzare ad appaltatori tradizionali. Oppure si pensi ai servizi spaziali di cloud o advanced computing, che potrebbero essere trattati come normalmente si gestiscono client di posta elettronica o motori di ricerca, concessi in licenza ma non posseduti dai governi. E se può sembrare oggi irrealistico un simile scenario, io suggerirei di osservare come si muovono le corporation globali come Microsoft, Amazon o Google su questi settori, e come la UE per esempio provi a mantenere una sorta di autonomia tecnologica con iniziative ambiziose, per quanto dalla questionabile efficacia commerciale, come Gaia-X. Nello spazio il progetto della Commissione per una mega costellazione satellitare di comunicazioni ne è l’equivalente. Per quanto riguarda il nostro Paese, detto tutto quanto sopra, non posso che ribadire quanto scrivo già da qualche anno. La legge n.7 del 2018 sull’indirizzo e il coordinamento della politica spaziale è stata senz’altro positiva nel riconoscere alla Presidenza del Consiglio l’alta direzione e il coordinamento, ma ormai da più parti si avverte l’esigenza di completare questo riassetto istituzionale per rendere più fluido il processo relazionale tra gli enti coinvolti (ASI, Comint, Ufficio spazio della Presidenza del Consiglio). In sintesi identificherei due punti su tutti: modificare la statualità dell’ASI, che è ancora un ente pubblico di ricerca, e soprattutto istituire sotto l’autorità del Presidente del Consiglio un Segretariato generale per la sicurezza nazionale e l’intelligence economica, cui affidare la strategia generale e il coordinamento della politica interministeriale su specifici temi strategici – fra cui lo spazio (e l’aerospazio), l’energia, le comunicazioni, la finanza, il settore alimentare, farmaceutico e altri. E in effetti quanto sopra era talmente evidente che ha preso corpo una non trascurabile riforma – attuata non con un procedimento parlamentare ma con un decreto legislativo pubblicato il 30 aprile 2022 – con cui sono stati assegnati alla Presidenza del Consiglio dei ministri i poteri di indirizzo, coordinamento, programmazione e vigilanza dell’ASI tramite l’istituzione di un apposito dipartimento i cui ruoli e compiti sono in fase di strutturazione. Un passo che fa ben sperare, vedremo come evolverà.

 

Roberto Battiston, già Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha evidenziato il rilevante problema rappresentato dai detriti spaziali, che iniziano a costituire una minaccia per una tranquilla operabilità nelle orbite più “affollate”. Quali sono, a suo giudizio, alcuni degli altri ostacoli che la ricerca spaziale dovrà tentare di risolvere a livello globale, affinché lo sfruttamento delle potenzialità offerte dallo spazio possa proseguire e intensificarsi?

Marcello Spagnulo: Oggi lo spazio assume, come accennavo, un ruolo centrale nella geopolitica globale. La sua militarizzazione è evidente – si pensi che ormai anche la Nato ha incluso l’orbita terrestre nel proprio dominio di operazioni – e nel contempo cambia anche il modello commerciale perché in aggiunta ai governi entrano in gioco le corporation private che vogliono monopolizzare lo spazio e farne un moltiplicatore economico. Al momento lo stanno facendo in assenza di regole, quindi occupando – si passi il gioco di parole – lo spazio nello spazio, anche a costo di renderlo inquinato e pericoloso. Quando Elon Musk dichiara al Financial Times[9] che «lo spazio è talmente grande che possono convivere miliardi di satelliti» dice una cosa potenzialmente inquietante, perché la realtà è che per quanto vasto sia il vacuum eso-atmosferico l’affollamento di decine e decine di migliaia di satelliti comporterà una modifica sostanziale dell’ambiente del nostro pianeta, ciò che io definisco antropocene spaziale. Al di là del rischio di collisioni che già oggi si manifesta in modo concreto, ci saranno temi come l’inquinamento visivo e quello atmosferico – dovuto ai lanci e ai rientri di razzi e satelliti –, quest’ultimo peraltro del tutto negletto allo stato ma che a mio avviso sarà significativo nel medio e lungo periodo. Ha ben detto il presidente di Arianespace al quotidiano Le Monde[10] quando già nel 2019 lanciava un allarme su un “far west” nello Spazio. È ciò che sta avvenendo e non ci sono consessi internazionali dove il tema viene concretamente affrontato, proprio perché è rapidamente e drammaticamente diventato un argomento globale di confronto militare e commerciale. Temo bisognerà attendere un evento traumatico per poter risvegliare nei governi una spinta a ricercare un modus operandi condiviso, ma per il momento non sono ottimista.

 

Quali potrebbero essere le eventuali ripercussioni del conflitto in Ucraina sul dominio spaziale? Si assisterà a un disallineamento delle iniziative russe da quelle internazionali in cui è prevista cooperazione tecnologica con i Paesi europei e nordamericani, come già verificatosi con la Cina?

Marcello Spagnulo: Il disallineamento si vede ed è già realtà. L’Agenzia spaziale europea e la sua omologa russa Roscosmos si stavano preparando per il lancio la prossima estate di ExoMars con il Rover Rosalind Franklin, la cui spedizione in Kazakistan era prevista a marzo. Ma ora è tutto bloccato e il lancio nel 2022 è perduto. Se tutto va bene bisognerà attendere il 2024 o il 2026, ma soprattutto bisogna trovare un nuovo veicolo di lancio. Per l’Europa è un brutto colpo: ExoMars è un progetto avviato all’inizio degli anni Duemila la cui prima missione doveva partire nel 2009, e ora dopo quasi vent’anni ci si ritrova in questa situazione. Una doppia beffa perché lo stesso ExoMars rischiò di naufragare nel 2010, quando la NASA ritirò dalla collaborazione il suo razzo Atlas per raggiungere Marte, e gli europei si rivolsero ai russi. Forse adesso qualche domanda in Europa ce la si dovrebbe porre. Il tema è sempre quello dell’autonomia strategica, ma oltre a questo c’è da pensare alla Stazione spaziale internazionale che è stata pensata politicamente e progettata tecnologicamente negli anni Novanta del secolo scorso. Oggi tutto è cambiato e la crisi in Ucraina porterà a una frattura geopolitica che non potrà non avere conseguenze nello spazio. È come se si fosse tornati indietro di trent’anni. A mio avviso dobbiamo aspettarci nuovi progetti sino-russi sia in orbita terrestre che in quella cislunare. Questo è, a mio giudizio, il pericolo più grande cui stiamo andando incontro, il formarsi cioè di due blocchi contrapposti armati e potenti che si affrontano nello spazio circumterrestre e cislunare con assetti spaziali di offesa e mutua deterrenza.

 

Che ruolo stanno ricoprendo le tecnologie applicate allo spazio nel conflitto in Ucraina? La “superiorità” di mezzi nel dominio spaziale risulta già di importanza assimilabile alla superiorità aerea?

Marcello Spagnulo: Per il momento – alla data di questa intervista sono passati circa tre mesi dall’inizio del conflitto in Ucraina – mi pare che stiamo assistendo a un utilizzo dirompente di tecnologie spaziali, nel senso che da un lato i Paesi occidentali fotografano ogni metro quadrato del terreno ucraino sia con satelliti governativi che commerciali – e ciò fornisce un quadro chiaro della situazione sul campo e dei danni reali – e dall’altro la Russia sta utilizzando una parte della sua preponderante potenza bellica, come quella che per esempio aveva impiegato in Siria sette anni fa. In quel teatro operativo – piccolo, geograficamente parlando –, Mosca era intervenuta militarmente con una potenza di fuoco impressionante, con bombardamenti quotidiani incessanti (fino a 90 missioni giornaliere dei Sukhoi 24M, 25M e 34) e con decine di lanci dei letali missili da crociera Kalibr NK. Il tutto supportato da un impiego massiccio di assetti spaziali tattici in grado di osservare e mappare il territorio, far comunicare gli assetti e guidare truppe e armamenti in ogni condizione atmosferica e senza interruzione. La Siria era stata per la Russia l’occasione di provare sul campo la nuova generazione di sistemi spaziali che per la prima volta dagli anni Novanta potevano accompagnare gli interventi di terra con mezzi moderni e innovativi. Nel contempo l’intervento in Siria aveva fornito all’Occidente una dimostrazione della forza bellica russa a terra e nello spazio. Ora il tutto sembra ripetersi in Ucraina. Questo consente di dare risposta alla sua domanda sull’equivalenza della “superiorità” nel dominio spaziale rispetto a quello aereo, per affermare che oramai ciò è del tutto assodato: le superpotenze Stati Uniti e Russia hanno di fatto dimostrato sul campo di essere passate da una prospettiva incentrata sul dominio aereo a una integrata con capacità basate sul cyberspazio e sullo spazio. Tutta la strategia Anti-Access/Area Denial (A2/AD) si basa sull’integrazione di queste capacità air, space and cyber, perché ormai le minacce anti-accesso non sono più limitate al dominio aereo e le armi antisatellite ASAT – e l’ultima è stata provata proprio dalla Russia a novembre dello scorso anno – ne sono un chiaro esempio. Un ASAT ha ormai la portata per devastare l’atmosfera e impedire lo sfruttamento del dominio spaziale per gli scopi militari classici. Le superpotenze globali continuano a sviluppare armi in grado di danneggiare o distruggere i satelliti e di conseguenza la probabilità di un conflitto eso-atmosferico è in aumento. Sebbene esistano alcune disposizioni nel diritto internazionale in materia di spazio e guerra, il quadro normativo è molto carente. Questa è una vera sfida per le nazioni democratiche.


[1] B. Romano, Comunicazioni spaziali, rete Ue da 6 miliardi, «Il Sole 24 Ore», 16 febbraio 2022.

[2] Paradossalmente vanno aggiunti nove lanci di razzi Soyuz (otto da Baikonur e uno dalla Guyana francese) commercializzati dagli europei ma operati dai russi.

[3] M. Spagnulo, L’Italia spaziale, da terzo grande a satellite di chi?, «Limes», n. 12, 2021, pp. 191-204.

[4] Congresso degli Stati Uniti, Public Law 112–10: «None of the funds made available by this division may be used for the National Aeronautics and Space Administration or the Office of Science and Technology Policy to develop, design, plan, promulgate, implement, or execute a bilateral policy, program, order, or contract of any kind to participate, collaborate, or coordinate bilaterally in any way with China or any Chinese-owned company unless such activities are specifically authorized by a law enacted after the date of enactment of this division».

[5] A. Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, Milano 2020. Si veda inoltre: A. Aresu e R. Mauro, I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio 1950-2050, Luiss University Press, Roma 2022.

[6] Adnkronos, Spazio, l’Italia inaugura Giornata Nazionale e lancia mega progetto, 16 dicembre 2021.

[7] Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Francese per una cooperazione bilaterale rafforzata – Trattato del Quirinale, 26 novembre 2021.

[8] C. Rossi, Trattato Italia-Francia, ecco gli effetti sull’aerospazio, «StartMag», 11 dicembre 2021.

[9] AGI, La difesa di Musk alle accuse della Cina: “C’è molto spazio…nello spazio”, 30 dicembre 2021.

[10] I. Chaperon, Le président exécutif ­d’Arianespace dit «non à un espace Far West». Stéphane Israël dénonce l’offensive tous azimuts du milliardaire américain Elon Musk, dans le secteur du spatial, «Le Monde», 27 novembre 2019.

Scritto da
Giacomo Centanaro

Laureato presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Ha conseguito titoli post-laurea presso l’Università LUISS di Roma e ha completato un periodo di studio presso l’Université Paris 1 Pantheon-Sorbonne. È stato coordinatore del Limes Club Firenze ed è alumno della Scuola di Politiche.

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