Recensione a: Richard Seymour, Corbyn. The strange rebirth of radical politics, Verso, Londra 2017 , p. 384, £ 9,99 (scheda libro)
Scritto da Domenico Romano
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L’opera di Richard Seymour è uno dei testi più interessanti per capire le origini e lo sviluppo del “corbynismo”, inteso come l’emersione nel Partito Laburista britannico di una leadership talmente lontana dal canone laburista di questi decenni da richiedere paragoni che risalgano almeno agli inizi degli anni Ottanta con Michael Foot o addirittura a George Lansbury leader del Labour dal 1932 al 1935.
Seymour è un attivista e blogger britannico, non è un iscritto del Partito Laburista e appartiene di certo alla famiglia del radicalismo marxista britannico. Queste caratteristiche si leggono perfettamente per tutto il corso del testo sia nella descrizione del corbynismo e del suo – sia pur giovane – sviluppo sia nelle ricorrenti ricostruzioni storiche del rapporto tra la sinistra radicale ed il Partito Laburista di cui il libro è pieno. Si scrive libro, ma in realtà dovremmo parlare al plurale, di libri. Perché l’edizione del 2017 è una nuova edizione che segue di un anno la precedente, ma non si tratta di un anno qualsiasi. In mezzo tra le due edizioni vi è lo stupefacente esito delle general election britanniche del 2017, convocate dalla May per cancellare o quasi i laburisti del parlamento di Sua Maestà e divenute l’occasione per il più clamoroso upset della storia elettorale britannica recente. Tutto ciò ha degli effetti sulla tesi complessiva del libro.
Lo sviluppo dei capitoli analizza piuttosto approfonditamente sia le cause dell’emersione del corbynismo sia le conseguenze di breve e di lungo periodo. Riguardo le prime viene riconosciuto un elemento di crisi della formula newlaburista ben lontana nel tempo, poiché correttamente l’autore nota come già alle elezioni politiche del 2001 il Labour di Blair – che pure conquistò una maggioranza di oltre 400 deputati – aveva perso 3 milioni di elettori rispetto al 1997. È in questa tendenza alla separazione tra la coalizione laburista del 1997 e le evoluzioni successive, caratterizzate dall’emergere della spaccatura tra vincenti e perdenti della globalizzazione, che l’autore individua l’origine della rinascita della sinistra laburista.
Venendo ai giorni nostri nella sostanza Corbyn ne esce come il leader capace di ricollegare le due gambe necessarie per un progetto laburista vincente: l’elettorato classicamente laburista figlio dello stato sociale post bellico e una poderosa mobilitazione giovanile che ha portato forze fresche e irrobustito il partito. La crisi economica, la stretta d’austerity prodotta dal Governo di David Cameron e dal suo Cancelliere dello Scacchiere Osborne, hanno amplificato le condizioni per far nascere tra il popolo britannico la domanda di una nuova sinistra che ha incrociato la candidatura dell’anziano deputato laburista.
Vengono quindi discussi i successivi elementi di forza della stagione corbyniana: l’assoluta credibilità del suo profilo personale, corroborata da 40 anni di coerenti battaglie tutte di minoranza, e da una “monumentale” serie di insuccessi rispetto alla carriera politica standard anche dei dirigenti laburisti. Corbyn infatti non è mai stato ministro, o sottosegretario o frontbench del partito durante i periodi di opposizione pur essendo entrato a Westminster nel 1983. Tutto quello che contribuirebbe normalmente a designare un candidato perdente nel caso di Corbyn amplifica la “forza” del suo messaggio personale.
Seymour esalta anche la capacità di agenda setting del gruppo dirigente corbyniano ad esempio il rifiuto di aderire all’idea propugnata anche dalla destra laburista che la causa dei problemi andasse ricercata tra gli immigrati, o nella capacità di riportare in auge nel linguaggio politico lo stesso termine “socialismo”. Alla capacità obiettiva del gruppo dirigente corbynista di affrontare con sicurezza il fronte della comunicazione, Seymour affianca anche la perdita di credibilità del sistema dei media britannici incapaci di leggere la realtà del loro Paese e di cullarsi in rappresentazioni del Regno Unito magari piacevoli ma senza dubbio non realistiche. Una tale tendenza è stata alla base dell’enorme insuccesso del referendum su Brexit.
Proprio su Brexit l’autore si sofferma in alcune pagine per descrivere un passaggio che per i laburisti è stato estremamente problematico sia per l’esito in sé, sia per le conseguenze sul Paese e sul partito. Brexit è correttamente inserita nel biennio precedente alla grande notte elettorale del 2017, ed ancora più correttamente l’autore mostra la sostanziale subalternità dei laburisti in una campagna che è stata in sostanza un ibrido tra un congresso dei Tory (con i laburisti considerati come una sorta di appendice dei “cameronians” ed un confronto tra un fronte di “plutocrati” pro UE contro un secondo fronte di fomentatori xenofobo protezionisti. Seymour riconosce al Labour una limpidezza nell’impegno di tutto il partito che ha avuto nel Cancelliere McDonnell il vero stratega della posizione. Ma emergono un paio di critiche più meno velate: la prima riguarda il fatto che Corbyn come gran parte della sinistra laburista classica non è mai stato un euro entusiasta. Egli ha sicuramente svolto la campagna in maniera più che approfondita, ma – ricorda l’autore – il tema europeo prima del deciso “investimento” svolto su di esso da parte dell’UKIP e di un pezzo dei Tory non ha mai avuto un ruolo particolarmente centrale nella vita politica britannica, anche laburista. Ne consegue una posizione sicuramente corretta nel merito, ma forse un po’ troppo accademica.
Il secondo elemento è conseguente al primo. I laburisti, in realtà “pacificati” su questo tema (fino all’esito del referendum) hanno affidato, sostiene l’autore ai vecchi arnesi della stagione newlaburista la propria campagna sia nel comitato di partito che ha svolto la campagna sia nel lavoro assieme ai tory pro Ue ed i LibDem, rimanendo di fatto schiacciati sull’equazione tra pro Remain = pro UE così com’è. Ad indicatore di questo schiacciamento l’autore riporta il fatto che tra i primi sei personaggi più esposti durante la campagna elettorale da parte dei media britannici non ci fosse nessun laburista laburista. Vengono decisamente respinte al mittente le critiche a Corbyn, giudicato genuino nel suo slancio pro UE in campagna e non per caso il successivo tentativo di destabilizzazione viene rubricato sotto il titolo “The chicken coup”.
Corbyn ed il suo gruppo dirigente appaiono nel testo come un gruppo di navigatori estremamente abili nel tenere assieme la nave ed a navigare in un quadro tempestoso e ricco di insidie uscendo vincitori anche se non sul piano numerico parlamentare dalla tornata elettorale, sicuramente su quello politico. In ultimo l’autore nota la solidità del manifesto laburista in cui si vede la mano del Cancelliere ombra McDonnell, storico alleato di Corbyn nel Partito. Un manifesto descritto come estremamente popolare non solo tra i membri del Partito ma anche nell’elettorato laburista più in generale.
Sulla soglia del manifesto elettorale il testo affronta il tema della “sostenibilità” del corbynismo, ed è qui che emergono due aspetti. Da un lato i potenziali problemi della politica corbyniana nonché la visione dell’autore rispetto al “labourismo” in generale che è figlia della tradizionale visione della sinistra radicale britannica.
Sul primo fronte Seymour in sostanza indica il rischio di “syrizzazione” del Labour eventualmente andato al Governo. Il ragionamento in sintesi è che anche se Corbyn dovesse vincere le elezioni l’implementazione del programma di McDonnell (assolutamente non radicale ed in piena continuità con la classica socialdemocrazia) richiederebbe una qualche forma di collaborazione con il mondo del business. L’autore ritiene che il Labour, collocato attualmente molto più a sinistra di un tempo ma nient’affatto immune dalle sue tendenze storiche di appeasement con quel mondo, non riuscirebbe a reggere la prova del confronto dovendo cedere su punti fondamentali del suo programma e in definitiva descrive per il partito il rischio di essere riassorbito nella politica neoliberale. L’autore è ovviamente molto pessimista sulle possibilità di cooperazione con quel mondo poiché Corbyn e McDonnell, secondo Seymour, sarebbero presto o tardi colpiti dal più grave limite dei partiti socialdemocratici: l’impossibilità di “forzare” il business all’investimento. Sul piano politico istituzionale infine Corbyn dovrebbe affrontare (come ha già affrontato anche solo da leader dell’opposizione) l’opposizione della “classe dirigente” compresa quella laburista che impegnerebbe il partito in una estenuante lotta interna ed esterna con gravi danni alla capacità di governare effettivamente.
L’analisi di Seymour, guardando ai primi due anni di vita della leadership corbynista ha anche degli elementi realistici, basti pensare al demenziale attacco del gruppo parlamentare laburista a Corbyn post referendum. Un boomerang per chi ha lanciato l’attacco pesantemente sconfessato dalle urne sia interne nella rielezione della leadership sia nelle urne britanniche in generale. Bisogna aggiungere che la storia laburista è già stata caratterizzata da strappi interni capaci di rendere inoffensivo il partito per qualche tempo (scissione MacDonald negli anni Trenta e la scissione della Banda dei Quattro negli anni Ottanta) ma è il concetto di syrizzazione ad essere complessivamente un debole come categoria. Posto che nella storia europea l’alternanza tra governi diversi è una costante tranne qualche particolarissimo caso (la Svezia ad esempio) il punto non sembra essere tanto il fatto che Syriza possa perdere le prossime elezioni. Il tema è se Syriza rimarrà (eventualmente anche perdendo) il partito di riferimento di un certo blocco, anche se temporaneamente all’opposizione o se sparirà dal panorama politico. Lo stesso ragionamento varrà anche per Corbyn ed il suo Labour se e quando dovessero essere messi alla prova dal Governo.
In realtà è lo stesso volume, nell’edizione 2017 che autorizza ad avere qualche dubbio sull’analisi finale di Seymour. Nella edizione precedente, scritta prima delle general election, l’autore mostrava un grado di pessimismo molto più alto rispetto alla tenuta di Corbyn anche solo come leader del Partito. È lo stesso autore che – molto correttamente – lo riconosce esplicitamente e nella stessa dislocazione dei capitoli nuovi al fianco dei vecchi. La discussione in definitiva pare essere più ampia rispetto alle debolezze che tradizionalmente la sinistra radicale ritiene caratterizzino l’esperienza del Labour e più generale del sistema capitalistico. Interrogarsi sul futuro di Corbyn e del suo progetto significa cercare di interrogarsi su quanto la società britannica sia pronta ad accogliere e sostenere attivamente questo disegno più che su generiche “inevitabili tendenze”. Anche qui il passato può aiutare. Attlee ha governato da Primo ministro poco più di cinque anni. La società britannica era pronta (si veda tra le altre cose il film di Ken Loach The Spirit of ’45) per accogliere quelle innovazioni ed il carico di modernizzazione che portavano, primo fra tutti il Servizio Sanitario Nazionale. Nessuno dei suoi successori conservatori è riuscito mai più a tornare indietro del tutto. Almeno per ora. Una sicura avversaria dei laburisti, Margaret Thatcher, nella sua biografia sosteneva che non bisognasse mai sottovalutare l’appeal potenziale del partito laburista, poiché il socialismo rappresenta una durevole tentazione della società britannica.