Recensione a: James Hankins, Political Meritocracy in Renaissance Italy. The Virtuous Republic of Francesco Patrizi of Siena, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) – Londra 2023, pp. 430, 50,95 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Fantini
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Uno dei criteri centrali in base a cui giudicare la qualità di una ricerca di argomento storico o storico-artistico è la capacità di tenere assieme rigore filologico e profondità ermeneutica. Se a ciò si aggiunge la caratteristica di selezionare un tema di rilevanza primaria, che permette, cioè, di ripensare criticamente (e nella dovuta prospettiva storica) alcune categorie centrali del presente, ci troviamo senz’altro di fronte ad un libro di grande valore. Ciò avviene per Political Meritocracy in Renaissance Italy. The Virtuous Republic of Francesco Patrizi of Siena (Harvard University Press 2023). Il suo autore, James Hankins, professore ad Harvard e general editor della collana “I Tatti Renaissance Library”, è senza dubbio uno dei più grandi studiosi viventi della tradizione politico-culturale dell’umanesimo e del rinascimento italiano (in particolare latino). Autore di numerosi studi di taglio storico-culturale, nonché di diverse curatele filologiche, rappresenta al meglio la convergenza di competenza specialistica e vocazione intellettuale, che sa esprime in modo equilibrato ma netto, evitando da un lato il gioco facile e pericoloso dell’analogia tra passato e presente e allo stesso tempo rifiutando i timidi quanto ambigui filtri esoterici e allegorici.
Il suo ultimo lavoro propone un’analisi accurata di uno degli autori più interessanti e forse misconosciuti della stagione dell’umanesimo civile: Francesco Patrizi. Nato a Siena nel 1413, partecipa attivamente alla vita politica della città, prima di esserne esiliato nel 1456 a seguito di un suo presunto coinvolgimento nella congiura nobiliare del 1456, tesa a rovesciarne il regime repubblicano. Dopo un periodo di insegnamento a Verona, Patrizi, anche grazie alla felice salita al soglio di papa Pio II, suo protettore, viene nominato nel 1461 governatore di Foligno. Al culmine di un periodo di diffuso ostracismo al suo operato, sarà poi costretto a lasciare l’incarico e rifugiarsi a Gaeta, dove terminerà i suoi giorni nel 1494. Autore prolifico di opere per lo più in latino (orazioni, lettere, trattati di grammatica e raccolte di rime), Patrizi è noto in particolare per due volumi di carattere politico: il De institutione reipublicae composto tra il 1465 e il 1472 e il De regno et regis institutionis (1481-84 ca.). Si tratta di testi che ebbero per decenni una limitata circolazione manoscritta prima delle due stampe parigine rispettivamente del 1518 e del 1519: da qui una lunga sequela di edizioni tra Cinque e Seicento che fecero di Patrizi uno degli autori più citati e letti dell’età moderna.
Una serie di evoluzioni persino drammatiche che ha attraversato la storia concettuale dell’Occidente ha spinto Patrizi alla periferia del paradigma politico della piena modernità: Hankins al contrario prova, anche attraverso un lavoro di scavo filologico encomiabile, a riscoprire il profilo di un autore originale, niente affatto eclettico o amatoriale, che per primo si è posto il compito di armonizzare il concorso democratico all’esercizio politico con i criteri del merito (valutato in termini di educazione e competenza). La monografia di Hankins dedica diversi capitoli alla questione, centrale, della repubblica. Regime non particolarmente apprezzato nell’età moderna (vi si privilegiava la questione della stabilità istituzionale e della pacificazione dei corpi sociali), per Patrizi essa trova una forma compiuta solo nella natura mista di un insieme di cittadini liberi e uguali governati però da un’élite di migliori. Per azionare tale possibilità il filosofo toscano opera su un duplice binario. Da un lato segue la via dell’ingegneria istituzionale: propone un doppio filtro per le procedure dibattimentali e per quelle della selezione delle più alte magistrature dello Stato, in modo da garantire universalità della scelta conservando al contempo pratiche di selezione (o preselezione) basate unicamente sul merito (da cui la critica alla nobiltà di sangue, all’ereditarietà delle posizioni e il sostegno alla mobilità sociale). Dall’altro, primeggia – secondo un classico locus umanistico – la questione dell’educazione. Essa non assolve il compito di fornire competenze tecniche di governance, quanto, semmai, aspira ad inculcare nelle classi dirigenti un’idea di perfezionamento umano basata sull’insegnamento di qualità morali.
Attraverso la riscoperta del patrimonio culturale greco, il ceto umanistico si pone il compito di educare le élite attraverso l’insegnamento dei saperi tradizionalmente legati agli studia humanitatis: retorica, grammatica, poesia, storia, filosofia morale. Quella di Patrizi è una posizione che pone sullo sfondo due obiettivi polemici: il diritto e la logica aristotelica. Il primo costituisce un bersaglio critico su cui si appunta tutta la stagione dell’umanesimo civile da Petrarca in poi: il diritto è una disciplina noiosa, avvitata su di un lessico esoterico, incapace di cogliere la dimensione più propria dell’umano. Infine, la giurisprudenza medievale fonda l’intera legittimità dell’edificio giuridico sulla sanzione divina. Producendo un rovesciamento epocale, gli intellettuali umanisti (e con loro Patrizi) sostengono al contrario che la legittimità della norma vada ricercata non nella sua fonte, quanto piuttosto nell’effetto che essa produce. L’intero istituto giuridico è legittimo se questo promuove il benessere e il miglioramento morale dell’umanità. Dall’altro, la serrata argomentazione aristotelica implementata in uno dei trattati politici più diffusi del medioevo (il De regimine principum di Egidio Romano) viene scalzata dal metodo “storico-prudenziale” di Patrizi, che preferisce all’incedere logico-deduttivo una prassi fondata sull’esperienza e sul concetto di “opportunità politica” che gli permette anche un uso selettivo delle fonti classiche e della storia romana.
La dimensione virtuosa e meritocratica dello Stato proposta da Patrizi induce naturalmente nel filosofo anche una riflessione sugli strumenti in grado di disinnescare i meccanismi di autoriproduzione del ceto dirigente, la tendenziale imposizione di oligarchie, nonché il cosiddetto “principle-agent problem”, che spinge a far divergere gli interessi dell’élite da quelli dei governati: il risultato è un’interessante formulazione di Stato forte (in parte cioè impermeabile alle istanze provenienti dal basso) in grado di intervenire in materia economica imponendo un’equa redistribuzione delle risorse, limitando l’accumulo dei grandi patrimoni e della proprietà privata e di gestire l’accesso alla cittadinanza.
Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati all’analisi del De regno. Qui Patrizi propone una forma di diarchia in grado di accordare la richiesta di partecipazione democratica con la necessaria stabilità interna. In tale ottica il filosofo propone una soluzione intermedia, costituita da una federazione di città-Stato governate dalla figura di un monarca virtuoso. Si tratta, come nota acutamente Hankins, di un modello che sarà discusso e ripreso (con le debite modulazioni) nei dibattiti che precedettero la nascita del federalismo statunitense.
Political Meritocracy può essere letto, come tutti i libri di valore, su un livello duplice. Il primo concerne una rilettura “orientata” del suo oggetto: la tradizione umanistica e rinascimentale italiana (ed europea). Patrizi viene proposto come un contro-modello alla linea (che si rivelerà vincente nel lungo periodo) tecnico-estetica inaugurata dalle opere di Machiavelli, permettendo così di ripensare a fondo una serie di etichette storiografiche affermatesi negli ultimi decenni. Il secondo discute in maniera profonda ed equilibrata le categorie con le quali pensiamo il presente, a partire dalla dicotomia populismo-tecnocrazia. La proposta di Hankins si inserisce in un progetto di lunga durata, inaugurato nel 2019 con la pubblicazione di Virtue Politics. Soulcraft and Statecraft in Renaissance Italy[1]. In quest’ultimo lavoro l’autore ricostruisce, attraverso una serie di affondi puntuali (da Leonardo Bruni a Giorgio di Trebisonda, da Boccaccio a Francesco Filelfo), il paradigma politico dell’umanesimo che informa di sé la cultura dell’élite italiana al potere, a partire dalle riflessioni di Petrarca fino alla svolta rappresentata dal pensiero di Machiavelli. Come suggerisce Hankins, la “virtue politics” umanistica costituisce il tentativo di porre al centro della politica lo sviluppo e il miglioramento del singolo e della comunità attraverso la scelta di una condotta esemplare della sua classe dirigente educata alla frequentazione della grande tradizione greca e latina (ma anche dei principi della ragione e della natura). Essa è in parte associabile al moderno indirizzo filosofico della Virtue Ethics coltivato tra gli altri da Elizabeth Anscombe, Bernard Williams, Alasdair MacIntyre e Julia Annas, che rifiuta il discorso normativista-deontologico quanto quello utilitarista, promuovendo una politica fondata sulla prassi virtuosa tesa al bene comune. La posizione di Hankins, dunque, se da un lato rifiuta recisamente il populismo (il cui correttivo non può che essere semplicemente un’abbondante iniezione di cultura umanistica capace di permeare anche gli strati sociali più deboli), individua nella tecnocrazia il nemico più insidioso.
Con il suo corollario di giuridificazione e costituzionalizzazione del governo, la tecnocrazia agisce in negativo come limitatore dei danni del potere, non come propulsore di buona politica moralmente orientata al bene; mentre la specializzazione dei compiti della classe dirigente favorisce la settorializzazione delle policy, rendendo sempre più remota la capacità di guardare al generale miglioramento della natura umana. Su questo punto un interessante confronto può essere avanzato rispetto alle posizioni espresse da Parag Khanna in La rinascita delle città-stato[2]. Per certi versi complanare alla proposta di Patrizi (e di Hankins) sulle città-Stato come dimensione in cui si esprime al meglio la possibilità del controllo democratico di un governo di “optimates”, se ne distacca drammaticamente per l’idea di individuo e di comunità che questi propone: se il concetto di cittadinanza si declina nei termini della mera fruizione di servizi, la politica si traduce in pura governance, e la pura governance in semplice ingegneria votata alla gestione ottimale delle risorse disponibili (assistenza, infrastrutture, servizi…). La tecnocrazia umanistica di Patrizi e di Hankins, invece, non può essere scissa dalla questione morale e in particolare dalla vocazione ad un miglioramento dell’uomo e della società nel suo complesso. A partire dalla prospettiva di Khanna, nel patto fondativo del corpo sociale persino la questione delle libertà può diventare secondaria. Si tratta di una posizione inaccettabile per l’intera tradizione dell’umanesimo civile.
Al di là di aspetti marginali da tenere tuttavia nel debito conto (come si “aziona” la moralità della classe dirigente; come definire giuridicamente concetti come “liberalità”, “onestà”, “onore”, “decoro”; come rendere socialmente operativi tali concetti oltre all’impiego dell’exemplum e del modello ottativo di derivazione platonico-scolastica del “bonum est diffusivum sui”?), c’è da chiedersi come mai la linea impostata da Francesco Patrizi sia poi risultata soccombente nella successiva evoluzione della storia del pensiero moderno. Si tratta di una scissione centrale, che marca di fatto il passaggio dall’umanesimo al pieno rinascimento. A partire da Machiavelli, si impone in Europa un paradigma fondato sulla separazione dell’ordine morale dal sapere tecnico-amministrativo. Se da un lato ciò ha implicato un indubbio progresso, con il ritrarsi della politica dal campo dell’etica e con l’affermazione del dominio della legge, dall’altro ha comportato un’involuzione delle pratiche di governance che diventano sempre più esoteriche, aliene dalla discussione pubblica e preda di un’oligarchia specialistica. La formalizzazione delle pratiche di governo può essere interpretata tuttavia come l’esito di due processi di medio periodo.
Da un lato, come testimonia il trattato di Uberto Foglietta De philosophiae et iuris civilis inter se comparatione (1555), elaborato in una fase di fortissimi attriti tra la Chiesa di Roma e l’Impero e di progressiva scomposizione dell’unità religiosa europea, il predominio della tecnica giuridica (che, peraltro, con la scuola di Andrea Alciato aveva provato in parte ad accogliere le richieste della scuola umanistica) viene sfruttato anche come una sorta di campo neutro sul quale risolvere controversie potenzialmente in grado di disgregare l’ordine di cose esistente, trasformando in gioco controllato conflitti di ordine ideologico-morale. L’esplosione del genere utopico, invece, ponendo al centro dell’immaginario politico la tecnica nelle sue declinazioni più diverse drammaticamente scissa dalla dimensione morale (si pensi solo alle soluzioni eugenetiche avanzate da Doni), nonché della sua fortuna editoriale, rappresenta il sintomo di un’evoluzione sociologica di grande interesse. Se l’umanesimo ha prosperato, come sostiene acutamente Hankins, anche grazie ad un’accorta strategia sociologica di occupazione delle corti, a partire dal pieno Cinquecento una classe di figure professionali (giurisperiti, ingegneri, architetti, banchieri…) diventa sempre più rilevante nella definizione delle politiche pubbliche. Ciò si porta dietro anche una formazione diversa. Dalla seconda metà del Cinquecento, l’educazione fondata sulle lettere e sui classici non è più decisiva, mentre assume importanza l’expertise amministrativa. Tra umanesimo e rinascimento si inserisce dunque anche uno shift sociologico, un cambiamento di classe sociale al potere. Una figura come quella di Ferdinando I, granduca di Toscana dal 1587 al 1609, dimostra come l’assenza di una cultura umanistica possa essere compensata da un training presso uffici tecnici (nel caso specifico la congregazione delle Fonti dello Stato della Chiesa), in cui la governance prende il sopravvento sull’alta politica. A queste ragioni Hankins ne aggiunge una terza, di capitale importanza: l’assenza (in Italia e in Europa) di una struttura di potere unificato e continuativo in grado di sostenere con fermezza una politica meritocratica basata sui valori morali dell’umanesimo. È questa una delle ragioni che differenzia il successivo modello europeo da quello presente in Cina. Occorrerà accennare qui ad un ultimo punto decisivo nel libro.
La grande capacità del suo autore di parlare del passato per dare spessore storico a nodi centrali del presente passa per una costante e ponderata serie di confronti tra il pensiero di Patrizi e la produzione di Thomas More o le riflessioni dei Padri fondatori americani. Ciò a cui è dedicato maggior spazio è, tuttavia, l’analogia tra il modello meritocratico sviluppato dall’umanesimo civile italiano e la tradizione – anch’essa meritocratica – confuciana. Fondata sulla virtù, l’educazione e il riconoscimento del merito dei membri della sua classe dirigente, tale sistema condivide tratti profondi con quanto si venne elaborando nella stagione umanistica italiana: nate come soluzioni a tempi di crisi, entrambe si fondano sul principio della inscindibilità tra questione morale e questione politica. Alla base di entrambe vi è l’assunto per cui la gravità della crisi non si supera con alchimie istituzionali (statecraft) quanto passando attraverso un rinnovamento etico dell’umanità che deve partire anzitutto dall’élite al potere (soulcraft)[3]. Tale rinnovamento, per entrambe le scuole, parte dall’educazione e dalla lettura di un rigido corpus di opere antiche. L’autorità canonica, le forme della trasmissione dei testi, la centralità dell’educazione: si tratta di una morfologia profonda, che recentemente comincia ad essere sempre più sondata (si pensi in particolare ai recenti lavori di Glenn Most), che unisce due civiltà lontanissime nel tempo e nello spazio. La cultura umanistica, con il suo sguardo filologico, può forse davvero, in casi limitati, fungere da katéchon contro le forze del conflitto e della violenza scatenate dai processi geopolitici ed economici.
[1] James Hankins, Virtue Politics. Soulcraft and Statecraft in Renaissance Italy, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) – Londra 2019.
[2] Parag Khanna, La rinascita delle città stato. Come governare il mondo al tempo della devolution, Fazi Editore, Roma 2017.
[3] Sulla declinazione di tale modello nella Cina contemporanea si vedano le puntate del «Videopodcast dei Dialoghi di Pandora Rivista» a cui hanno partecipato Simone Pieranni e Guido Samarani, visibili sul canale YouTube di Pandora Rivista.