Scritto da Anna Napoletano
13 minuti di lettura
Il dibattito scientifico sul rapporto tra democrazia e populismo si è sviluppato in modo molto intenso negli ultimi anni, crescendo in relazione al diffondersi di partiti e movimenti in grado di entrare a far parte di coalizioni di governo. Daniele Albertazzi, Professore ordinario di Scienze politiche e Co-direttore del Centre for Britain and Europe presso l’Università del Surrey, ha dedicato al tema del populismo al potere in Europa occidentale, insieme a Duncan McDonnell, uno studio sistemico nel 2015, dal titolo Populists in Power. Il populismo appare, secondo tale prospettiva, un fenomeno non episodico, in grado di diffondersi, costruire organizzazioni, creare comunità e identità e modellare le agende politiche. In questa intervista, Albertazzi riflette sugli approcci allo studio del fenomeno populista e sulle traiettorie e prospettive di tali forze alla prova del governo.
Che cos’è dal suo punto di vista il populismo?
Daniele Albertazzi: A mio avviso siamo finalmente arrivati tra gli studiosi a un qualche tipo di accordo su cosa sia il populismo. Mettendo da parte la questione del suo essere un’ideologia completamente formata o meno – su cui effettivamente c’è ancora molto dibattito – sugli ingredienti essenziali di questa ideologia, o strategia, penso che vi sia in realtà un notevole accordo. Il populista afferma che esista un popolo omogeneo e unitario al quale si contrappongono una serie di élite. Rispetto a queste ultime aggiungo che, a differenza di quanto affermato da Cas Mudde, non ritengo che debbano necessariamente essere a loro volta omogenee e unitarie. Ciò che invece accomuna sempre le élite nel discorso populista è il fatto di essere viste come lontane dai bisogni e dai voleri del popolo, dedite ai propri interessi invece che a quelli di coloro che dovrebbero rappresentare. Il manicheismo è un altro ingrediente fondamentale del populismo. La lotta fra popolo ed élite è sempre necessariamente anche una lotta fra bene e male, luce e tenebre, ecc. A seconda del tipo di populismo in questione, l’enfasi può essere posta su temi economici, sociali o identitari. Il discorso populista presuppone sempre un’idea di crisi e quindi declina un’offerta politica, rappresentando sullo sfondo una crisi imminente la cui mancata risoluzione può portare a danni gravissimi, se non alla fine di una democrazia o addirittura di un Paese. Insomma, un certo tono apocalittico fa parte delle caratteristiche alla base del discorso populista. Quindi quando si afferma che ancora non sappiamo cosa sia il populismo, a mio avviso, non si dice una cosa corretta. Invece, un aspetto interessante su cui si confrontano opinioni diverse riguarda la funzione della leadership. La presenza di un leader in grado di controllare e rappresentare in maniera totalizzante il popolo non sembra essere un ingrediente essenziale del populismo, anche se è stato additato come tale in passato. Se torniamo invece ai due elementi ricordati qui sopra come caratteristici, possiamo già affermare che il populismo non sia facilmente compatibile con i principi della democrazia liberale. Se il popolo è omogeneo e unitario, allora i meccanismi complicati della democrazia liberale diventano un impedimento all’affermarsi di quella volontà del popolo che il populista afferma di poter identificare e immediatamente realizzare.
Secondo lei c’è la possibilità di tracciare differenze in termini di “intensità del populismo” tra attori diversi?
Daniele Albertazzi: Penso che sia legittimo trattare il populismo come una strategia o come una retorica ed esistono infatti studi che si sono focalizzati sulle gradazioni del discorso populista. Per cui se si osservano determinati elementi, per esempio, quello che in inglese si definisce people-centrism o anti-elitism e ne andiamo a misurare le varie gradazioni, ritengo sia assolutamente legittimo dire che ci possano essere livelli di populismo che consentano di distinguere, ad esempio, un populismo più superficiale da uno più profondo. Tuttavia preferisco un altro approccio, il quale definisce il populismo come una ideologia e quindi ci consente di poter definire un partito, sulla base di alcune caratteristiche, populista o meno. Secondo questa logica, il solo fatto che un partito presenti alcuni elementi di critica delle élite non basta a definirlo populista. Si può infatti criticare l’élite anche senza avere una concezione del popolo come omogeneo e unitario. In quest’ultimo caso verrebbero per altro meno le conseguenze, a mio avviso importanti, legate al pensiero populista sull’incompatibilità o difficoltà di collocarsi in un contesto di democrazia liberale. Se concepiamo il populismo come ideologia, quindi, gli ingredienti essenziali ci devono essere tutti.
Spostando il focus sul caso italiano quali considerazioni più specifiche si possono formulare?
Daniele Albertazzi: In Italia a destra non vi è un partito, tra quelli principali, che non sia populista. E poi ci si può chiedere quale sia l’attuale natura del Movimento 5 Stelle, visto che solo due anni fa erano diventati centristi, europeisti e liberali, a sentire alcuni loro esponenti. Per rispondere bisogna prima stabilire come si faccia a decidere quale sia l’ideologia di un partito: lo vediamo dai programmi, dalle mozioni congressuali, dal dibattito interno o dalla comunicazione pubblica, oggi in gran parte online? È una domanda simile a quella che poneva Mudde nel suo primo libro sull’estrema destra (The Ideology of the Extreme Right, 2000) dedicando un capitolo a questo problema. Ci sono, ad esempio, partiti che non celebrano congressi. D’altronde guardare solo ad un programma elettorale sarebbe limitativo. Vi è poi il problema di quale atteggiamento si debba avere nei confronti della comunicazione sui social media. Guardando, d’altra parte, solo al dibattito interno si otterrebbe un’immagine chiaramente molto diversa da quella che si avrebbe focalizzandosi solo sulla comunicazione esterna. Pensiamo alla comunicazione di una leader come Giorgia Meloni, fortemente differenziata a seconda dei destinatari e dei contesti. Ma è solo un esempio, particolarmente evidente, di una tendenza che coinvolge tutti.
Lei è stato uno dei primi ad offrire uno studio sistematico sul populismo al potere, sottolineando come esso non fosse in sé un fenomeno episodico ma piuttosto caratterizzato da una tendenza all’espansione. Comparando il momento attuale con i suoi studi precedenti su questo argomento quali riflessioni si possono trarre in merito a questo tema?
Daniele Albertazzi: Credo si possa dire che nel libro Populists in Power fossero presenti alcune intuizioni corrette: forse non su tutto, ma certamente su diversi punti. Quando venne scritto, tra il 2010 e il 2015, era ancora in corso il dibattito sulla misura in cui il populismo fosse destinato a durare in Europa. Vi era, del resto, l’autorevole precedente del libro di Paul Taggart (Populism, 2000) che vedeva nel populismo un fenomeno transitorio e destinato a parabole ascendenti e discendenti molto rapide. Penso si possa dire, alla luce di quanto è avvenuto, che il populismo stia dimostrando una notevole persistenza: ci sono in Europa – non solo in Italia – esempi di partiti che hanno mantenuto caratteristiche populiste per decenni. Sono spesso rimasti tali anche dopo aver ricoperto responsabilità di governo. Pensiamo ad esempio ai casi ungherese e polacco, di cui oggi giustamente si discute molto. Ma vi sono anche altri casi: l’Unione Democratica di Centro in Svizzera, i Veri Finlandesi, i governi sostenuti da Geert Wilders in Olanda, i governi conservatori sostenuti con appoggio esterno dal Partito del Popolo danese tra il 2000 e il 2010, il caso della Norvegia. Guardando invece al populismo di sinistra sono molto interessanti l’esempio greco di Syriza e quello spagnolo di Podemos. Quest’ultimo rappresenta uno dei pochissimi casi in cui un partito si autodefinisce “populista”, seguendo l’insegnamento di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Dunque, se possiamo considerare chiusa una prima fase del dibattito nella quale si dava per scontato che i populisti sarebbero spariti, ci sono altri temi, trattati nel libro, che meritano un ulteriore approfondimento. Ad esempio, il fatto che dal punto di vista organizzativo molti partiti populisti siano organizzazioni solide, che hanno investito sul radicamento con risultati positivi. Oltre al caso della Lega, che oggi ha una struttura più leggera che in passato ma continua ad essere molto presente, almeno in certi territori del Nord, ci sono tanti esempi di partiti che investono sulla presenza territoriale, si pensi solo al caso di Vlaams Belang nelle Fiandre. Guardando più in generale al panorama dei partiti populisti in Europa, un caso che non si può non ricordare è quello francese. Ad ogni elezione presidenziale i mass media internazionali agitano la possibilità di una vittoria di Marine Le Pen. Che non si materializza perché il sistema politico francese è costruito in modo da escludere i candidati più radicali, ma la sola plausibilità di questa eventualità è un fatto molto significativo che conferma, ancora una volta, come il populismo sia destinato a restare e ad influenzare la politica in Europa per molti anni.
Qual è il rapporto che intercorre tra populismo e democrazia rappresentativa?
Daniele Albertazzi: L’aspetto più interessante riguarda il dibattito sulla possibilità di concepire oggi una democrazia diversa da quella liberale. Secondo diversi osservatori, questa possibilità non esiste. Per questo suscita talvolta discussioni, ad esempio in Ungheria, la mia tesi per la quale i populisti sono da considerarsi incompatibili con la democrazia liberale, ma non con la democrazia tout-court. Si tratta di posizioni comprensibili, da parte di persone che possono toccare con mano questi processi. Si capisce che da questa prospettiva una democrazia non liberale non sia una vera democrazia. Ma se invece è possibile concepire una democrazia che non sia quella liberale, allora si può concepire il populismo come una ideologia compatibile. A questo proposito va ricordato come tutti gli studi condotti su elettori di partiti populisti rivelino come si tratti, in grande maggioranza, di persone che credono nella democrazia. Si potrebbe concepire una “democrazia populista” nella quale al centro venga posta una promessa che la democrazia formula dal tempo dei greci, quella di rappresentare la maggioranza. Certo, i populisti parlano di “popolo” e non di “maggioranza”. In un contesto liberale sono essenziali la divisione dei poteri all’interno dello Stato e l’assoluto rispetto per le minoranze, senza che su questo influisca alcuna considerazione sulla loro consistenza numerica. Sono questi elementi difficilmente accettabili per le forze populiste, che postulano l’esistenza di una cultura e un’identità del popolo che non definiscono nemmeno maggioritaria, ma appunto “del popolo”, e dunque propria di tutti, fuorché di coloro che al popolo non appartengono (a sentire loro). Riepilogando, se riteniamo che possano esistere idee di democrazia diverse da quelle liberali allora il populismo è compatibile con la democrazia e potremmo chiamare “democrazia populista” una democrazia maggioritaria. Se invece riteniamo che non possano esistere democrazie non liberali, perché la democrazia se non è liberale non è vera democrazia, allora il populismo diventa incompatibile tout court con la democrazia.
Alcuni studiosi hanno teorizzato che il populismo sia da considerare come una minaccia per la democrazia. Altri invece hanno espresso perplessità su questa idea. Qual è la sua prospettiva in proposito?
Daniele Albertazzi: A mio avviso non c’è dubbio che i populisti abbiano sollevato temi convenientemente ignorati dalle forze politiche e siano riusciti ad allargare la partecipazione politica ed elettorale, anche riportando al voto settori della popolazione che se ne erano allontanati. L’esempio lampante è il referendum sulla Brexit. A prescindere dalle posizioni che si possono avere in merito, occorre prendere atto della partecipazione, avvenuta in quel caso, di milioni di persone che successivamente hanno smesso nuovamente di votare. Ci sono inoltre temi che gli oppositori del populismo hanno erroneamente trascurato, essendo poi costretti a riprenderli, pur con scarso entusiasmo. Pensiamo al periodo di austerità generalizzata in Europa, rispetto al quale i populisti di sinistra hanno avuto il merito di porre la questione “a cosa serve l’Unione Europea?”, aprendo così un dibattito che poi si è ampliato sulla possibilità che l’Unione possa diventare qualcosa di diverso – e di più – di un meccanismo che consente il commercio tra Stati. I populisti di sinistra hanno costretto gli altri partiti a porsi la domanda. Si tratta di un elemento che è oggi un assunto condiviso. I populisti di destra, invece, hanno spinto gli altri partiti a porsi il problema della condizione degli abitanti delle periferie, che in tempi molto rapidi hanno assistito ad un cambiamento radicale della realtà che li circonda e che faticano a convivere con persone che hanno culture o linguaggi che non riescono a comprendere. Allo stato attuale si fatica a trovare delle risposte a queste inquietudini, e tuttavia esistono modi lontani dal radicalismo e dall’estremismo di destra per affrontare questa situazione, se la si vuole affrontare. Su diversi temi, dunque, i populisti, con la loro retorica spesso brutale, hanno costretto gli altri partiti a focalizzarsi su temi che avrebbero preferito ignorare. Se questo possa essere considerato un contributo positivo per la democrazia, resta sempre il problema menzionato prima, sulla misura in cui la dimensione liberale sia consustanziale o meno alla democrazia. Se si concepisce la democrazia in termini di democrazia liberale, allora i rischi derivanti dal populismo sono certamente più grandi dei suoi supposti vantaggi. Tendo a concordare con questa posizione, ritenendo che i rischi che si sono manifestati negli ultimi anni siano evidenti e gravi.
L’emergenza pandemica e la difficile situazione a livello internazionale hanno messo a dura prova le democrazie rappresentative, sia a livello mondiale che, nello specifico, europeo. In che modo i nuovi scenari potrebbero creare condizioni favorevoli o sfavorevoli per gli attori populisti?
Daniele Albertazzi: Non mi aspetto che nel futuro prossimo la questione della pandemia possa recuperare quella valenza politica che sicuramente ricopriva uno o due anni fa. Il Covid-19 è stato, allo stesso tempo, una benedizione e una maledizione per i partiti populisti. È stata una maledizione perché molti cittadini si sono rivolti agli scienziati e alle élite per trovare delle risposte. Ha, in altre parole, costretto anche attori tendenzialmente anti-elitisti ad abbracciare in molti Paesi la vulgata, cioè la necessità di attenersi alle istruzioni proposte da scienziati e istituzioni. Il tema dell’atteggiamento delle forze populiste nei confronti degli scienziati è molto rilevante. Lavorando con ricercatori attivi in Svizzera, in Belgio e in Finlandia, ci siamo resi conto molto chiaramente di come, anche in altri Paesi, la pandemia sia risultata molto complicata da gestire per i populisti. In Italia, cinque anni prima della pandemia il Movimento 5 Stelle aveva posizioni molto più marcatamente no vax. Quando, invece, il Movimento si è dovuto confrontare con una situazione concreta, come quella della pandemia, si è tendenzialmente allineato con il sentire comune. Anche Lega e Forza Italia hanno espresso posizioni ambivalenti su questo tema e hanno dimostrato una pressoché totale mancanza di coerenza. Va, d’altra parte, riconosciuto come si trattasse di una situazione obiettivamente difficile da gestire. Anche in Paesi come il Belgio e la Finlandia, i populisti, pur formulando critiche nei confronti di misure specifiche, hanno faticato a proporre una strategia alternativa rispetto alla linea seguita dai governi. La situazione di crisi energetica attuale, invece, con il repentino aumento del costo delle bollette, che creerà difficoltà economiche a moltissime persone, può rappresentare una prospettiva molto appetibile per gli attori populisti, offrendo numerosi argomenti e spunti alle forze di opposizione. Naturalmente, nel caso di forze populiste al governo, come la coalizione di destra in Italia, la situazione sarà, invece, molto difficile. In generale, dunque, quello attuale è un momento che offre numerose opportunità per chi è all’opposizione e grandi pericoli per chi è al governo.
Quale rapporto esiste tra estrema destra e populismo di destra?
Daniele Albertazzi: Vi è una notevole confusione tra queste due categorie. L’estrema destra, a mio avviso, non è necessariamente populista, anzi tendenzialmente fatica ad esserlo. L’estrema destra è incompatibile non solo con la democrazia liberale, ma con la democrazia in generale, muovendo da una concezione dell’élite che è molto diversa da quella dei populisti. Nell’ideologia fascista è presente un culto dell’élite, considerata non come aristocrazia di nascita, almeno in teoria, ma come composta da coloro che hanno interiorizzato pienamente i valori del partito e della nazione. Chi si mette al servizio della comunità e ha una comprensione di tali valori che è superiore a quella della persona comune, inevitabilmente, secondo tale visione, è destinato a guidare. Il populista di destra adora e mitizza il popolo, mentre il fascista e il nazista ritengono che al popolo si debba dare voce solo nei limiti in cui comprende e accetta il suo destino e lo spirito della nazione. Quindi nell’ottica di estrema destra (per esempio nel caso del fascismo) è il popolo che deve accettare questo messaggio che gli arriva da un’élite. Questo richiedeva un complicato sistema educativo, mediatico e propagandistico che mirava a plasmare quell’uomo nuovo che si riteneva dovesse emergere. Il populismo afferma, invece, che il popolo vada bene così com’è, che le sue caratteristiche siano giuste e non debbano essere corrette o modificate: non c’è nessuna idea di uomo nuovo. A mio avviso è una differenza molto importante da un punto di vista ideologico, che si traduce anche in un’adorazione dello Stato da parte dei fascisti, a cui i populisti rispondono invece con tanta diffidenza.
Nel corso del tempo lei si è spesso occupato dell’aspetto organizzativo dei partiti populisti e non. Come si sono evoluti i partiti populisti? In che modo il populismo ne ha influenzato l’evoluzione?
Daniele Albertazzi: Per rispondere a questa domanda, oltre alla dimensione storica occorre ragionare sul piano geografico. Ci sono contesti, come il Sudamerica, in cui sicuramente le forze populiste sembrano aver adottato, almeno all’inizio, la forma di movimenti più che di partiti strutturati. Ci sono, invece, contesti come quello europeo in cui la forma partito strutturata e legata strettamente ad organizzazioni parallele – giovanili, femminili e culturali – è molto radicata e quindi in questo contesto la maggioranza, anche dei populisti, ha abbracciato una forma di partito più organizzata. Oggi la principale novità è rappresentata dalla diffusione dei social media, largamente impiegati da partiti populisti come Podemos e Movimento 5 Stelle, esempi estremamente interessanti di questo rapporto. Le nuove tecnologie sono infatti fortemente compatibili con l’ideologia populista, che propone l’illusione della possibilità di fare a meno dell’intermediazione dell’élite mediatica e di comunicare direttamente col popolo. Però lo sfruttamento di tali tecnologie non è prerogativa esclusiva dei populisti. In Italia vi sono esempi di leader che non possono essere definiti populisti ma che hanno saputo sfruttare molto bene i social media. Pensiamo a Matteo Renzi. La questione è, comunque, in generale molto interessante e andrebbe studiata maggiormente. In particolare, sarebbe da approfondire l’effetto e l’impatto che i social media hanno sulle organizzazioni di partito in generale.
Quali tipologie di populismo sono emerse in Italia nel corso dell’ultimo decennio? E con quali differenze? Ognuno di questi tipi di populismo quale tipo di rapporto ha avuto con i meccanismi democratici del Paese?
Daniele Albertazzi: A mancare in Italia è stato soprattutto un populismo di sinistra classico, paragonabile a Syriza o Podemos. Questa potenzialità è stata assorbita dal Movimento 5 Stelle. A questa tipologia si potrebbe, in realtà, ascrivere Potere al Popolo, ma si tratta di una realtà che è rimasta poco influente. Per quanto riguarda la natura del Movimento 5 Stelle, è molto difficile chiarirla. Non si tratta di un partito di centro, né esclusivamente di un partito di sinistra, anche se, soprattutto negli ultimi anni, per motivi anche strategici, si è tendenzialmente posizionato in quello spazio. Attualmente si potrebbe ascriverlo al populismo di centrosinistra, ma questa caratterizzazione non ne esaurisce la natura. Vi è del resto stato un cambiamento: cinque anni fa erano presenti elementi di destra molto più evidenti. La difficoltà di caratterizzarli deriva anche da caratteristiche specifiche di un Movimento che non tiene congressi propriamente detti. Si potrebbe allora prestare attenzione a quanto dichiarato dal leader, ma il leader fondatore non coincide con il leader attuale. Quale importanza si dovrebbe attribuire oggi ai pronunciamenti di Beppe Grillo? Sono tutti aspetti che andrebbero preliminarmente chiariti per condurre un’indagine su questa forza. Spostando l’attenzione sui partiti di centrodestra e di destra, si osservano due principali ideologie. La prima, molto ondivaga e cangiante, è quella di Forza Italia, la quale può diventare più radicale o moderata a seconda delle fasi. La seconda, invece, è ben caratterizzata dall’espressione populist radical right ed è propria della Lega e di Fratelli d’Italia, che ideologicamente, se seguiamo almeno l’idea di Lega di Salvini, ormai sono pressoché la stessa cosa. Le ragioni principali del successo delle forze populiste in Italia sono da ricondurre a mio avviso a due fattori: lo scarso livello della classe politica e la pluridecennale stagnazione economica del Paese. Questo ha creato un contesto molto favorevole all’emergere del populismo, che ha potuto poi essere diversamente declinato a destra o a sinistra.
Il populismo è oggetto di un forte interesse nell’ambito della ricerca accademica, che ha portato ad una produzione estremamente ampia sull’argomento. Quali valutazioni è possibile fare oggi sull’evoluzione di questa branca di ricerca? Vi sono elementi che, a suo avviso, andrebbero approfonditi maggiormente?
Daniele Albertazzi: Vi è effettivamente un’attenzione crescente per il tema, giustificata in parte dalla sua importanza. Ci sono due elementi che, a mio avviso, sarebbe interessante studiare e ai quali personalmente intendo dedicarmi. Il primo riguarda la questione del genere, non intesa esclusivamente in relazione al tema della partecipazione femminile, ma in generale anche con riferimento alle sue molteplici dimensioni. Sarebbe interessante capire in che rapporto questa dimensione possa essere con le ideologie populiste. Sembra essere abbastanza compatibile con i populismi di sinistra. Ma può esserlo anche con quelli di destra? Si tratta di forze che attraggono sempre di più l’elettorato femminile e, in diversi casi, danno anche crescente spazio alla leadership femminile, non solo in posizioni apicali, ma anche a livello più trasversale. Si tratta di un dato interessante per partiti che si tende a considerare come misogini – anche se probabilmente in questo ambito influiscono le caratteristiche dei diversi Paesi, al Nord o al Sud dell’Europa. Un discorso analogo vale anche per l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Diversi partiti in Europa stanno cercando di dare risposta ai grandi cambiamenti in corso, anche se restano questioni controverse al loro interno: pensiamo alle veementi polemiche nei confronti della presunta ideologia gender. Il secondo elemento che a mio avviso dovrebbe essere oggetto di maggiori studi riguarda l’organizzazione partitica. È un ambito molto importante che è, però, poco studiato, per la difficoltà di svolgere tali ricerche, più costose rispetto all’analisi del discorso e della comunicazione, perché è necessario entrare dentro le organizzazioni di partito. Come accennavamo, uno degli aspetti maggiormente meritevoli di approfondimento è quello degli effetti dell’adozione delle nuove tecnologie di comunicazione sulle organizzazioni partitiche. Occorrerebbe su questo portare alla luce dinamiche che potrebbero rivelarsi di grande interesse, non solo per le forze populiste, ma per le organizzazioni politiche in generale.