Populismo come dittatura della maggioranza
- 01 Novembre 2014

Populismo come dittatura della maggioranza

Scritto da Rosa Fioravante

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Il populismo non é solo un fenomeno collaterale alle moderne democrazie, ma é connaturato all’ impianto democratico stesso. A seconda del grado in cui esso si sviluppa, in cui da carattere deteriore del sistema diviene costume, costituisce la via maestra attraverso la quale le democrazie si trasformano in dispotismi, spesso nella totale salvaguardia delle apparenze di sovranità popolare del regime.

I teorici del liberalismo classico[1], all’ indomani della rivoluzione francese, accettato il principio della sovranità popolare, stabiliti con il regime democratico il suffragio universale (prima maschile poi universale) e il principio della decisione secondo voto di maggioranza, si trovarono nella necessità di ripensare le istituzioni democratiche onde evitare che i singoli e le minoranze fossero schiacciati dalla “dittatura della maggioranza”; pericolo particolarmente sentito a causa dell’ estensione dei medesimi diritti civili a tutto il corpo politico, il quale però presenta infinite differenze dal punto di vista sociale.

Il potere, che quando é assoluto é sempre dispotico, per sua natura tende a concentrarsi; in democrazia esso nasce al massimo della sua diffusione, ma tende poi a coagularsi sempre più. Più il governato si disinteressa della cosa pubblica ed é pigro nel controllare i governanti, più tale accentramento risulta semplice, ecco perchè nelle moderne democrazie rappresentative vi è esigenza di porre limiti istituzionali a tale processo. Ci ricorda infatti Constant che “la libertà degli antichi”, la quale consisteva nel solerte prendersi cura della cosa pubblica tramite l’istituto della democrazia diretta (solerzia resa possibile dal ristretto numero di coloro che godevano dei diritti politici e dalla presenza di schiavi per attendere alle mansioni di sussistenza quotidiana), é stata sostituita dalla “libertà dei moderni” la cui maggiore preoccupazione é trarre godimento dalle proprie attività private e occuparsi della dimensione pubblica quel tanto che basta per scegliere i propri rappresentanti, pagati per occuparsene il resto del tempo. Per altro, nei moderni stati nazionali, la democrazia diretta, oltre che impossibile, sarebbe dannosa a causa dei grandi numeri all’ interno dei quali la voce del singolo costituirebbe un apporto marginalmente trascurabile a pertanto inascoltato.

In tali condizioni nessuna democrazia può preservare la libertà dei suoi cittadini senza una sorta di potere neutro e arbitro che stia prima e fuori dall’ agone dello scontro politico quotidiano; questo concetto é uno di quelli fondanti dello “stato di diritto”, che ritroviamo affermato e salvaguardato tramite l’ istituzione della carta costituzionale[2].

Non avendo il cittadino nè tempo nè modo di controllare efficiaciemente il potere, esso viene limitato dalla presenza di altri poteri che si sorvegliano vicendevolmente tramite un sistema di checks and balances; il decentramento istituzionale che porta i centri decisionali più vicini al territorio e li rende così più facilmente controllabili ne è una declinazione.

Facendo un passo oltre il pensiero classico, trovo fondamentale annoverare qui fra i metodi istituzionali di tutela delle minoranze, l’ implementazione di un sistema elettorale di tipo proporzionale che garantisca fedele rappresentatività alle preferenze del paese.

Gli accorgimenti sopraelencati servono ad evitare che qualcuno, rivendicando di avere con sè “la volontà popolare” possa arrogarsi il diritto di concentrare più potere del dovuto nella propria persona e piegare il gioco democratico ad una condotta personalistica del governo; populismo é innanzitutto rivendicare che una parte – coloro che danno consenso al populista – sia un tutto. Tale rivendicazione é resa più semplice dal fatto che la parola popolo ha una doppia connotazione: può indicare sia il popolo nella sua interezza (depositario della legittima sovranità) sia una parte di esso, convenzionalmente la più povera e umile e, frequentemente, anche la più numerosa.

Con la fine dell’ illusione rousseana di restaurazione della democrazia diretta, nella quale ciascuno aliena la propria sovranità allo stato perchè attraverso l’ esercizio diretto della sovranità stessa la riceve indietro, la nozione di popolo come “tutto” ha perso la sua immediata coincidenza con il diritto per chi da esso viene investito del diritto di governare di disporre di un potere assoluto. Nell’ ambito della democrazia rappresentativa la nozione di popolo utilizzata, dovrebbe sempre risuonare a chi la ascolta non solo nella sua connotazione parziale, ma anche sempre da riterritorializzare, poichè non si riferisce più a quella parte (la più umile e numerosa) quale gruppo socialmente omogeneo: coloro che votano tramite blog i candidati alle elezioni europee sono “il popolo della rete”, i meno abbienti e gli sfruttati sono di volta in volta “il popolo delle partite iva”, “dei cassa integrati” ecc. si può essere contemporaneamente parte del “popolo delle donne” e di quello dei “precari”. Esistono ancora le classi sociali, ma il popolo inteso come classe subalterna é diventato al suo interno assai più composito di come era quarant’ anni fa. Associazioni, partiti, sindacati rappresentano di volta in volta le istanze di questi molteplici popoli, che attraverso la socializzazione delle rivendicazioni riescono a far pervenire la propria voce presso le sedi istituzionali.

Lo aveva intuito già Alexis de Tocqueville, quando nell’ ‘800 durante il suo viaggio in America si confrontava con le caratteristiche sociologiche che il regime democratico sviluppatosi là aveva indotto; egli dice che il nuovo dispotismo avrà il volto di un potere paternalistico, che governa su una miriade di cittadini occupati solo a prendersi cura di sè o al massimo della propria famiglia e di una ristretta cerchia di amici, incoraggiati da tale potere a divertirsi piuttosto che ad occuparsi della cosa pubblica. Tale processo é perfettamemte compatibile con la tenuta del regime democratico perchè viene salutato con favore da coloro sui quale si estende e l’ unico antidoto all’ ascesa di questo nuovo dispotismo é il proliferare di associazioni.

Quello che Tocqueville indica come obiettivo del potere dispotico – isolare sempre più l’ individuo nella propria dimensione privata atomizzandolo fino a quando egli si senta completamente deresponsabilizzato nei confronti della sfera pubblica – é anche la carta vincente del populista: convincere il cittadino che esista un abisso fra sé e chi lo governa. Il raggiungimento dell’ obiettivo é agevolato dalla corrosione del principio di delega (poiché senza corpi intermedi é più difficile condizionare le decisioni del governo, che non vengono più riconosciute come emanazione di un processo al quale si é attivamente preso parte), e dalla ipersemplificazione del discorso pubblico, atta a indurre nell’ individuo sentimenti di insofferenza per tutto l apparato burocratico: non solo quando esso si presenta come macchina inceppata dall’ inefficienza, ma anche quando si istanzia nel normale processo decisionale fra attori plurali, considerato “spreco di tempo”; tale rigetto di corpi intermedi e procedure formali rende l’ elettorato più incline a legittimare l’ intervento diretto dell’ unica figura pubblica che gli é familiare (grazie ad un’ assidua presenza nei media ecc), quella che si avvale dello status di unico capo al comando, il quale sempre si presenta come colui che attraverso il proprio di dinamismo può sconfiggere la palude burocratica, garantendo decisionismo e immediatezza nell’ applicazione della “volontà del popolo” che egli interpreta e incorpora. Nella finzione mediatica populistica il dialogo fra il leader e “la gente” avviene attraverso un processo bilaterale bottom up che bypassa i corpi intermedi, e top down nel quale il depositario di tale volontà popolare la sollecita e le risponde parlando a quella che viene considerata fin dall’ antichità “la pancia dell’ elettorato” (con una metafora che si potrebbe, senza fargli torto, far risalire a Platone, se é vero, come egli sosteneva, che l’ anima umana é tripartita e che corrispondendo ogni sua parte ad un tipo di costituzione politica, il regime democratico sia quello che corrisponde alla parte appetitiva, quella che decide più secondo istinto che ragione e che ha sede nelle “parti basse”).

Gli argomenti fin qui citati provengono da una tradizione convenzionalmente considerata “di destra” poichè essa pone l’ accento sulla libertà negativa, “libertà da” (dal controllo statale, dal conformismo sociale ecc).

Ma come scriveva Bobbio “in nessun paese al mondo il metodo democratico può perdurare senza diventare un costume” e l’ unico modo per renderlo costume é educare il cittadino, sia rispetto a un buon livello di cultura generale e sia nello specifico fornendogli strumenti base di alfabetizzazione politica ed educazione civica, in particolare riguardo alla pratica democratica, poichè questa lo vede protagonista. É in questo passaggio che diviene determinante la “libertà di”, tradizionalmente considerata di sinistra, come positiva possibilità di accesso a condizioni di benessere. In particolare declinata nelle forme, già trattate, di libertà di associazione, libertà di avere un orario di lavoro tale da lasciare tempo libero anche per l’ approfondimento del discorso pubblico, e, soprattutto, libertà (nelle forme di concreta possibilità materiale, economica ecc) di procurarsi un’ educazione.

Il successo del populismo é direttamente proporzionale alla mancanza di màthesis[3], quella educazione che permette al soggetto di non rendersi passivo recettore di tutta la chiacchiera dell’ opinione pubblica, né di esserne attiva cassa di risonanza.

In un mondo in cui infinite quantità di informazioni sono prontamente fruibili, il primo mezzo di indottrinamento popolare non é la censura ma l’ elargizione a piene mani di una gran numero di dati. In questo senso é emblematico quanto affermato da Umberto Eco: il web fa bene a chi ha già una buona educazione di base, poichè, tra i risultati di Google egli sa, grazie al proprio pregresso senso critico sviluppato, distinguere cosa é attendibile e cosa no, e sottoporre l’ infinita lista di link apparsi come risultato della ricerca ad una prima scrematura.

Chi invece non possiede un’ educazione di base può senza difficoltà ingurgitare tutto ciò che internet gli dà in pasto, salvo non possedere gli enzimi necessari alla metabolizzazione secondo razionalità ( e spesso anche solo banale principio di realtà), e rigettare tutto in un grande atto di bulimia nozionistica. È impossibile restaurare la democrazia diretta attraverso un’ improbabile democrazia del web senza incorrere nell’ effetto “io so tutto senza mai aver studiato niente”.

Il motivo per il quale la sinistra non riesce più a comunicare con quello che dovrebbe essere il suo corpo elettorale di riferimento, il quale sempre piu vota populisti di varia estrazione pseudoideologica, non é che non sa usare facebook o twitter, ma é da cercarsi nel fatto che quando i comunisti andavano fra gli operai nelle fabbriche insegnavano loro a leggere, a fare di conto: portavano strumenti che nella vita pratica di tutti i giorni ponevano il lavoratore un gradino piu in alto nella scala sociale e un passo piu lontano dalla subordinazione culturale al padrone. Oggi non solo la sinistra non é più pronta ad insegnare, ma nessuno é piu cosi umile da voler imparare, femomeno che molto deve al fatto che la cultura non é piu considerata un veicolo per accedere all’ ascensore sociale. L’ analfabetismo di ritorno (si stima che più del 40% degli italiani non sappiano correttamente comprendere un testo scritto nella loro lingua madre) non é un problema delle maestre che hanno allievi asini ma di tutto il tessuto sociale che disinteressandosi del fenomeno pone la propria tenuta democratica a rischio.

La continua polemica contro i professoroni, alla quale si sono spesso unite anche personalità istituzionali – forse pensando grazie a certe uscite di ricostuire una connessione sentimentale con le masse attraverso il principio del fare comunella all’ ultimo banco – altro non é che il principale epifenomeno dell’ insofferenza alle regole (tradotto politicamente: tutti i processi e le istituzioni del gioco democratico che ne determinano anche le lungaggini) e allo studio, considerato il passatempo degli inutili e degli astratti. Il “fare per il fare” é la nuova pietanza mediocre con il quale il populista riempie gli stomaci di un’ opinione pubblica che, inebetita dalla pigrizia, non ha più voglia di studiare e quindi scegliere fra differenti menù che rispondano in vario modo alla domanda  “fare che cosa?“.

Constant trattando della libertà dei moderni sottolineava la loro prontezza a pagare i propri rappresentanti pur di non doversi occupare in prima persona degli affari pubblici perchè non ne avevano tempo né voglia. Oggi nella maggior parte dei casi non si é più disposti nè a partecipare (se non nelle forme del copia-incolla di link sui social network) né a pagare.

I costi della politica si possono certo tagliare tutti (anche quando, come nel caso del finanziamento pubblico, sono presupposto necessario ma non sufficiente per evitare che la democrazia si trasformi in oligarchia), ma il costo in termini di tempo, sacrificio, costanza, dello studio e dell’ educazione non saranno mai eliminabili dal bilancio del cittadino che non voglia regalare voto e cervello al primo imbonitore di passaggio


[1] Da non confondersi con la teoria economica liberista

[2] E con essa le differenti norme in tema di maggioranza richiesta per cambiarla rispetto a quella richiesta per l’ emanazione di leggi ordinarie

[3] Vocabolo che in greco conteneva nella sfera dei significati riconducibili a “studio” e “razionalizzazione, misura di quantità” anche l’ accezione sia dell’ insegnamento sia del desiderio di imparare.

 

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Scritto da
Rosa Fioravante

Phd Student, Global Studies – Economy, Society and Law, presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”.

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