Scritto da Sofia Scialoja
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Scriveva Ryszard Kapuściński in Viaggio con Erodoto, descrivendo la sua prima impressione del placido e multietnico golfo di Dar-es-Salaam, Tanzania, anni Sessanta, che «quello che più colpiva l’europeo […], non era tanto la scoperta che esistessero altri mondi, quanto il fatto che quei mondi si incontrassero, si mescolassero e convivessero senza la mediazione e, per così dire, senza il benestare dell’Europa». Oggi, allo scoppiare della guerra in Ucraina, l’Occidente si scopre di nuovo nella sua scarsa presa politica rispetto al Sud globale, Paesi africani in primis. In questa conversazione con Souleymane Bachir Diagne – noto filosofo senegalese, docente alla Columbia University di New York e specialista della storia della scienza e della filosofia islamica – abbiamo cercato di interpretare il comportamento dei Paesi africani, in particolare dell’area francofona, nella nuova riconfigurazione geopolitica mondiale, provando a leggerlo in relazione al panafricanismo e all’idea di Stato-nazione nel continente africano.
Come interpretare il voto degli Stati africani alle diverse risoluzioni sul tema Ucraina[1] proposte dall’Assemblea Generale dell’ONU?
Souleymane Bachir Diagne: Se si guarda al voto delle risoluzioni sul tema Ucraina dell’Assemblea Generale dell’ONU, ci si rende conto che il blocco africano può votare portando avanti i propri interessi. Un evento, a mio avviso, rivelatore. Il posizionamento dei Paesi africani ha un che di oscillatorio e segue due logiche diverse, in funzione del contenuto delle risoluzioni proposte. Da un lato, il voto sulla prima risoluzione sulla condanna dell’aggressione russa dell’Ucraina, a marzo 2022, così come sulla risoluzione proposta a febbraio 2023, sulla proposta di reiterazione della richiesta di ritirare incondizionatamente le forze militari russe, sono contrassegnate dall’astensione[2] di buona metà dei Paesi africani – quello che è stato considerato un “non allineamento” dalla controparte occidentale. Interpretando il contenuto della risoluzione in chiave politica e strategica, molti Paesi si sarebbero infatti rifiutati di sanzionare e isolare la Russia. In questo senso, la neutralità dei Paesi africani presenta diverse sfumature. Alcuni Paesi, in effetti, beneficiano di quello che è stato l’URSS; ne è un esempio il Sud Africa. Il Congresso Nazionale Africano[3] è infatti stato sostenuto dall’URSS negli anni dell’apartheid – cosa che gli europei non hanno fatto, rifiutandosi all’epoca di sanzionare il Paese. Stessa cosa per altri Paesi, come la Guinea e il Mali – che, dal canto suo, sta effettivamente stringendo rapporti sempre più stretti con la Russia. Si tratta dunque di profondità storiche che permangono. E la Russia sfrutta, al giorno d’oggi, la possibilità di presentarsi in Africa come l’erede diretto dell’URSS – cosa falsa, dato che le velleità imperialistiche di Putin non corrispondono allo spirito di internazionalismo dell’URSS. Un’altra prima spiegazione del posizionamento di neutralità di alcuni Paesi africani è l’aver relegato il conflitto russo-ucraino ad affare europeo, a dilemma esistenziale della NATO. A questo si aggiunge il tema dei rifugiati ucraini – e il malcelato razzismo dei Paesi limitrofi, Polonia in primis, nei confronti dei rifugiati neri provenienti dall’Ucraina, rispetto al quale gli africani hanno percepito l’applicazione di una logica di “due pesi, due misure”. Personalmente sostenevo una condanna basata su dei principi. Ma se si vuole comprendere la logica dei voti, si può, in un primo momento, partire da tali elementi.
È d’accordo sul fatto che, inizialmente, tale posizionamento poteva spiegarsi in larga misura dal rigetto dell’approccio “due pesi, due misure” misto ad una prudenza pragmatica dettata dalle conseguenze economiche, potenzialmente devastanti, che sarebbero – e che sono – state generate dalla guerra (crisi alimentare e inflazione in primis). Un approccio che segue il famoso motto “se due elefanti combattono, è l’erba a soffrire” …
Souleymane Bachir Diagne: Certo; è un modo per interpretare, ad esempio, la visita di Macky Sall (Presidente del Senegal e già Presidente in esercizio dell’Unione Africa, ndr) a Putin, per provare a sbloccare la situazione dei cereali – prima dell’accordo sancito tramite Ankara. Quello di Sall è un esempio di pragmatismo. Che fra l’altro si sposa con un altro pragmatismo, che è quello europeo; i Paesi europei, infatti, hanno applicato delle sanzioni progressive, senza tagliare totalmente in ponti. L’India è un altro esempio.
Dopo la presa di posizione neutra di alcuni Paesi africani, molti dei loro partner (Stati Uniti, Russia, Paesi europei) hanno iniziato, o rafforzato, un corteggiamento nei loro confronti. A suo avviso, c’è stato da parte africana un momento di realizzazione del fatto che la neutralità non solo conveniva in una prospettiva di auto preservazione, ma che conveniva anche, più in generale, al livello politico?
Souleymane Bachir Diagne: L’Africa è diventata, in qualche modo, la nuova frontiera del capitalismo internazionale, e, come dice lei, oggetto di corteggiamento delle varie potenze mondiali. Nonostante l’astensionismo dei vari Paesi vada interpretato in modo diverso, si può comunque notare un trend al livello continentale. Diversificazione dei partenariati economici, partecipazione indiscriminata ai summit organizzati da partner rivali… Fra l’altro, se si guardano agli investimenti dei Paesi europei in modo dettagliato, si può notare che le principali destinazioni non sono più le loro ex colonie. I principali partner sub-sahariani della Francia sono, ad esempio, la Nigeria e l’Angola[4]. L’Africa stessa gioca dunque con tale diversificazione. La partecipazione ai summit Africa+1 indica un’attitudine generale che è quella di tirar profitto dal migliore offerente. Tutti elementi che corroborano l’idea di uno specifico posizionamento africano nel nuovo mondo multipolare. Alcuni lo chiamano “non allineamento”, ma penso si tratti di un anacronismo: il Movimento dei non allineati è nato a Belgrado nel 1961, e non era la stessa cosa.
A suo avviso, la differenza nel modo di intendere “non allineamento” oggi rispetto al periodo della Guerra fredda è dettata unicamente da una modifica del mondo esterno all’Africa (ovvero il fatto che il mondo attuale non sia più bipolare, ma multipolare) o dipende anche da una differenza interna all’Africa?
Souleymane Bachir Diagne: Entrambe. Il mondo oggi è multipolare, non esiste una dicotomia tra la Russia e l’Occidente; ci sono Paesi come la Cina o la Turchia che giocano il proprio gioco. In Africa, alcuni Paesi come il Marocco sono in concorrenza, ad esempio, con la stessa Francia. Il settore bancario senegalese, ad esempio, è al giorno d’oggi più marocchino che francese. Poco tempo fa, si soleva dire “attenzione, africani, il (neo) colonialismo cinese sarà peggio di quello precedente” … come se gli africani fossero dei bambini, come se loro unica scelta fosse decidere da chi farsi “mangiare”. Molte élite africane oggi sono perfettamente coscienti del gioco geopolitico in atto sul proprio continente. Non sono ingenue rispetto alla Cina, né rispetto alla Russia… ovviamente sanno che la Cina li sta indebitando, e provano a navigare di conseguenza.
Come ha detto poco innanzi, il voto africano all’ONU ha un che di oscillatorio. Nell’ottobre 2022, infatti, il voto sulla condanna dei referendum russi nelle regioni ucraine occupate ottiene un risultato diverso dal primo voto e dai voti che seguiranno: una quindicina di Paesi africani cambiano posizione schierandosi contro la Russia. Come si spiega?
Souleymane Bachir Diagne: La logica cambia: il voto è pensato in funzione al contenuto stesso della risoluzione, e non più al livello di posizionamento politico internazionale, ed è volto alla preservazione dei principi di integrità territoriale espressi nella Carta dell’ONU. Principi che emanano dal concetto stesso di Stato-nazione, un modello politico che tutti gli Stati africani hanno acconsentito controvoglia a adottare nel loro passaggio all’indipendenza.
Per l’appunto, come espresso dall’Ambasciatore del Kenya presso le Nazioni Unite durante il Consiglio di sicurezza qualche giorno prima dell’invasione dell’Ucraina, l’accettazione delle frontiere coloniali da parte dei Paesi africani segue anch’essa una logica pragmatica, per quanto cosciente della propria assurdità. Come giustificare l’adozione – e la conseguente difesa, come si è visto al voto ONU – di principi quali la sovranità statale e l’integrità territoriale, in quanto derivanti dal retaggio coloniale?
Souleymane Bachir Diagne: Bisogna collocarsi, in primo luogo, nel contesto immediatamente successivo all’indipendenza degli Stati africani. Il divieto di annessione e l’intangibilità dei confini sono uno dei pilastri dell’Organizzazione dell’Unità Africana[5], fondata nel 1963. La domanda che si pone all’epoca è la seguente: conviene accettare la divisione dei territori nuovamente indipendenti così come sono stati disegnati dalle potenze coloniali – male, quindi, trasformandoli in Stati-nazioni, nonostante la loro assurdità? Ora, sebbene le frontiere di retaggio coloniale dividano degli insiemi precedentemente coerenti sia culturalmente che economicamente, i neonati governi africani si concordarono sulla loro intangibilità per evitare delle guerre generalizzate. Conflitti che, fra l’altro, si sono effettivamente verificati in alcuni casi – con il Biafra, ad esempio, o con la secessione – di successo – dell’Eritrea e del Sud Sudan. Ma senza l’adozione di questa regola, ci sarebbe stata una guerra generalizzata. Tale compromesso, che segue dunque una logica di auto-conservazione, fu il risultato di un ampio dibattito, legato al primo panafricanismo continentale, portato avanti da personaggi come Kwame Nkrumah, primo Presidente del Ghana e Léopold Sédar Senghor, primo Presidente del Senegal, che supportavano un modello federale e un’unione politica al livello continentale più forte, contrari alla balcanizzazione dei territori coloniali. Un discorso, dunque, che prevedeva il superamento dello Stato coloniale non tramite la rettificazione delle frontiere, ma tramite delle logiche federali sovranazionali, che segue la logica del motto di Nkrumah, “Africa must unite”: un processo dall’alto, ovvero quello che è chiamato panafricanismo.
Dopo sessant’anni, il concetto di panafricanismo permane. Come si è evoluto? Qual è il suo rapporto attuale al modello vestfaliano di Stato-nazione – e, allo stesso modo, al superamento di quest’ultimo in vista di un modello sovranazionale, il quale unico esempio al mondo è, per ora, l’Unione Europea?
Souleymane Bachir Diagne: Il concetto permane in modalità differenti. In primo luogo, l’europeizzazione del mondo come effettiva universalizzazione di un certo modello politico è innegabile, così come è innegabile l’esistenza stessa degli Stati-nazione. Per quanto Senghor avesse potuto lottare contro la balcanizzazione, la consolidazione degli insiemi territoriali corrispondenti agli Stati coloniali, in parte, funziona. La volontà di “liberarsi” dello Stato-nazione africano non ha senso; come anche il discorso romantico di “lasciare fare al popolo, che inventerà modelli diversi”. L’alternativa del panafricanismo odierno, o perlomeno quello nel quale mi colloco e difendo, è l’adozione paziente di strutture confederali, che possano offrire un superamento del modello di Stato-nazione. Tutti i grandi insiemi sono orientati verso questo, Europa in primis. L’Africa sarà coinvolta nella stessa logica. Logiche simili, dunque, dal momento che gli attori sono anch’essi Stati-nazione. Si tratta dunque di un panafricanismo portato avanti dal progetto soggiacente all’Unione Africana, con una progressiva messa in comune di politiche pubbliche, la quale iniziativa più importante, ad oggi, è la zona di libero scambio (Trattato di Libero Commercio Continentale Africano – AfCFTA). Un panafricanismo non più romantico, ma di stampo pragmatico, di matrice soprattutto economica. Un progetto, fra l’altro, che non si fonda soltanto sull’integrazione al livello continentale, ma che si basa anche sulla costruzione di macroregioni, portate avanti dalle comunità economiche regionali[6]. Ad esempio, seguendo questa logica, nello spazio della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), il Gabou, una realtà economico-sociale che comprendeva il Gambia, la regione senegalese della Casamance e il Guinea-Bissau, potrebbe ristabilirsi – se ha ancora un senso e una coerenza. Questo grazie alla convergenza di due movimenti, uno dall’alto – ovvero, l’integrazione panafricana o regionale, e l’altro dal basso – ovvero, la convivenza di etnie e gruppi storicamente prossimi.
Integrazione regionale che presenta però problemi, caso per caso…
Souleymane Bachir Diagne: Ognuna di queste regioni ha ovviamente dei problemi. L’UMA (Unione del Maghreb Arabo), ad esempio, presenta delle forti tensioni tra il Marocco e l’Algeria. Questo ha portato il Marocco, fra l’altro, a richiedere l’adesione a ECOWAS, giustificando la domanda per motivi storici e geografici. La legittimità storica della domanda è a mio avviso valida: l’Africa dell’Ovest ha sempre compreso il Marocco, nel bene e nel male. È il Regno del Marocco ad avere distrutto l’Impero Songhai[7]. Tali continuità storiche hanno oggi un lascito concreto, e il Marocco può dunque rivendicare la sua appartenenza all’Africa occidentale. Ovviamente si tratta oggi per il Marocco di dare una giustificazione politica e culturale al fatto che, economicamente, sta guardando sempre più verso Sud; e, allo stesso modo, di trovare un modo per smarcarsi dalla competizione con l’Algeria.
Prendiamo l’esempio di ECOWAS: il superamento o alleggerimento delle frontiere nazionali porterebbe infatti ad un maggior rischio di infiltrazioni e proliferazione di gruppi jihadisti anche in Paesi che ne sono per ora immuni…
Souleymane Bachir Diagne: Il jihadismo è sicuramente uno dei principali problemi dell’integrazione regionale. Nella regione saheliana, il Senegal è un esempio di Paese ancora immune alla minaccia jihadista che, grazie all’efficienza del suo apparato statale e grazie al controllo capillare esercitato dalle confraternite sufi sia al livello sociale che al livello religioso, ha per ora prevenuto la radicalizzazione della sua popolazione. In questo senso, le confraternite promuovono un certo tipo di cultura religiosa proponendola come integrata ad un insieme sociale strutturato, che fa in modo che i giovani – che si trovano in situazioni economiche particolarmente problematiche, ad esempio – non si buttino nel jihadismo in assenza di punti di riferimento. Ciononostante, la Tijaniyya, una confraternita importante ma non particolarmente numerosa in Senegal, si può trovare anche nel Nord della Nigeria, dove pesa infinitamente di più al livello demografico; ma il Nord della Nigeria presenta grossi problemi legati a Boko Haram. In questo senso, una confederazione panafricana – o ovest-africana – potrebbe essere un modo per generalizzare e rafforzare il sistema delle confraternite, presenti anche in zone di conflitto. Bisogna provare a rispondere ai due lati della medaglia: da un lato, la costruzione regionale, ma ugualmente la sorveglianza dei servizi di intelligence e di sicurezza… Da questo punto di vista, ovviamente, il Senegal è più organizzato del Mali.
Torniamo al concetto di panafricanismo: come distinguere il panafricanismo che difende da quello proposto da alcuni militanti che si autodefiniscono “ideologi panafricanisti del XXI secolo”, quali il franco-beninese Kemi Séba e la camerunese-svizzera Nathalie Yamb – che presentano un ampio seguito sui social e sospetti viaggi e finanziamenti da Mosca? Potremmo qualificarli come “populisti”, peccando dell’utilizzo di una categoria occidentale?
Souleymane Bachir Diagne: Ciò che è fuorviante è il termine “panafricanismo”, che qui viene utilizzato per coprire realtà molto diverse tra loro. Seba e Yamb propongono un’idea di panafricanismo di matrice razziale, che mette al centro il concetto di negritudine – alla stregua dei grandi capostipiti del pensiero post-coloniale, provenienti dalla diaspora afroamericana e caraibica del Nuovo Mondo, quali Aimé Césaire[8]. Una proposta che si potrebbe denominare “pan-negrismo” e che segue, al livello di racconto storico, una retorica afrocentrica, riferita alle origini etniche egiziane dell’Africa sub-sahariana[9], e concependo quest’ultima più vicina all’altra sponda atlantica che al Maghreb, mettendo dunque l’accento sul fatto dell’essere nero, più che sulla costruzione degli Stati Uniti d’Africa. Ben diverso, dunque, dall’idea diciamo “geografica” di panafricanismo di Nkrumah, che prevedeva un’integrazione infrastrutturale dal Cairo a Città del Capo. La proposta di Seba e Yamb è basata su una razzializzazione; si può dunque qualificare di populismo.
Anche perché soprattutto basata, alla stregua di quelli che sono definiti movimenti populisti occidentali[10], su un discorso anti-élite, partendo da una critica della Françafrique…
Souleymane Bachir Diagne: Sono profondamente francesi. È nella loro stessa relazione con la Francia che si gioca questo tipo di panafricanismo; mentre altri tipi di panafricanismo si sono liberati da questo rapporto ossessivo con l’ex potenza coloniale. La mia impressione è che quello di Seba e Yamb sia un movimento che, per esistere, ha fondamentalmente bisogno dell’esistenza stessa della Françafrique – in un momento, fra l’altro, in cui quest’ultima sta di fatto dissolvendosi. Rimarrà nella testa di alcuni nostalgici francesi, e rimarrà nella testa di coloro la cui intera postura è di fatto antifrancese. È dunque necessario distinguere tra questi due panafricanismi, per cui mi identifico maggiormente con il panafricanismo “geografico”.
Tornando alla questione di partenza: che ruolo ha – o potrebbe avere – il posizionamento neutrale dei Paesi africani rispetto al progetto panafricanista?
Souleymane Bachir Diagne: Come abbiamo detto, l’idea di fondo è la diversificazione dei partenariati economici esterni. Questo va di pari passo con la moltiplicazione dei rapporti interni. Parlavano della Cina: l’interesse dei Paesi africani nei confronti della Cina, o della Turchia, ad esempio, è che queste ultime investono nelle infrastrutture. Come abbiamo già detto, il panafricanismo detto “geografico” è di stampo pragmatico: le infrastrutture giocano dunque un ruolo chiave. La connessione fra i vari poli urbani africani tramite le autostrade, ad esempio, fa parte del progetto politico di integrazione. In questo senso, la connettività generalizzata tramite infrastrutture fa sì che il progetto panafricano acquisisca un senso concreto. La moltiplicazione dei rapporti esterni è dunque un modo per far convergere gli interessi dei vari partner internazionali verso un’agenda africana comune, come lo può essere la connettività continentale o l’accordo di libero scambio. La neutralità al livello internazionale riflette dunque un approccio pragmatico – o, come dico io, “opportunista”, che prova a tirare profitto dal migliore offerente, in vista di un obiettivo comune: l’integrazione economica panafricana.
[1] Le risoluzioni alle quali ci si riferisce sono principalmente la risoluzione A/ES-11/L.1, di marzo 2022, intitolata “Aggressione contro l’Ucraina”, e la risoluzione A/ES-11/L.7 di febbraio 2023, intitolata “Reiterazione della richiesta alla Russia di ritirare incondizionatamente tutte le sue forze militari”. A queste si aggiungono la risoluzione A/ES-11/L.4 sulla sospensione dei diritti di appartenenza della Federazione Russa al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, in aprile 2022 (dove i Paesi africani si sono largamente astenuti o erano assenti, e che ha registrato anche un alto numero di voti sfavorevoli); e la risoluzione A/ES-11/L.5, di ottobre 2022, intitolata “Integrità territoriale dell’Ucraina: in difesa dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
[2] Più precisamente, per la prima risoluzione (A/ES-11/L.1), 17 Paesi africani si sono astenuti e 8 erano assenti durante il voto. Per la risoluzione A/ES-11/L.7, 18 paesi si sono astenuti e 7 Paesi erano assenti durante il voto. Astensione e assenza non significano esattamente la stessa cosa: l’astensione è una chiara presa di posizione, mentre l’assenza è più soggetta ad interpretazione – per quanto sia più prossima all’astensione che al voto contrario o favorevole.
[3] Il Congresso Nazionale Africano è il principale partito sudafricano, al governo dal 1994.
[4] Secondo i dati del Fondo Monetario, i principali destinatari sub sahariani degli investimenti diretti francesi (FDI) nel 2021 sono effettivamente l’Angola e la Nigeria (preceduti dal Marocco). In termini commerciali, sebbene i primi partners africani della Francia siano i Paesi del Maghreb, essi sono seguiti dalla Nigeria (in termini di import) e dal Sud Africa (per l’export – vedi il sito “Observatory for Economic Complexities”).
[5] L’Organizzazione dell’Unità Africana è l’organo che precede l’Unione Africana, fondata nel 2002.
[6] Fra queste, si possono elencare: UMA (Unione del Maghreb Arabo); COMESA (Mercato Comune dell’Africa Orientale e Australe); CEN_SAD (Comunità degli Stati Saheliani-Sahariani); EAC (Comunità dell’Africa Orientale); ECCAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale); ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale); IGAD (Autorità Intergovernative per lo Sviluppo – che comprende i Paesi del Corno d’Africa); SADC (Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe).
[7] L’impero Songhai, fondato nel 690 d.C., conosce un momento di massima prosperità ed espansione attorno al XV e XVI secolo. Si sviluppa nel Sahel occidentale, principalmente lungo il corso interno del fiume Niger – comprendendo delle zone degli attuali Senegal, Guinea Bissau, Mali, Burkina Faso e Niger.
[8] Alcuni elementi proposti da Aimé Césaire sono stati ripresi da Senghor stesso. Césaire è stato invece in parte criticato, per quel che riguarda lo scivoloso concetto di negritudine, da Frantz Fanon.
[9] La teoria dell’origine egizia dei popoli sub-sahariani, e sulla “negritudine” del popolo egiziano, faraoni compresi, nasce dalle ricerche proposte da Cheikh Anta Diop, noto storico senegalese. Molte delle sue ipotesi, basate soprattutto sullo studio di testi storici, sul test della melanina realizzato sulla pelle di alcune mummie egizie e sullo studio linguistico (similitudine linguistiche tra il wolof e l’antico egizio) sono state contradette e criticate da studi scientifici più recenti.
[10] Si veda Jan-Werner Müller, Che cos’è il populismo?, Università Bocconi Editore, Milano 2017.