Recensione a: Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 154, 8,50 euro (scheda libro)
Scritto da Matteo Ghergo
12 minuti di lettura
Edito per la prima volta nel 2003, Postdemocrazia di Colin Crouch è uno di quei libri must-have per via della lungimiranza e dell’acuta capacità di analisi storico-politica dell’autore, le quali gli hanno permesso di tracciare un’analisi lucida e rigorosa di quel processo che ha portato all’affermarsi dell’istituzione democratica nelle società occidentali ed ora sembra avviato ad un sempre più irreversibile declino verso una deriva oligarchica. Quasi sotto forma di riassunto, in questo articolo si cercherà di dare una panoramica quanto più ampia possibile di questo piccolo libro che, a distanza di anni, ha ancora molto da dire sul destino della democrazia e sulle logiche del potere economico e politico.
La tesi fondamentale del libro è che nel XX secolo la democrazia abbia compiuto una parabola il cui tracciato ha avuto una fase ascendente prima, raggiunto poi la punta massima e dunque intrapreso una fase discendente che non accenna a fermarsi: a questi tre momenti corrispondono rispettivamente la fase predemocratica, in cui sono deboli o assenti le forme della democrazia, la fase più pienamente democratica in cui l’entusiasmo per la partecipazione politica è massimo ed infine la fase della postdemocrazia, che non può essere definita come un semplice ritorno alla prima fase ma porta con sé l’eredità del suo passato recente mantenendo sì le forme della democrazia – se non addirittura rafforzandole –, ma nella quale la politica rinuncia poco a poco al suo ruolo per cadere in mano alle élite privilegiate, esattamente come accadeva prima dell’avvento della fase democratica.
Nell’analizzare la fase della postdemocrazia e le cause che hanno portato a questo fenomeno, prima di tutto Crouch individua due modelli opposti e ideali di democrazia: la democrazia liberale e la democrazia in senso stretto. La prima insiste sulla partecipazione elettorale come attività prevalente per la massa lasciando un largo margine di libertà alle attività delle lobby (con possibilità assai più ampie di coinvolgimento soprattutto a quelle economiche) e incoraggia una forma di governo che evita interferenze con l’economia capitalista: si tratta di un modello elitario poco interessato al più ampio coinvolgimento della cittadinanza o al ruolo di organizzazioni estranee all’ambito economico; l’accontentarsi di queste richieste minime porta all’affermarsi della postdemocrazia, in cui – descrive l’autore – “anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi, la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve e la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”. Il secondo è invece il modello di riferimento della società democratica in senso stretto e vi è quando aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto ma con la discussione e attraverso organizzazioni autonome, alla definizione delle priorità della vita pubblica; quando le masse usufruiscono attivamente di queste opportunità; quando le élite non sono in grado di controllare o sminuire la maniera in cui si discute di queste cose.
La fase più pienamente democratica vissuta dalla nostra società, il punto più alto della parabola, ha avuto inizio in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale attorno alla metà del XX secolo (poco prima negli Stati Uniti e nei Paesi Scandinavi) ed è stata portatrice di un altissimo entusiasmo per la partecipazione politica, il quale ha portato alla formazione di gruppi di base diversi che si sono adoperati per conseguire i loro reali interessi, mettendo sulla difensiva gli interessi di potere che avevano dominato le società non democratiche. Dal punto di vista economico era caratterizzata da politiche economiche associate alla dottrina keynesiana e dai modi di produzione fordisti nella logica del ciclo di produzione e consumo di massa; le grandi aziende erano subordinate all’autorità degli Stati nazionali che pertanto avevano la forza per limitare il potere degli interessi economici che – in cambio della sopravvivenza del capitalismo – hanno accettato queste condizioni tanto che, per la prima volta nella storia del capitalismo, si è potuto affermare che “la salute generale dell’economia veniva vista in relazione alla prosperità della massa dei salariati”. È però già possibile osservare i semi della postdemocrazia negli anni Settanta, quando le due crisi petrolifere misero a repentaglio la capacità di gestire l’inflazione e la disoccupazione e, allo stesso tempo, la nascita dell’economia dei servizi e il declino dell’industria manifatturiera come fonte di occupazione erano destinati a mettere in crisi il ruolo dei lavoratori manuali nel sostenere il ciclo di produzione/consumo e la democrazia di massa; e negli anni Ottanta con la deregulation dei mercati finanziari che ha spostato il centro dell’attività economica dal consumo di massa alla Borsa. Arrivati agli anni ‘2000, Crouch afferma che siamo ormai pienamente avviati alla fase discendente in quanto è possibile individuare numerosi sintomi della postdemocrazia: primo fra tutti, la sopravvivenza di tutti gli elementi formali della democrazia anche laddove vi è forte presenza di organizzazioni tentano di influenzare l’attività politica senza far leva sull’elettorato ma direttamente sui governi (sintomo di una società liberale forte ma di una democrazia debole), la frammentazione della restante popolazione, il welfare che assume un ruolo sempre più residuale destinato al povero bisognoso piuttosto che parte dei diritti universali di cittadinanza, i sindacati che vengono relegati ai margini della società, il ritorno in auge del “ruolo dello Stato come poliziotto e carceriere”, il continuo e incessabile ampliarsi delle disuguaglianze, la tassazione che serve meno alla redistribuzione del reddito, i politici che rispondono in prima istanza alle esigenze di un pugno di imprenditori ai quali si consente di tradurre i propri interessi particolari in linee di condotta politica generale, i poveri che smettono progressivamente di interessarsi al processo politico e sempre meno vanno a votare tornando volontariamente alla posizione che erano obbligati a occupare nella fase predemocratica, il forte degrado della comunicazione politica con l’immagine sempre più preminente “che un programma di partito sia un prodotto che i politici tentino di venderci”.
Dopo aver delineato i tratti fondamentali del concetto di postdemocrazia e descritto l’evoluzione storica della società democratica e della sua degenerazione nel primo capitolo, Crouch dedica il secondo all’azienda, sottolineando il ruolo chiave che il superamento del fordismo ha avuto nell’imporsi del modello della postdemocrazia. La sua tesi è che, in seguito alla globalizzazione e alla richiesta di flessibilità ai governi da parte delle aziende dopo la crisi inflazionistica degli anni ’70 ed il fallimento della dottrina economica keynesiana, “la capacità di decostruzione è la forma più estrema assunta dal predominio dell’azienda nella società contemporanea”: laddove l’azienda classica aveva un suo luogo di produzione, un personale dipendente incoraggiato con contratti a lungo termine ed una reputazione nei confronti dei clienti, “l’azienda contemporanea archetipica è proprietà di una costellazione sempre mutevole di azionisti che si scambiano le loro quote via computer, fa uso di una miriade di forme di lavoro per evitare di assumerli da dipendenti”; essa non ha più un luogo di produzione, il fatto stesso di avere un core business diventa fattore di rigidità, e nel momento in cui tutto può essere esternalizzato l’azienda si concentra esclusivamente sulla creazione e pubblicizzazione del marchio (cfr. No logo, Naomi Klein, 2000). L’azienda è dunque prima di tutto azienda fantasma e deterritorializzata, capitale finanziario che può minacciare i governi di fuggire all’estero laddove questi non rispondessero alle loro esigenze, quali una sempre maggiore deregulation nel mondo del lavoro o un regime fiscale accomodante; questo fa sì che le tendenze democratiche e redistributive vengano sempre più relegate ai margini ed infatti è proprio nelle società democratiche in cui il capitalismo flessibile è presente nel suo grado più avanzato, Gran Bretagna e Stati Uniti, che si sperimentano le disuguaglianze più accentuate (cfr. Il capitale nel XXI secolo, Thomas Piketty, 2014). Un altro fenomeno che l’evoluzione dell’azienda ha portato con sé è l’individuazione dell’azienda come modello istituzionale: i governi, invidiando all’azienda fantasma la sua flessibilità ed apparente efficienza, diventano sempre meno capaci di distinguere tra servizi pubblici essenziali e fornitura commerciale e rinunciano ad un ruolo incisivo nel servizio pubblico, chiedendo ai loro ministeri di comportarsi come aziende (che devono fornire un servizio di una certa qualità entro certi limiti economici) o privatizzando servizi pubblici, spogliandosi dunque di ogni responsabilità diretta nella loro conduzione. Una conseguenza diretta di questo fenomeno è che il servizio pubblico venga appaltato alle aziende più grandi, legittimate come migliori dal mercato dall’ideologia liberale, creando una fitta rete di connessioni tra il potere politico e coloro che rivestono posti chiavi in tali aziende: “il potere che essi già detengono all’interno delle loro aziende si trasforma in un potere politico più esteso” e dunque si può sperimentare un altro aspetto della parabola, il ritorno ai privilegi politici corporativi coperti però dagli slogan del mercato e della libera competizione.
I due capitoli successivi sono invece dedicati al dissolvimento della coscienza di classe e all’evoluzione del partito politico dagli anni Ottanta ad oggi: gran parte di quella forza che ha permesso il raggiungimento di forme democratiche di società e di welfare state proveniva dalle classi subalterne (ed in particolar modo da quella operaia), che hanno sfidato i privilegi di classe che prima venivano sbandierati con orgoglio e arroganza; la postdemocrazia, al contrario, nega più subdolamente l’esistenza di entrambi, privilegi e subordinazione, privilegiati e subordinati. La fine XX secolo, col crescente passaggio della forza lavoro dall’industria ai servizi in seguito all’aumentata produttività e all’automazione, ha visto un irreversibile declino in termini numerici in sorte alla classe operaia, mentre non esiste in seno alle altre classi sociali (ad eccezione di quella manageriale e capitalista) una vera e propria autocoscienza e oggi queste vengono incoraggiate a salire con deferenza, loro o i loro figli, la scala gerarchica stabilita dalle élite industriali invece che a cercare strumenti di miglioramento dello stato sociale; il rapporto delle classi politiche con queste categorie sociali si conforma pienamente al modello della postdemocrazia: “è nei loro confronti che la manipolazione politica è usata più spesso, quel gruppo rimane infatti in larga misura passivo e manca di autonomia politica”. Il fallimento dei modelli anticapitalistici ed il restringimento della base sociale tradizionale dei partiti progressisti ha costretto questi ultimi, pur di sopravvivere, ad un cambiamento e per descriverne la natura Crouch prende ad esempio il New Labour del Regno Unito: nei primi anni Ottanta la classe operaia subì sconfitte particolarmente drammatiche ed è fallito ogni tentativo di spostarsi a sinistra, considerato che stava crollando la tradizionale base della politica di sinistra; è emersa dunque una nuova classe dirigente intenzionata ad abbandonare la sua base, a dissociarsi dai sindacati e dalla sinistra in senso stretto (lasciando ben poco spazio al partito in termini di interessi sociali specifici) e intenzionata a trasformare il New Labour in un partito per tutti, un partito pronto per la postdemocrazia: non a caso è il partito europeo di centrosinistra che detiene attualmente il record di successi elettorali (ad eccezione del Sap svedese), ma allo stesso tempo non ha una base sociale definita, sono evidenti le relazioni e la cooperazione con le lobby economiche essendo venuto meno il finanziamento dei sindacati (si pensi alle relazioni venute alla luce nel 1998 fra molti ministri e aziende composte da lobbisti di professione) e con l’emergere del suo programma sociale ed economico si è rivelato sempre più una continuazione dei precedenti 18 anni di governo conservatore neoliberale. Allo stesso modo molti altri partiti europei hanno seguito questa tendenza, come in Belgio e in Francia, mentre altri (come i DS italiani o la Spd tedesca fino al 2003) non si sono spinti lontano in un programma acritico verso il mondo degli affari solamente perché continuano a tenere forti legami con i sindacati e altri rappresentanti della società industriali, non perché abbiano sviluppato un programma realmente democratico e radicale che sappia rappresentare i reali bisogni della nuova popolazione dei lavoratori subordinati postindustriale. Il concetto stesso di partito ha dunque seguito un’evoluzione, se prima il modello democratico di partito veniva rappresentato con dei cerchi concentrici (rispettivamente dal più interno al più esterno: i dirigenti e i loro consiglieri, che vengono fuori dagli attivisti, che vengono fuori dagli iscritti, i quali fanno parte dell’elettorato che il partito cerca di rappresentare), nel momento in cui la base garantita era divenuta troppo ristretta si è cercato di guadagnare voti nel serbatoio complessivo elettorale. Questo ha comportato l’avvicinamento a gruppi estranei al partito ed il cerchio più interno si è trasformato in un’ellissi andando ad includere professionisti puri che poco hanno a che fare con il partito e gruppi che interagiscono con membri di varie lobby di aziende che hanno interessi nel tessere legami col governo, allontanando ulteriormente la struttura della dirigenza dai cerchi ideali del partito; ma ha anche un’altra conseguenza: un partito che sta al governo è necessariamente, per forza di cose, coinvolto pesantemente nelle privatizzazioni e negli appalti. Questo modello di partito proprio della postdemocrazia è e rimane ovviamente ideale, irraggiungibile (per quanto Crouch ne identifichi “un solo esempio quasi perfetto” in Forza Italia), avendo i partiti bisogno di un’enorme quantità di fondi per le campagne elettorali e non potendo fare a meno di nessuna forma di finanziamento, dunque i milionari non hanno rimpiazzato del tutto iscritti e sindacati. Esso rimane tuttavia il modello verso cui tendono tutti i partiti contemporanei, tanto di sinistra quanto di destra, ed è predemocratico nella misura in cui garantisce accesso politico alle singole aziende e ai loro interessi, postdemocratico in quanto ha a che fare con i sondaggi di opinione e la politica degli esperti caratteristica di questo periodo.
Nel quinto capitolo Crouch mette in luce un altro aspetto della fase della postdemocrazia, già in parte toccato nei capitoli precedenti: nella fase democratica l’allargamento del capitalismo al settore della vita sociale e del welfare state è stato evitabile anche grazie al fatto che in quel periodo era la produzione industriale a creare maggiore profitto. Oggi, al contrario, “lobby sempre più potenti chiedono perché i servizi pubblici e le politiche del welfare non possano essere messe a loro disposizione a fini di lucro, come per qualsiasi altra attività”, poiché fintanto che il welfare state sopravvive, aree potenziali di profitto sono escluse dalla portata del capitale; il capitalismo postindustriale tenta di scindere gli accordi fatti precedentemente ed in questo gioca un ruolo centrale la World Trade Organisation, che spinge affinché aspetti del welfare state come la sanità e l’istruzione vengano calamitati all’interno della sfera d’interesse del mercato. Ma questo migliorerebbe realmente la qualità dei servizi erogati? Crouch tiene conto di tre elementi per rispondere in maniera completa a questa domanda: distorsione, residualità e degrado dei mercati. Nei mercati reali le valutazione del potenziale in Borsa sono spesso distorte e affetti da pregiudizi e questo porta spesso a improvvisi crolli di fiducia, senza contare che i mercati sono fortemente soggetti a corruzione; una logica simile coinvolge la sfera dei servizi pubblici: “se gli utenti credono che gli indicatori misurino qualcosa di reale, allora si sentiranno meglio a sapere che i punteggi misurati dagli indicatori sono saliti e premieranno il governo che ha prodotto questi buoni risultati perdendo di vista lo stato effettivo del servizio”, come si è visto in Gran Bretagna con i tentativi del governo neolaburista di contenere entro limiti accettabili alcune liste d’attesa, concentrando le risorse sulle procedure valutate e rese politicamente rilevanti ma sottraendole ad altri settori difficilmente osservabili e peggiorando notevolmente il servizio. Il secondo fattore, quello della residualità, è forse anche più grave dal momento che la portata del servizio pubblico dev’essere universale quanto meno in potenza, mentre invece consentendo al privato di fornire certi servizi esso sceglierà il target a cui è interessato lasciando escluse alcune fasce delle popolazione, in genere le più povere e che hanno meno peso politico, alle quali il servizio sarà garantito dallo stato; ne consegue che tale fornitura pubblica sarà residuale ed i lavori di studiosi come A. Hirschman (1970) e R. Titmuss (1970) dimostrano che servizi pubblici residuali diventano di scarsa qualità e l’accesso ai servizi pubblici diventa quindi una penalità per chi non può permettersi servizi privati e di più alta qualità, non più un diritto sancito dalla cittadinanza. Il terzo fattore da tenere in conto è il degrado dei mercati, che impedisce quel processo per cui, in linea del tutto teorica, l’ampliamento del mercato ai servizi pubblici li possa solo che migliorare, dato che di fatto sono solo le piccole e medie aziende ad essere soggette alle restrizioni dell’autentico mercato: le grandi corporazioni hanno ormai sviluppato un’influenza assoluta che in un circolo vizioso utilizzano per garantire la sopravvivenza di un sistema politico che consente loro di perpetuare l’esercizio di tale influenza. Questo è particolarmente evidente quando una famosa società che produce sistemi di avvistamento missilistico si occupa anche dell’ispezione nelle scuole elementari, come avviene in Gran Bretagna. Una conseguenza interessante di questi processi è stata messa in luce da Freedland (2001) ponendo l’attenzione su di una relazione a tre tra cittadino, governo e fornitori privati di servizi: il cittadino ha un legame attraverso il processo elettorale col governo, il quale ha un contratto con il fornitore privato il quale però non è stato legittimato dal cittadino e non vi ha alcun legame dal punto di vista della scelta. Proseguendo in questa catena, il governo può tentare di distanziarsi sempre di più dalla prestazione del servizio attraverso lunghissime catene contrattuali, liberandosi addirittura del core business, come le grandi aziende degli anni ’90; questo sarebbe fantastico per i governi, che non dovrebbero dar conto dei loro prodotti politici ma curarsi solo del loro marchio, ma metterebbe una seria ipoteca sulla democrazia. Crouch a riguardo chiude il quinto capitolo scrivendo: “I governi e i partiti non possono entrare pienamente in questo mondo ideale fintanto che la fornitura dell’istruzione, dei servizi sanitari e degli altri servizi tipici del welfare state non saranno subappaltati a estese catene di fornitori privati, così che il governo non sia più responsabile della loro produzione di quanto la Nike lo sia delle scarpe su cui mette il suo marchio. Se si applica questo scenario al triangolo di Freedland, si vede che i cittadini perdono effettivamente ogni possibilità di tradurre le loro richieste in azione politica”.
Il sesto ed ultimo è dedicato alla ricerca di possibili soluzioni al lento e apparentemente inesorabile declino verso un regime di postdemocrazia, che come abbiam visto ha come causa fondamentale il forte squilibrio tra il ruolo degli interessi delle grandi aziende e quello di tutti gli altri gruppi. È davvero possibile immaginare un rovesciamento? Crouch riconosce che questi cambiamenti sono tanto capillari e diffusi da rendere un rovesciamento improbabile, ma tenta di individuare alcuni livelli su cui agire. Il primo è quello delle politiche che affrontino la crescente preponderanza delle élite economiche, bisognerebbe trovare il modo di conservare il dinamismo e lo spirito intraprendente del capitalismo evitando che le aziende e i loro dirigenti esercitino poteri incompatibili con la democrazia, ma porre in questo momento la richiesta a livello globale laddove le strutture di governo internazionale (il Wto, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il Fmi, l’Unione Europea) lavorano de facto nella direzione opposta è impossibile. Vi è poi l’azione di riforma all’interno della prassi politica: bisogna agire nei partiti, fondamentali per evitare le tendenze antiegualitarie verso la postdemocrazia, ma allo stesso tempo lavorare dall’esterno, appoggiando o costituendo gruppi che fanno pressione su di esso, così da evitare che restino radicati nel mondo postdemocratico delle lobby d’impresa; bisogna operare per far sì che vengano create nuove forme di partecipazione politica e che la cittadinanza acquisisca senso critico e interesse nei suoi confronti, e in questo senso Philippe Schmitter ha avanzato una serie di proposte audaci e molto creative.
L’atto fondamentale per il ribaltamento di questo processo è però la formazione di nuove identità che sappiano reindirizzare il malcontento sulle vere cause di problemi, la presa di coscienza della loro condizione di estraneità nel sistema politico, l’avanzamento di richieste rumorose e articolate per entrare a farne parte sgretolando il mondo spettacolarizzato e pieno di slogan delle politiche della postdemocrazia. E in questo noi tutti possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo, se non vogliamo che i sacrifici di tutti quegli uomini che hanno lottato per vedere riconosciuti i loro diritti in una società democratica, siano stati vani.