Scritto da Paolo Furia
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La pretesa di cogliere un’epoca attraverso una semplice categoria del pensiero nasconde un errore metodologico. Si tratta di considerare un aspetto del mondo vitale dell’epoca come l’essenziale, di ipostatizzarlo (farne una sorta di personalità, di protagonista indiscusso che agisce come se fosse dotato di una volontà propria) e di ricondurre tutti gli altri aspetti di esso ad una sua variazione, una sua conseguenza, una sua implicazione.
Ecco perché ci vuole cautela quando si tratta con gli “-ismi”. Il liberismo non fa eccezione. Esso è certamente un modello efficace di descrizione di una determinata modalità di rapporto tra economia e potere pubblico. Nel liberismo, per dirla a spanne, il libero mercato vuole essere lasciato indipendente dalla funzione di regolazione politica propria del pubblico. Si può utilmente far discendere, da questo rapporto, un determinato modello di razionalità: quella strumentale, che è in grado di calcolare costi e benefici di ogni azione. Questa è la razionalità propria del commercio, dell’economia, del rapporto di scambio. Di qui, si può derivare anche una determinata antropologia: il soggetto razionale è colui che è in grado di calcolare per la propria azione il massimo profitto al netto del minimo sforzo. Un siffatto soggetto, l’homo oeconomicus, è tuttavia ben lungi dall’esaurire la riflessione sul soggetto che è stata condotta nella contemporaneità dalle filosofie più disparate. Così come la pratica liberista, che pure è particolarmente potente nel nostro tempo, non è l’unica pratica economica sopravvissuta al tempo della crisi generalizzata della crescita economica occidentale e dello strapotere della finanza. Non deve sfuggirci che la lotta per l’emancipazione delle classi subordinate ha avuto luogo proprio in quello stesso Occidente così fortemente caratterizzato dalla struttura economica del capitalismo. Marx stesso mostrava, tra l’altro, come lo sviluppo del capitalismo avesse generato le condizioni della lotta per l’emancipazione, configurando al proprio interno la classe che sarebbe potuta diventare protagonista della lotta per la libertà – ricordiamolo – dell’umanità intera. Non dobbiamo dimenticare che il contatto con le culture non occidentali non è stato caratterizzato unicamente dalla aggressiva pulsione di conquista del colonialismo, ma è stato anche carezzato dallo sguardo rispettoso dell’antropologo, del viaggiatore, del narratore. Non possiamo non considerare che questo stesso contatto, che diventa contagio nel tempo delle grandi migrazioni globali, ha messo in gioco riflessioni del tutto rinnovate sulle forme di economia della reciprocità e ha fatto in modo che anche nei paesi occidentali si generassero forme di welfare basate sulla mutualità, sulla sussidiarietà, sull’iniziativa delle comunità.
Non si intende negare che il liberismo non sia una categoria fondamentale dell’epoca in cui viviamo e dell’Occidente nel corso degli ultimi due secoli. Occorre però pensare alla società come ad un’arena, nella quale più forze, più tendenze e più pulsioni si misurano. Ecco perché è lecito ricercare altre categorie che possano rappresentare plasticamente le tensioni e le dialettiche interne alla nostra epoca. Abbiamo bisogno di categorie plastiche, che sappiano esprimere e reggere le contraddizioni e che prendano in considerazione, oltre che aspetti opportunamente astratti e concettualizzati dei processi collettivi, anche e il più possibile l’esperienza concreta che gli uomini – i singoli uomini e le comunità – fanno dell’epoca. Solo assumendo il mondo dell’esperienza per quello che è, per come viene vissuto e percepito dai soggetti che lo abitano, potremo avere la dimensione della complessità. Sempre che complessità sia la parola giusta. Forse si dovrebbe parlare di opacità, dal momento che la complessità può sempre essere scomposta e ricondotta ai suoi elementi semplici che nel complesso si ritrovano combinati, ma l’epoca sembra rispondere di più all’immagine di un organismo i cui meccanismi di funzionamento non sono completamente scomponibili e nemmeno rispondono alla semplice e perfetta legge logica della non contraddizione.
Personalmente, considero che alcuni tratti della nostra epoca potrebbero essere colti con discreta precisione assumendo e possibilmente integrando due categorie “epocali” che sono state elaborate da due autori francesi negli ultimi decenni del Novecento. La prima è quella, decisamente inflazionata ma assai importante, del postmoderno, che dobbiamo a Lyotard e che ha avuto fortuna in campo estetico soprattutto, mescolandosi con altre importanti riflessioni quali quella di Gianni Vattimo in Italia, di Richard Rorty in America e del post-strutturalismo di varia matrice e provenienza. La seconda, meno considerata, ma utile a temperare gli eccessi esaltati e gratuiti del postmoderno, è quella della surmodernité, oggetto della celebre opera dell’antropologo Marc Augé sui non luoghi.
Il postmoderno non vuol essere una scuola, ma nemmeno in senso stretto un movimento. E’ semmai il comune sentire, proprio degli anni ’70 e successivi del Novecento, della fine delle “grandi narrazioni”, ossia, come avrebbe detto Martin Buber, delle dimore che hanno in qualche modo dato casa alle persone, mantenendole in uno stato di certezza identitaria. La religione, l’arte classica, la politica dei blocchi, le grandi strutture socio-politiche che organizzavano contemporaneamente la vita concreta e il sistema dei valori delle persone erano cadute o perlomeno denunciate nella loro parzialità e nel loro limite. La rivolta giovanile di quegli anni non ha solo e tanto rilanciato un pensiero critico sulla società, magari di carattere marxista, spendibile per la costruzione di un’alternativa al sistema; ha semmai messo in luce la possibilità di esibire comportamenti anti-sistema, di sentirsi così al di fuori di esso e, per il solo fatto di sentirsi, esserlo: perché l’essere, nel postmoderno, perde di ogni consistenza, si risolve nella sensazione del soggetto che pratica la libertà in un atteggiamento di sfida verso i valori consolidati. La modernità, retta da grandi ideali di progresso sociale da una parte e dal prevalere dell’homo oeconomicus dall’altra, è denunciata come l’ultima delle grandi narrazioni. La rottura politica del postmoderno non assume i caratteri di una nuova narrazione di progresso, essendo anche questo nient’altro che una narrazione. Essa diventa dunque primariamente una posa di carattere estetico. Situazionismi, forme letterarie frammentate, espressioni pittoriche distruttrici della forma, i pastiche rappresentano il postmoderno. Si tratta di una liberazione dell’estetico dalla sfera angusta della produzione artistica classica, di un suo capitombolare nel pieno della vita che scorre; ma si tratta, essenzialmente, di forme del disimpegno.
Non è un caso che un teorico politico marxista del calibro di Frederich Jameson, tra gli anni ’80 e ’90, abbia indirizzato all’approccio postmoderno la critica di conservatorismo: dietro alla crisi del “fondamento” e alla relativizzazione della verità può nascondersi in realtà la rinuncia a cogliere i processi economici e sociali che stanno a fondamento dei mutamenti di costume e, insieme, il rifiuto di proseguire la pur faticosa missione che in tanti hanno voluto vedere nella cosiddetta modernità: quella del progresso, inteso soprattutto come emancipazione culturale e materiale dei ceti subalterni, al servizio dell’emancipazione dell’umanità intera. In effetti, il postmoderno parla di liberazione dell’espressione, di rottura delle identità e degli schemi. Sembra però paradossale che proprio in un contesto che dovrebbe definirsi “postmoderno” si ripropongano logiche di omologazione culturale e di omogeneizzazione dei modelli, degli stili di vita e dei valori che nella stessa modernità non si sarebbero mai potute avverare. Non la liberazione dell’espressione originale, non la scoperta dell’alterità incommensurabile, non il rapporto non violento con il diverso fanno l’uomo del postmoderno, ma il consumo, la moda, l’adesione a modelli di sub-identità in cui sono andate perdute, in gran parte, le tradizioni ed i loro significati, ma anche i patrimoni simbolici prodotti dalle appartenenze di classe. Certamente la categoria del postmoderno precorre il disorientamento prodotto dalla caduta del Muro di Berlino, dall’abbattimento delle frontiere e dalla crisi delle istituzioni tradizionali, in particolare dello Stato moderno e di tutti i suoi elementi, tra cui segnatamente i partiti politici, privati ormai dei loro fondamenti distintivi. D’altronde, questa “liberazione”, che è stata sovente salutata come l’avvento di un nuovo tempo in cui sarebbe contato solamente l’uomo nella sua espressività e nel suo buon senso, ha in verità lasciato quello stesso uomo solo, disorientato, privo di riferimenti e direzione.
La categoria di surmodernité riflette esattamente sull’individualismo radicale che caratterizza l’uomo della società, per dir così, postmoderna. Essa è una categoria dell’eccesso: la realtà sociale contemporanea è infatti caratterizzata dall’eccesso di spazio (il mondo è diventato troppo piccolo, gli orizzonti si sono ristretti, ogni cosa è a portata di mano, la diversità viene tenuta insieme attraverso una omologazione delle identità che si misura nella passeggiata anonima dei cittadini-consumatori nei non luoghi); dall’eccesso di tempo, nel senso che la vita di ciascuno è bombardata da un’infinità di stimoli che rendono quasi impossibile la configurazione di storie dotate di senso, al punto che il presente ipertrofico finisce per divorare gli spazi legittimi del passato, inteso come patrimonio di vissuti e di simboli significanti, e del futuro, concepito come la dimensione del progetto, ossia della costruzione di un avvenire altrettanto significante; dall’eccesso di individualismo, e cioè dalla fine di quei legami sociali e comunitari vivificanti che si costituiscono nella lunga durata e che offrono al singolo l’appoggio di identità collettive. La specificità della categoria di surmodernité sta nel fatto che essa non è pensata come contrapposta, o successiva, a quella di modernità, come invece è quella del postmoderno. Con essa, si intende sottolineare come, nel tempo del consumismo, della globalizzazione, dell’atomismo del mondo del lavoro e della creazione dei non-luoghi costituiti appositamente per il consumo, alcuni tratti tipici della modernità si sono rafforzati. La razionalità puramente strumentale, che è la forma di razionalità che viene salvata nella modernità in quanto funzionale al meccanismo del rapporto utilitaristico e di scambio, sopravvive e si esprime nella supermodernità alla massima potenza e viene separata dalla missione di progresso che perlomeno nella modernità pareva mantenere, in quanto contrapposta alle forme di autorità tradizionali e di potere assolutistico che mortificavano la libera intrapresa, il sapere autonomamente perseguito ed i progetti di vita di ciascuno.
La realtà contemporanea che viene fotografata da un’integrazione delle due categorie prese in considerazione è dunque assai complessa. Per un verso, il crollo delle ideologie e la fine delle identità classiche sembra poter portare alla emancipazione dai conservatorismi delle autorità tradizionali; per un altro verso, però, non pare che si sia in questo modo condotta la società occidentale sulla strada dell’emancipazione dalla forma economica dominante, che anzi, in forza della crisi delle ideologie e delle fonti tradizionali d’identità e autorità, sembra essersi imposta in tutto il mondo, come vero motore della globalizzazione. Da un lato, la società aperta e democratica si interroga su come far coesistere le differenze culturali, etniche, religiose ed in generale valoriali in maniera pacifica, nella reciprocità dello scambio e nella sperimentazione di interessanti forme di meticciato, possibili solo nel contesto di una realtà laica che ha revocato i fondamenti tradizionali dell’identità; dall’altro lato, agisce, per via economica, una pulsione omologante, che tende a eludere il problema dell’incontro con l’altro indebolendolo e rendendolo, come me, niente più che un consumatore. Da una parte, sembra possibile almeno provare ad essere se stessi, al di là dei vincoli tradizionali; dall’altra, guardando alle proprie condizioni di vita e all’interiorità del sé, ci si ritrova esposti ad un’insopportabile precarietà, ad un’assordante solitudine, ad uno stato di fragilità e disorientamento imputabili proprio al crollo di quelle identità che prima erano elementi della costrizione. Il rifiuto dell’identità porta d’altronde paradossalmente alla recrudescenza dei fondamentalismi etnici o religiosi o all’irriflessa adesione a pretese identità integrali, che in effetti integrali non sono. La fine dell’identità ha acceso come non mai una sete di identità, di dimora, di certezze che sfocia sempre più spesso nella costruzione di nuove e fragilissime appartenenze, connotate per esempio da stili estetici, musicali, dal tifo sportivo, eccetera.
Se questo è il grado di opacità cui perviene la nostra epoca, non sarà sufficiente ricondurre l’interezza di questi fenomeni all’evoluzione della struttura economica e del capitalismo. D’altronde, la filosofia non può cedere a tentazioni moralistiche o gratuitamente pessimistiche sulla realtà. E’ semmai necessario che essa getti luce sulle ragioni profonde dei cambiamenti che hanno portato sino a qui. Come è stato possibile che la modernità venisse per un verso superata dal postmoderno e per l’altro radicalizzata dalla supermodernità? Quest’analisi, invero necessaria e non ancora sufficientemente condotta, non può limitarsi alle cause efficienti, che pure, in talune riflessioni, vengono confuse con le cause strutturali. Per esempio, la trasformazione del sistema economico in senso ultraliberistico è certamente la principale causa efficiente della condizione sociale descritta dalle categorie di postmodernità e supermodernità; ma tale trasformazione è stata a sua volta possibile perché i valori che presiedono ad essa si sono fatti egemonia: e se si sono fatti egemonia, esistono dei perché. Questo ha potuto avverarsi anche, se non soprattutto, perché le alternative erano deboli, esaurite. Questo ha potuto avverarsi perché le fonti tradizionali dell’identità erano e sono impotenti, superate. Il consumismo, l’individualismo sfrenato, la solitudine si tengono con la relativizzazione radicale del senso, la sconfitta delle intuizioni del mondo storicamente affermatesi nei secoli scorsi, la perdita di una bussola, un orientamento, una direzione: ma quella perdita sembra irrecuperabile nelle forme del passato.
Siamo ad un tornante in qualche misura necessario della storia. Lo scetticismo, la disillusione, l’assenza di alternativa si accompagnano sempre alle fasi di esaurimento e crisi delle visioni del mondo. Se è vero, però, che non viviamo in un mondo determinato da un fenomeno fondamentale, ma in un’arena di fatti, forze e categorie diverse che stanno tra loro in tensione e contraddizione, allora vi è tutto lo spazio perché si generino pratiche di cambiamento che muovano il quadro di scacco in cui ci sembra di essere. Da questo punto di vista, è bene riflettere, per esempio, sulla possibilità che i non-luoghi si “riempino” di senso, attraverso il lavoro e la sensibilità di molti attori sociali; sull’opportunità che la crisi economica e finanziaria restituisca la parola a forme d’impresa cooperativa, di banca e di commercio equo; sul fatto che la crisi degli enti istituzionali, compromessi fino al midollo con il sistema economico imperante e sempre meno capaci, per questo, di dare risposte ai bisogni di benessere e di giustizia sociale che sono così impellenti in un tempo di crisi, apra le porte ad un rinnovato protagonismo della comunità; sull’emergere di una consapevolezza ecologica diffusa, anche se non ancora di massa, contro l’eccesso di sfruttamento delle risorse naturali; sulla diffusione delle pratiche di solidarietà e di mutualità, prima affermate nelle comunità tradizionali, ora recuperate nelle esperienze sociali di numerosi soggetti ed attori collettivi. Non c’è nessun irenismo in questo, anche perché è chiaro che il sostanziale mutamento dei paradigmi economici e culturali avviene sempre per rotture e conflitti. Non sappiamo ancora quali saranno la natura e l’entità dei conflitti che caratterizzeranno il nostro mondo, ma dalle avvisaglie di questi ultimi anni dobbiamo presumere che non sarà una passeggiata e che potrebbe capitare di tutto. Il quadro è in movimento, come sempre, e il movimento, nella storia come nella natura, può essere, sì, un passo di danza, ma può essere anche un terremoto. Ma forse, sarà un terremoto (o una serie di terremoti) necessario e, per così dire, costituente.