“Nuove (e vecchie) povertà: quale risposta?” a cura di Fondazione Astrid e Circolo Fratelli Rosselli
- 14 Marzo 2019

“Nuove (e vecchie) povertà: quale risposta?” a cura di Fondazione Astrid e Circolo Fratelli Rosselli

Recensione a: Fondazione Astrid e Circolo Fratelli Rosselli (a cura di), Nuove (e vecchie) povertà: quale risposta? Reddito d’inclusione, reddito di cittadinanza, e oltre, il Mulino, collana “Quaderni di Astrid”, Bologna 2019, pp. 312, euro 18 (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Il libro Nuove (e vecchie) povertà: quale risposta?, edito da il Mulino a cura delle Fondazioni Astrid e Circolo Fratelli Rosselli, è un contributo di cui il dibattito pubblico necessitava, considerata la chiarezza dell’esposizione e la lucidità delle analisi. Il volume affronta il tema fondamentale delle politiche pubbliche di contrasto alla povertà con una prospettiva che prende come riferimento il quadro europeo per diramarsi poi nelle peculiarità dei diversi paesi esaminati: Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Paesi scandinavi, Canada e, infine, l’Italia.

Negli ultimi anni, proprio mentre a livello globale la povertà andava riducendosi, nei paesi più avanzati abbiamo assistito a nuove disuguaglianze e povertà generate dalle grandi trasformazioni che la nostra epoca sta vivendo. In particolare, come scrivono Franco Bassanini e Valdo Spini nella prefazione del volume, «ci riferiamo, innanzitutto, come è ovvio, agli impatti della grande disruption tecnologica (tecnologie digitali, nanotecnologie, internet, biotecnologie, intelligenza artificiale, Smart Cities, Industria 4.0, ecc.) e della globalizzazione dell’economia e dei mercati, a cui si potrebbero aggiungere gli effetti del cambiamento climatico e della conseguente necessità di rivedere i modelli tradizionali di produzione e di consumo (decarbonizzazione, sviluppo delle energie rinnovabili, risparmio energetico, green economy, economia circolare, ecc.). Da una parte è incontestabile che queste rivoluzioni aprano la strada a nuove straordinarie opportunità di conoscenza, innovazione, crescita, sviluppo, occupazione, miglioramento della qualità della vita. Ma, dall’altra, distruggono attività e lavori esistenti, generano nuove emarginazioni e nuove povertà».

In questo contesto, le politiche contro la povertà assumono un ruolo di grande importanza, anche perché, secondo le stime più recenti, circa 120 milioni di residenti nell’Unione Europea sono a rischio di povertà ed esclusione sociale.

Bisogna innanzitutto capire quali sono e come funzionano gli strumenti di lotta alla povertà. Come illustra Elena Granaglia nella sua premessa concettuale, il reddito minimo – misura che, nella quasi totalità dei paesi europei, entra in funzione come last safety net, ovvero una volta esauriti tutti i restanti ammortizzatori – è un trasferimento monetario selettivo (perché circoscritto ai poveri) e universale (perché si rivolge a tutti i poveri), nella maggior parte dei casi condizionato ad un reinserimento lavorativo e/o sociale. Diversi sono invece il salario minimo, che non è un trasferimento ma una regolazione del livello di retribuzione, e gli ammortizzatori sociali, che funzionano a stampo contributivo[1] e non grazie alla fiscalità generale.

Le politiche sociali, nonostante un quadro di riferimento europeo fornito dalle Raccomandazioni 92/441 CEE e 92/442 CEE, sono affidate sostanzialmente agli Stati membri. Italia e Grecia, tra questi, sono stati gli ultimi due ad adottare politiche strutturali in questo campo. Come funzionano queste politiche negli altri paesi? Quali strumenti vengono utilizzati per contrastare la povertà?

Le politiche contro la povertà in Europa

In questa sede è impossibile trattare in modo approfondito le politiche di tutti i paesi esaminati nel libro, soprattutto considerata la complessità di alcune realtà, come Spagna e Canada, dove queste politiche sono particolarmente eterogenee. Proveremo comunque a fornire alcune linee guida, partendo dai modelli francese, tedesco e scandinavo.

La Francia presenta, in linea con la sua tradizionale impostazione statalista, robuste e costose politiche contro la povertà. I nove schemi di reddito minimo garantito, in linea di massima finanziati dalla fiscalità generale, sono rivolti a soggetti vulnerabili, o poveri perché privi di un’occupazione o a rischio di povertà pur avendo un’occupazione. Secondo i dati della DRESS raggiungevano nell’anno 2015 – compresi i familiari dei beneficiari – circa 7 milioni di persone (11% della popolazione) per un costo totale di 25,3 miliardi di euro – il 50% degli utenti e della spesa sono assorbiti dal principale strumento, l’RSA[2]. Le politiche del lavoro sono distribuite su tre livelli (rispetto al sistema binario di Germania e Italia): il primo è dato dall’indennità assicurativa finanziata dalla contribuzione sul lavoro (ARE); il secondo dall’indennità di disoccupazione richiedibile se, terminato l’ARE, persiste la situazione di disoccupazione; il terzo infine è dato dall’RSA e le altre forme di reddito minimo. Queste misure sono strettamente intrecciate ai vincoli del salario minimo e alle politiche di attivazione (reinserimento attraverso offerte di lavoro ragionevoli, entro un certo raggio geografico etc.). Il rischio di povertà dopo l’intervento delle politiche ha visto nel periodo 2005-2015 solo un lieve scostamento dal 13 al 13,6%, contro un 16,5 (da 12,2) della Germania. Il problema della Francia, oltre alla disoccupazione, è piuttosto il lavoro povero, tra i giovani quasi raddoppiato dal 6,6 al 12,6% dal 2007 al 2016.

La Germania, come accennato qui sopra, presenta, dopo le riforme Hartz, un sistema binario basato su due tronconi: un’indennità assicurativa finanziata con i contribuiti ed un reddito minimo, che coinvolge 4,3 milioni di destinatari per una spesa di 16 miliardi di euro all’anno – il cui ammontare è parametrato agli standard di spesa in consumi del 15% delle famiglie a più basso reddito. Con le riforme Hartz i rendimenti di questi strumenti sono stati abbassati e si è puntato sulla forte spinta verso la partecipazione al lavoro, con il risultato di abbattere la disoccupazione attraverso lavori a bassi salari sussidiati dal reddito minimo – si pensi ai 7,5 milioni di minijob, gli impieghi remunerati per un massimo di 450 euro al mese e liberalizzati dalle riforme Hartz del 2002. La spinta al reinserimento lavorativo è data dalle robuste politiche attive messe in atto dall’Agenzia federale del lavoro e dai Jobcentres. Come scrive Andrea Ciarini, «il fatto nuovo, da addebitare in buona parte a queste riforme, è il fatto che la grande espansione occupazionale conosciuta dalla Germania negli ultimi anni sia passata attraverso la ricostituzione di un nuovo dualismo, non più tra inclusi ed esclusi dal mercato del lavoro, bensì tra fasce core di lavoratori – sui quali pure si sono fatti sentire tagli e moderazione salariale – e fasce di lavoratori periferici, occupati e pur tuttavia spesso a rischio povertà» (p.121).

Il sistema scandinavo, a differenza di quello tedesco, è costruito in modo tale da evitare che la dialettica tra prestazioni/diritti e attivazione/doveri finisca per favorire i secondi. Il sistema è duale: all’”interno” del mercato del lavoro opera attraverso il «sistema Ghent» di assicurazioni gestite da casse sindacali e co-finanziate dallo Stato, “fuori” con le prestazioni di reddito minimo. La combinazione delle due istituzioni, scrive Paolo Borioni, ha costituito un forte pavimento a due livelli contro la tendenza del capitalismo a competere al ribasso; questo perché i due livelli di sostegno sono costruiti per «costringere il sistema a confrontarsi con un livello alto di salari, e quindi a domandare lavoro con competenze per tutti. Cioè competenze reali, non attivazione semplicemente punitiva per i soggetti più passivi[3]» (p.171).

Uno stampo fortemente condizionale e attivante, invece, ci viene anche dal modello anglosassone, analizzato da Gianluca Busilacchi con una prospettiva storica volta a focalizzare il passaggio dall’impostazione inizialmente universale e selettiva – parliamo degli anni Sessanta e Settanta – a quella del workfare thatcheriano.

Più in generale, leggendo il volume si può constatare come ogni paese abbia adottato le sue politiche di contrasto alla povertà, a partire dal reddito minimo. Vediamo ora la situazione dell’Italia.

Il caso italiano

In Italia le politiche strutturali contro la povertà sono state per molti anni sottovalutate e, ove prese in considerazione, rese difficilmente realizzabili dall’instabilità politica. Nella ricostruzione storica offertaci da Stefano Toso, il primo strumento contro la povertà fu il reddito minimo di inserimento (RMI), un trasferimento in moneta universale e selettivo per soggetti in condizione di povertà introdotto in via sperimentale dal primo governo Prodi con il decreto legislativo 18 giugno 1998, n.237. Nel primo anno di sperimentazione (1999) l’importo mensile massimo del sussidio era di 500 mila lire (258 euro) al mese per una persona sola ed era condizionato alla ricerca attiva di un’occupazione; l’RMI, applicato nel primo biennio a 39 comuni, è stato esteso nel secondo biennio a 267 comuni, salvo poi, a causa delle poche risorse stanziate e delle inefficienze istituzionali, concludersi con il venir meno dell’ultima tranche di finanziamenti.

Non può ritenersi invece un reddito minimo, scrive Toso, la Carta acquisti del quarto governo Berlusconi (2008-2011), soprattutto per i pochi fondi stanziati (circa 200 milioni) e per l’assenza dell’obiettivo del reinserimento sociale. Segue poi la Nuova carta acquisti, formalmente nata nell’ultimo governo Berlusconi ma ridisegnata da Monti – a causa della crisi non venne però sperimentata. Con Letta nel 2013 nacque uno schema compiuto di reddito minimo, il sostegno per l’inclusione attiva (SIA), per una spesa a regime stimata in 7-8 miliardi; anche questo strumento rimarrà inattuato, non trovando spazio nella finanziaria per il 2014[4].

Infine, occorre analizzare le novità del triennio 2015-2018: innanzitutto, con il Jobs act vengono introdotte la Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) e l’Assegno di disoccupazione (ASDI), istituto finanziato dalla fiscalità generale e percepibile da chi ha beneficiato della NASpI e si trova ancora disoccupato. L’istituto più importante però è il REI, introdotto con la legge 15 marzo 2017 n.33 e in cui confluiscono il SIA, l’ASDI e la vecchia Carta acquisti. Il REI è la prima forma di reddito minimo introdotta in Italia e, dal primo luglio 2018 – con il venir meno di tutti i requisiti categoriali prima vigenti – si presenta come una vera e propria misura universale di sostegno al reddito per le famiglie povere in quanto tali: per accedervi occorre avere un ISEE non superiore a 6 mila euro annui e una componente reddituale dell’ISEE non superiore a 3 mila euro. Gli importi massimi mensili sono, rispettivamente 188 euro per un single, 294 per una coppia, 383 per tre componenti, 461 per quattro e 534 per cinque. aDovrebbe coinvolgere circa il 40% delle famiglie in povertà assoluta e prevede un Fondo di 2 miliardi per il 2018, 2,5 per il 2019 e 2,7 per il 2020.

Con questa ricostruzione storica, che segue la sempre maggiore centralità del tema della povertà nel dibattito pubblico, siamo giunti al REI. Ora in Italia è entrato in vigore il reddito di cittadinanza: come scrive Emilio Reyneri, contrariamente alla dicitura, «è in realtà un reddito minimo per chi sia senza lavoro e si trovi in condizioni economiche disagiate, condizionato a una ricerca attiva di un’occupazione» (p.239). Non quindi un sostegno a ogni cittadino senza condizioni, come spesso si suole pensare.

Vedremo come il nuovo istituto, formalmente più generoso del REI, funzionerà. Lo scopo di questo libro era quello di focalizzare l’attenzione sulle politiche pubbliche contro la povertà con una sofisticata analisi comparata. Non è facile trovare pagine chiare e oggettive in un dibattito troppo spesso ideologico e parziale. Qui risiede il merito del volume, una attenta disamina della nostra realtà e di quelle a noi vicine su un tema fondamentale come quello della povertà.


[1] Il sussidio non grava sulla fiscalità generale ma è dato dai i contributi precedentemente versati.

[2] Istituito nel 2009, raggiunge quasi 2 milioni di utenti per una spesa di 11,9 miliardi di euro. L’RSA non dà diritto a ricevere somme forfettarie, ma varia in base al reddito percepito e alle caratteristiche della famiglia. Per fare un esempio, una persona sola senza sostegni alla copertura dei costi per l’abitazione riceve con nessun minore a carico 550,93 euro al mese, mentre una coppia sempre senza sostegni e con tre minori a carico riceve 1377,34 al mese.

[3] Come in Germania dopo le riforme, dove il reddito minimo porta ad accettare lavori per bassi salari o a sussidiare questi, in una vera e propria trappola della povertà.

[4] Partirà invece nell’estate 2014 la sperimentazione della Nuova carta acquisti, i cui tratti essenziali specificati dal decreto del ministero del Lavoro del 10 gennaio 2013 sono l’importo maggiore rispetto a quello della Social card e i criteri selettivi per quanto concerne l’ISEE e il patrimonio immobiliare.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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