Giovanni Gronchi tra questione sociale e interventismo
- 16 Ottobre 2018

Giovanni Gronchi tra questione sociale e interventismo

Scritto da Michelangelo Morelli

10 minuti di lettura

Reading Time: 10 minutes

A quarant’anni dalla morte Giovanni Gronchi (1887-1978) rimane una delle figure più interessanti e al contempo trascurate del percorso repubblicano. Democristiano vicino alla corrente sociale, egli si distinse dai precedenti capi di stato per aver rivendicato un maggior ruolo della presidenza nella vita politica. Tramite un sapiente uso delle prerogative costituzionali, Gronchi caratterizzò il suo mandato con un attivismo inedito, capace di influenzare gli equilibri interni e ribadire il ruolo dell’Italia nel panorama internazionale.

Giovanni Gronchi nacque il 10 settembre 1887 a Pontedera in provincia di Pisa. La sua precoce vocazione politica lo impegnò sin da subito nella militanza in organizzazioni giovanili cattoliche, iscrivendosi nel 1902 al movimento democratico cristiano di Romolo Murri. Laureatosi alla Normale di Pisa nel 1909 con una tesi su Daniello Bartoli, si dedicò da subito all’insegnamento liceale. Sostenitore dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale, si arruolò nell’esercito come ufficiale di fanteria, ricevendo una medaglia d’argento e due medaglie di bronzo al valor militare.

Nel 1919 partecipò alla fondazione del Partito Popolare Italiano, risultando eletto alla tornata elettorale di quell’anno nella circoscrizione Pisa-Lucca-Livorno-Massa Carrara. Sensibile alle istanze sociali dei ceti popolari, Gronchi venne nominato segretario del sindacato cattolico, la Confederazione Italiana dei lavoratori, che diresse dal 1920 al 1922. Nonostante la denuncia della violenza squadrista, Gronchi appoggiò Mussolini, entrando nel 1922 nel governo di coalizione come sottosegretario all’industria e al commercio.

Dopo le dimissioni forzate di Luigi Sturzo nel 1923, Gronchi entrò nel triumvirato che guidò il partito fino al 1926, anno in cui le leggi fascistissime imposero lo scioglimento di tutti i partiti eccetto il PNF. Ritiratosi per quasi vent’anni dalla scena politica, nel 1942 partecipò alla fondazione clandestina della Democrazia Cristiana a Milano a casa dell’industriale Enrico Falck, entrando a far parte nel 1945 del governo di unità nazionale in qualità di Ministro dell’Industria e del Commercio.

L’ostilità di Gronchi al nuovo corso liberista intrapreso da De Gasperi nel dopoguerra trovava ragione nell’esigenza, mai abbandonata nel corso della propria carriera politica, di creare un clima più disteso con le sinistre. La svolta keynesiana auspicata da Gronchi, oltre a soddisfare questa necessità, mirava da un lato alla riduzione del peso politico del ceto conservatore, dall’altro era invece finalizzata a una funzione contenitiva dei comunisti, la cui base elettorale era formata soprattutto dai ceti popolari.

La caduta di De Gasperi nel 1953 rappresentò per Gronchi la possibilità di assumere un ruolo più attivo nella definizione della politica democristiana. Al congresso di Napoli (26-29 giugno 1954) egli pronunciò un discorso molto critico nei confronti del suo partito, accusato di mancanza di democrazia interna, difendendo al contempo una possibile apertura della DC a sinistra. Ovviamente nella visione di Gronchi questa sinistra era rappresentata dai socialisti di Nenni, la cui potenziale convergenza era però impossibilitata dal patto d’azione che lo legava al PCI.

La posizione “aperturista” ed eterodossa di Gronchi lo portò paradossalmente ad avvicinarsi alla Concentrazione, la corrente più conservatrice del partito e ostile all’egemonia del nuovo segretario Fanfani. Quest’ultimo nell’aprile del 1955 era riuscito a far ufficializzare la candidatura del presidente del Senato, Cesare Merzagora, alle elezioni per il capo di stato previste quello stesso mese. Il nome di Merzagora era però avversato da buona parte del partito, mentre Gronchi, oltre al supporto della Concentrazione, poteva contare anche sulla simpatia dei social-comunisti e delle destra monarchica e missina.

La prima seduta per l’elezione del capo dello stato si tenne il 28 aprile 1955: in omaggio alla resistenza, le sinistre votarono in massa per Ferruccio Parri, che ottenne 308 voti, mentre Merzagora solo 228. Nei turni successivi cominciò a emergere la strategia congiunta della Concentrazione e del PSI, finalizzata a far crescere di volta in volta i voti per Gronchi, che al secondo scrutinio ottenne 127 voti a fronte dei 225 per Merzagora. Alla fine Fanfani, dopo un vano di tentativo di convincere entrambi a ritirarsi, fu costretto a indicare come candidato ufficiale Gronchi, che venne eletto il 29 aprile al quarto scrutinio con 658 voti su 833 da una coalizione che andava dal PCI alla destra missina e monarchica.

 

L’attivismo presidenziale di Gronchi

Il primo discorso tenuto da Gronchi, quello dell’11 maggio 1955 alla Camera, è uno dei momenti essenziali del suo mandato. Dichiarando chiusa la stagione di ricostruzione del Paese, Gronchi sottolineava l’integrazione dei ceti popolari nella vita politica italiana, rappresentata dalla sua elezione quasi plebiscitaria. Le velleità presidenzialiste erano evidenti nel chiaro intento di delineare una serie di indirizzi politici, volti a incidere sui rapporti tra le classi sociali tramite il riconoscimento dei diritti sociali e la lotta alla disoccupazione.

Il primo effetto dell’elezione di Gronchi fu la fine del governo Scelba (1954-1955). La tradizione prevedeva che il governo in carica desse le dimissioni in omaggio al capo di stato appena eletto. Inizialmente Gronchi, dopo un acceso dibattito con Scelba, respinse le dimissioni senza però ringraziare come di consuetudine il governo. Dopo le elezioni siciliane del 5 giugno 1955, che col successo della DC confermarono la posizione di forza del capo di stato, Fanfani, consapevole della possibilità di un conflitto istituzionale tra i due presidenti, rifiutò di sostenere Scelba, che si dimise definitivamente il 22 giugno.

L’influenza presidenziale si fece sentire anche nel nuovo governo guidato da Antonio Segni (1955-1957), dove Gronchi riuscì a collocare in alcuni ministeri chiave uomini di fiducia come Giulio Andreotti e Guido Gonella. Il dicastero ricoperto da quest’ultimo, quello per l’Attuazione della Costituzione, fu creato su pressione di Gronchi, che già nel discorso a Montecitorio aveva sottolineato la necessità si sbloccare la sostanziale impasse in cui si erano venuti a trovare alcuni punti del testo fondamentale. Grazie al suo attivismo il Parlamento riuscì a terminare i negoziati sulla nomina dei giudici della Corte Costituzionale, che entrò in funzione nel 1955, e a decretare in seguito la costituzione del CNEL e del CSM[1].

Il principale campo d’azione dell’interventismo di Gronchi, quello della politica estera, fu spesso anche terreno di scontro tra il capo di stato e i vari esecutivi. Esempio di questa dinamica fu il conflitto istituzionale sorto all’indomani dell’intervento anglo-francese in Egitto dopo l’annuncio del presidente Nasser di voler nazionalizzare il Canale di Suez. Mentre il premier Segni e il ministro degli esteri Martino, pur infastiditi dal fatto che l’Italia non fosse stata nemmeno avvertita dai francesi, non intendevano turbare gli equilibri europei, Gronchi e Fanfani premevano invece per una mediazione internazionale al fine risolvere la questione.

Il dissidio, aggravato dal rifiuto dell’esecutivo di votare una mozione ONU per il ritiro delle truppe anglo-francesi, divenne esplosivo in seguito ad una lettera scritta da Gronchi e indirizzata a Eisenhower. La missiva, in cui Gronchi rivendicava il ruolo strategico dell’Italia in Nordafrica, fu ritenuta inopportuna dall’esecutivo, dato che il suo inoltro avrebbe autorizzato de facto il presidente a dettare al governo un indirizzo di politica estera, e perciò trattenuta alla Farnesina. L’increscioso episodio andò ad aggiungersi alla defezione del PSDI dalla coalizione di governo, determinando le dimissioni di Segni il 6 maggio del 1957.

Nelle intenzioni di Gronchi il nuovo governo di Adone Zoli (1957-1958) doveva essere un monocolore “pendolare”, votabile cioè sia dai socialisti che dai monarchici. Questo proposito fu però frustrato dall’insuccesso della corrente autonomista del PSI, che non riuscì a imporsi nel partito[2] e determinare quindi una svolta verso il centro. Il governo dell’antifascista Zoli fu quindi costretto a rinunciare all’appoggio socialista e a ottenere la fiducia parlamentare con i voti delle destre, che conquistarono per la prima volta una posizione di prestigio nelle trattative parlamentari.

Sfruttando il carattere di questo nuovo esecutivo, deputato a un ruolo meramente “riempitivo” in vista delle prossime elezioni, Gronchi avviò una nuova fase del proprio impegno internazionale attraverso la dottrina del Neoatlantismo. Questa nuova tendenza aveva lo scopo di rafforzare il ruolo dell’Italia nel contesto mediterraneo tramite la ridefinizione dei rapporti con il Medioriente e il Terzo Mondo, in particolar modo con i paesi esportatori di petrolio. A tal fine Gronchi organizzò una serie di incontri, tra cui quello con il re di Giordania e il sultano del Marocco, con cui l’Italia allacciò un’intensa relazione bilaterale, e quello con il lo scià di Persia Reza Pahlavi nel settembre 1957.

Mattei - Gronchi

Enrico Mattei incontra il Presidente Gamal Abd el-Nasser

Un altro importante strumento di attuazione del Neoatlantismo di Gronchi fu la politica petrolifera, coadiuvata dall’azione del presidente dell’Eni Enrico Mattei. Nel marzo 1957 quest’ultimo concluse un accordo con la National Iranian Company, reso poi effettivo con la costituzione della società mista italo-iraniana nel settembre di quell’anno. Mattei intavolò trattative anche con l’Egitto, con cui concluse un importante contratto, e con Tunisia, Libano e Marocco, arrivando persino a proporsi come una sorta di ente-transazionale disposto a rappresentarli nei rapporti con il mondo occidentale.

 

Dal 1958 alla morte

Le elezioni politiche del 25 maggio 1958 videro il successo della DC, che ottenne il 42,3%, e il brusco declino della destra. La possibilità di una coalizione di centrosinistra, fedele alle intenzioni manifestate dall’elettorato, venne frenato dall’ostilità della chiesa, costringendo Gronchi a dare l’incarico a Fanfani a capo di un esecutivo DC-PSDI.

Il programma di governo, imperniato sulla ripresa del dialogo con l’URSS e una più stretta collaborazione tra i membri NATO, riproponeva sostanzialmente i punti chiave della politica gronchiana. Il protagonismo di Fanfani, lanciatosi da subito in un tour diplomatico in Occidente, determinò una perdita di visibilità per il capo dello stato, che cercò di recuperare terreno con un viaggio in Brasile (3-14 settembre 1958), dove venne accolto trionfalmente da migliaia di emigrati italiani accorsi allo stadio San Paolo.

La rottura con Fanfani divenne effettiva quando il 4 novembre di quell’anno Gronchi inviò una lettera in cui criticava l’assenza di coperture per un piano decennale per la scuola. Già indebolito dal Caso Giuffrè[3] e definitivamente affossato dal voto contrario del Parlamento su alcuni temi chiave, Fanfani si dimise il 26 gennaio 1959 dalla carica di primo ministro e dalla segreteria del partito.

Durante il mandato del secondo governo Segni (1959-1960) Gronchi ricevette l’invito ufficiale da parte del Cremlino a raggiungere Mosca. L’incontro, il primo della storia repubblicana, si svolse dal 5 all’11 febbraio, concretizzandosi in una serie di colloqui incentrati principalmente sulla questione tedesca. Alla proposta di Gronchi di un regime costituzionale nel paese organizzando un referendum nelle due Germanie, seguì un vivace battibecco tra il capo di stato e Chruscev che segnò il sostanziale fallimento diplomatico dello storico incontro.

Al momento della partenza per Mosca il governo Segni era virtualmente dimissionario. Al Congresso di Firenze (23-28 ottobre 1959) il nuovo segretario del partito Aldo Moro aveva esplicitamente esaltato un’alleanza con i socialisti. Tale linea era sostenuta anche dall’ex segretario Fanfani nonché ovviamente dallo stesso Gronchi. Irritati da questa prospettiva, i liberali ritirarono il sostegno all’esecutivo; rifiutando di restare al governo con i voti del MSI, Segni rassegnò le dimissioni il 24 febbraio 1960.

Le dimissioni di Segni aprirono una fase breve ma convulsa della storia repubblicana, segnata dalla fine del quadripartito e dal tentativo di Gronchi di imporre un governo del presidente[4] attraverso la figura di Fernando Tambroni, messosi in luce al Congresso di Firenze con un discorso “aperturista” verso i socialisti. Attraverso il parlamentare marchigiano, Gronchi sperava di portare il proprio indirizzo politico direttamente nell’esecutivo, scavalcando quindi le logiche prevalenti nel partito e nel parlamento.

Nominato capo dell’esecutivo da Gronchi, Tambroni ricevette l’8 aprile la fiducia alla Camera grazie ai voti dei neofascisti, formando un esecutivo monocolore, sciolto quasi subito sotto invito della direzione DC. Gronchi quindi affidò un mandato esplorativo a Fanfani, ma dopo il suo fallimento consigliò a Tambroni di completare l’iter parlamentare. Questi, nonostante nel frattempo la composizione dei ministri fosse cambiata[5], ricevette la fiducia al Senato il 29 aprile.

Il governo Tambroni, nato per avviare l’apertura a sinistra, si trasformò in un semplice governo amministrativo, finalizzato a superare lo stato d’impasse politica e approvare il bilancio dello Stato entro ottobre. Le dimissioni arrivarono però il 19 luglio in seguito ad una serie di scontri iniziati a Genova, dove i neofascisti volevano tenere un congresso a pochi passi dal sacrario della Resistenza, e propagatisi in tutto il Paese con morti e feriti.

Il fallimento dell’esperimento presidenzialista e le tensioni politiche nel Paese segnarono l’inizio del declino di Gronchi, praticamente escluso dalle trattative per il governo Fanfani III (1960-1962), passato alla storia come il governo delle convergenze parallele[6]. Paradossalmente nell’ultima fase del suo mandato si realizzò quella svolta tanto auspicata verso sinistra. Ricevuta la benedizione dal Vaticano con l’enciclica papale Mater et Magistra[7], il congresso DC di Napoli nel gennaio dell’anno successivo ratificò il cambiamento di maggioranza, concretizzatosi nell’appoggio esterno del PSI al quarto governo Fanfani (1962-1963).

Scaduto nel 1962 il mandato presidenziale, Gronchi si ritirò definitivamente dalla carriera politica. Senatore di diritto, mantenne rapporti freddi e distaccati col suo partito, venendo acclamato membro di diritto del consiglio nazionale DC nel 1977 in occasione dei suoi novant’anni. Morì il 17 ottobre 1978 a Roma, ma la notizia venne ignorata dalla stampa nazionale, concentrata sull’elezione di Papa Giovanni Paolo II avvenuta il giorno prima.

L’attivismo di Gronchi fu spesso interpretato come il tentativo di scavalcare gli organi tradizionalmente deputati al governo e alla rappresentanza. Se da un lato è vero che gli interventi presidenziali spesso andarono oltre i limiti della dottrina costituzionale, dall’altro va comunque riconosciuto che Gronchi fu fondamentale per l’evoluzione di quest’ultima come centro della mediazione istituzionale, funzione che avrà importanti sviluppi anche nelle presidenze successive. Ancora, fu la stessa DC a sostenere il protagonismo del capo di stato, visto come l’unica alternativa per mettere fine alle ricorrenti crisi di governo. Tutto questo non implica però un disegno compiutamente presidenzialista da parte di Gronchi. Alcune caratteristiche del suo mandato, come l’uso misurato del potere di rinvio alle camere e lo sciogliere quest’ultime in situazione comunque molto critiche, testimoniano come il suo presidenzialismo restò sempre e solo una tentazione.

Al tempo stesso l’insistenza sulla centralità della questione sociale e su un’idea di democrazia sostanziale – e non solo formale – secondo cui l’effettiva inclusione dei lavoratori e dei ceti più deboli società nello Stato democratico presupponeva anche una loro emancipazione economica fu una cifra non solo della presidenza, ma dell’intero percorso politico di Gronchi. L’insistenza sull’attuazione della Costituzione era in parte legata a queste tematiche e in parte alla necessità di applicarne le parti ancora disattese. L’interventismo presidenziale era teso anche al raggiungimento di questi obiettivi, cosa solo parzialmente avvenuta. Il superamento del centrismo, infatti, avvenne compiutamente solo al termine della Presidenza Gronchi. Le vicende legate al governo Tambroni, poi, isolarono definitivamente il Presidente e ne ridimensionarono il ruolo. Resta comunque, quella di Giovanni Gronchi, la biografia di una delle molte figure che hanno avuto un ruolo significativo nel secondo dopoguerra italiano e che hanno contribuito ad una delle fasi più intense e ricche di prospettive della storia del nostro Paese.


Giovanni Gronchi (al centro) alle Olimpiadi di Roma del 1960. Crediti immagine: Harry Pot/Anefo [CC0], attraverso wikimedia.com


[1] La costituzione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) e del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) fu decretata rispettivamente il 5 gennaio 1957 e il 24 marzo 1958. Il CSM esisteva già dal 1906 con funzioni di organo consultivo presso il Ministero della Giustizia. La Costituzione repubblicana ne modificò radicalmente i poteri, trasformandolo in organo di autogoverno della magistratura.

[2] La corrente autonomista non riuscì ad imporsi al Congresso di Venezia (febbraio 1957). Nenni subì una seconda sconfitta a Maggio quando il comitato centrale non votò la rottura con i comunisti.

[3] Giovanni Battista Giuffrè, banchiere di Imola, presentando come garanzie di affidabilità le amicizie nell’ambiente religioso e sostenuto dalla connivenza degli ambienti politici, riuscì a rastrellare ingenti somme di denaro i cui tassi di interesse venivano poi ripagati tramite denaro acquisito nella stessa maniera. Il caso del “banchiere di Dio” coinvolse anche alcuni uomini di governo, tra cui il ministro delle Finanze Luigi Preti e il suo predecessore Giulio Andreotti.

[4] Per governo del presidente si intende da un lato un esecutivo la cui nomina prescinde dalla volontà dei partiti, dall’altro l’esistenza di un legame di fiducia tra capo di stato e presidente del consiglio, quest’ultimo esecutore del programma presidenziale.

[5] In seguito al voto di fiducia alla Camera, in cui i voti dei neofascisti risultarono determinanti, tre ministri della sinistra democristiana (Fiorentino Sullo, Giorgio Bo e Giulio Pastore) rassegnarono le dimissioni.

[6] Il Governo Fanfani III fu un monocolore DC sostenuto da PSDI, PLI, PRI e con l’astensione del PSI. L’implicito assenso dei socialisti all’esecutivo poggiava sull’esigenza di riportare la calma nel paese dopo i fatti di Genova del 1960.

[7] L’enciclica, pubblicata il 15 Maggio 1961, affermava la liceità della tendenza alla socializzazione, affrontando anche il discorso della decolonizzazione e degli aiuti ai paesi sottosviluppati all’insegna del solidarismo internazionale.

Scritto da
Michelangelo Morelli

Laureato in Storia delle istituzioni politiche all’Università di Bologna, frequenta attualmente il corso magistrale in Scienze storiche presso il medesimo Ateneo ed è alunno della Scuola di Politiche.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici