Scritto da Chiara Cordelli
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Ciò che amplia la nostra sfera di libertà di scelta o di azione può essere, tuttavia, incompatibile con il nostro status di individui liberi, ossia di persone indipendenti dal dominio altrui. Questa contraddizione, interna all’idea stessa di libertà, si trova al centro della giustificazione kantiana dello stato di diritto. Potremmo dire che la vera ragione per la quale lo Stato esiste è quella di superare tale contraddizione, insita in una condizione pre-civile. Lo Stato assolve questa funzione assicurando i nostri diritti, ossia le condizioni della nostra libertà di scelta e di azione, senza dominio.
I processi contemporanei di privatizzazione – processi che colpiscono un’ampia categoria di beni e funzioni pubbliche, dalla sanità all’istruzione, dai trasporti alle funzioni militari – tendono a riprodurre, all’interno dello Stato stesso, la medesima contraddizione concernente la libertà che caratterizza lo stato pre-civile. Se, da un lato, le privatizzazioni possono ampliare la libertà di scelta dei cittadini, aumentando le opzioni disponibili per le loro scelte individuali – i cittadini possono ora scegliere se usufruire di servizi erogati dal pubblico o dal privato – esse contemporaneamente generano relazioni di dominio tra i cittadini e uno Stato sempre più privatizzato, inficiando l’indipendenza dei primi. Per comprendere come ciò avvenga dobbiamo, innanzitutto, chiarire perché lo Stato sia necessario per risolvere il problema della libertà che caratterizza lo stato pre-civile kantiano.
Lo Stato democratico come risposta al problema del dominio
Anche in uno stato pre-civile – una condizione definita dall’assenza di un’autorità politica comune – gli individui hanno bisogno di diritti per poter essere liberi, ossia per poter formare e perseguire liberamente i propri fini e le proprie scelte. Prendiamo come esempio i diritti di proprietà privata. Tali diritti servono a conferire agli individui un controllo sicuro su spazi e oggetti esterni, permettendo loro di usare questi spazi e oggetti per il perseguimento di fini propri, senza dover chiedere permesso ad altri. L’acquisizione di diritti è dunque richiesta dalla libertà in quanto delimita una sfera di azione in cui l’individuo può regnare sovrano sulle proprie scelte. Tuttavia, ci dice Kant, in uno stato pre-civile l’acquisizione di diritti non può che essere meramente provvisoria poiché tale acquisizione è incompatibile con la libertà stessa. Per capire come ciò sia possibile bisogna partire dalla premessa che reclamare un diritto significa reclamare l’autorità di imporre, coercitivamente, doveri sugli altri. Per esempio, acquisire un diritto di proprietà su un oggetto o su un appezzamento di terra, significa reclamare il diritto di imporre su altri il dovere di non usare quell’oggetto o di non stabilirsi su quel pezzo di terra senza il permesso del proprietario. Ciò limita la libertà altrui. Nello stato di natura l’acquisizione di diritti richiederebbe dunque che gli individui avessero l’autorità di stabilire, secondo il proprio giudizio privato, i limiti della libertà altrui. Tuttavia, nessun individuo può avere tale autorità, poiché data la fondamentale eguaglianza morale di tutti gli esseri umani, nessuno può avere il privilegio di decidere, secondo la propria volontà, cosa gli altri possano fare o non fare con la loro libertà. Un tale atto di legiferazione non sarebbe altro che una forma di dominio – l’imposizione arbitraria della volontà privata di un individuo su quella di un altro. D’altronde, se qualcuno avesse l’autorità di legiferare unilateralmente sui confini della libertà di un altro, quest’ultimo sarebbe dipendente dalla volontà del primo e dunque ad esso subordinato. Poiché i nostri diritti sono necessariamente correlati a doveri, se nessun privato può avere l’autorità di imporre doveri sugli altri, ne consegue che nessuno può avere diritti veri e propri nello stato di natura. Ecco che lo stato di natura – condizione in cui i diritti e doveri individuali possono essere stabiliti e resi effettivi solo tramite azione privata – non può dunque consistere in una condizione di libertà.
Lo Stato è l’unica entità che ci permette di superare il problema del dominio e di stabilire una condizione di libertà reciproca. La ragione, ci dice Kant, è che solamente lo Stato può assicurare che i diritti dei cittadini vengano sia definiti sia resi effettivi in maniera pubblica, reciproca e rappresentativa della volontà di tutti, ossia in modo che nessun cittadino sia soggetto alla volontà meramente privata e unilaterale di un altro. Conviene aggiungere che il problema del dominio che caratterizza lo stato di natura può essere superato solamente tramite l’istituzione di una forma di governo democratica[1]. La ragione è che le procedure democratiche, dividendo sia il potere che l’autorità politica ugualmente tra tutti i cittadini, sono le uniche capaci di assicurare che nessun cittadino debba sottomettersi alla volontà meramente unilaterale di un altro per quanto riguarda la definizione e l’effettiva applicazione dei propri diritti e doveri. Ecco, dunque, che le ragioni per lo Stato sono anche ragioni per la democrazia.
Per poter risolvere il problema del dominio, tutte le decisioni concernenti la giustizia, ossia la forma e sostanza dei diritti dei cittadini e delle condizioni della loro libertà e uguaglianza, devono soddisfare determinate richieste normative. In primis, esse devono essere autorizzate democraticamente, ossia devono rispondere a quella che potremmo chiamare la condizione di autogoverno democratico. Il motivo è semplice: qualora un ente prendesse tali decisioni senza essere democraticamente autorizzato o soggetto a controllo democratico, i cittadini si troverebbero dipendenti, per quanto riguarda il godimento dei propri diritti, da una volontà aliena e meramente privata, proprio come nello stato di natura.
Torniamo ora al nostro quesito iniziale: perché la privatizzazione di funzioni pubbliche essenziali, quali per esempio la sanità, riproduce all’interno dello Stato stesso quella contraddizione interna alla libertà che caratterizza lo stato pre-civile kantiano? La ragione è che, sebbene la privatizzazione possa aumentare la gamma di opzioni disponibili ai cittadini per l’esercizio delle loro scelte individuali – i cittadini possono ora scegliere se usufruire di servizi forniti dal pubblico o dal privato – tuttavia la logica stessa della privatizzazione finisce per compromettere le condizioni necessarie per l’autogoverno democratico, minacciando così la libertà dei cittadini, intesa come assenza di dominio.
La privatizzazione come minaccia all’autogoverno democratico
Per comprendere come la privatizzazione mina le basi dell’autogoverno democratico è necessario chiarire quali siano le condizioni minime che un popolo deve soddisfare per dirsi capaci di autogoverno. L’autogoverno collettivo richiede, in primis, che il popolo condivida equamente il controllo delle leggi e delle politiche imposte dal suo governo. Ciò significa che i cittadini, anche se non continuamente attivi, devono essere capaci di seguire l’operato dei propri rappresentanti politici, e degli attori tramite i quali il loro governo agisce, e devono essere in grado di cambiare efficacemente la direzione dell’agire governativo, qualora non si allinei più con la loro volontà collettiva[2]. L’autogoverno democratico, dunque, richiede sia una capacità di controllo direttivo che una capacità di vigilanza da parte dei cittadini, per smascherare possibili abusi di potere. Inoltre, il popolo deve condividere equamente l’autorità di scegliere i propri rappresentanti e le opportunità di influenzare le scelte politiche del proprio governo. Per cui l’uguaglianza di opportunità di influenzare il processo politico è un’ulteriore condizione necessaria per l’autogoverno democratico.
Al fine di illustrare come la tendenza a privatizzare servizi e funzioni pubbliche essenziali compromette le condizioni necessarie per l’autogoverno democratico, cominciamo dalla prima condizione, quella del controllo direttivo. Esternalizzando una serie di funzioni ad attori privati – dalla sanità alle autostrade, o come succede in altri Paesi, dalla gestione di carceri alle funzioni militari – i governi democratici mirano sia a risparmiare sui costi che l’erogazione di certi servizi comporta, sia a compensare la mancanza di capacità specifiche necessarie a fronteggiare situazioni complesse o inaspettate. Questa stessa logica, tuttavia, genera una china scivolosa: se la pubblica amministrazione non ha la capacità di svolgere direttamente certe funzioni o di farlo in modo efficiente, probabilmente non avrà neanche una capacità sufficiente per coordinare, supervisionare e regolare coloro a cui queste funzioni sono delegate, e per farlo in modo efficiente. Tale problema è aggravato dal fatto che più un governo privatizza, più il suo potere di azione si disperde, più diventa difficile per esso controllare la miriade di agenti privati chiamati ad agire per suo conto.
A tale riguardo, si possono imparare lezioni importanti esaminando il caso, ben documentato, della privatizzazione di funzioni militari negli Stati Uniti – lezioni in principio applicabili, con dovute cautele, anche al caso della privatizzazione della sanità in Italia e di altre funzioni pubbliche. Durante il primo decennio del XXI secolo sia gli Stati Uniti che il Regno Unito hanno progressivamente esternalizzato varie funzioni militari che prima erano di competenza esclusiva dell’esercito: dall’approvvigionamento di cibo alle truppe, ad alcuni servizi di intelligence in zone di guerra, fino al combattimento armato. Questa divisione e dispersione di responsabilità fra pubblico e privato ha portato ad una situazione in cui i funzionari pubblici non erano più in grado di tracciare quanti privati stessero lavorando, sotto appalti o contratti governativi, per conto dell’esercito. Il problema del tracciamento, e dunque del monitoraggio, divenne ancora più complesso a seguito di una fuga di cervelli dal governo al settore privato, essa stessa una conseguenza della progressiva esternalizzazione di funzioni pubbliche. Dopo tutto, se le agenzie governative privatizzano per risparmiare sui costi, sarebbe poi contradditorio spendere risorse ingenti per aumentare gli stipendi dei dipendenti pubblici così da eguagliare quelli delle società private. Per superare questo deficit, i governi devono poi esternalizzare la stessa funzione di supervisione delle attività esternalizzate. Non è sorprendente, per esempio, che il Dipartimento della difesa americano abbia finito per appaltare ad attori privati anche gran parte della sua responsabilità di monitoraggio e supervisione. Ne consegue che più un governo esternalizza, meno capacità esso mantiene di raccogliere informazioni adeguate sulle prestazioni dei propri agenti privati e dunque anche meno capacità di far rispettare i termini contrattuali dell’appalto. Inoltre, meno i governi eseguono direttamente certe funzioni pubbliche, più perdono la capacità, inclusa la pratica e l’esperienza, di eseguire direttamente tali funzioni. Il risultato è che lo Stato diventa sempre più dipendente dai privati, e sempre meno capace di controllare e regolamentare l’operato di quest’ultimi. D’altronde, mantenere una sorveglianza stretta sull’operato dei privati e imporre su di essi una regolamentazione rigorosa tendono a contraddire la logica della privatizzazione stessa: compensare la mancanza di capacità istituzionali, risparmiare sui costi e soppiantare una burocrazia rigida con un sistema di governance più flessibile.
Questa dinamica viene spesso trascurata da coloro che sostengono che i problemi che hanno afflitto molti dei sistemi sanitari privatizzati durante la pandemia, incluso quello lombardo, siano una conseguenza non della privatizzazione ma del fallimento dei governi regionali a garantire che le aziende private fornissero i servizi necessari. Tale ragionamento non considera il fatto che la perdita di controllo direttivo è, essa stessa, una conseguenza non casuale bensì spesso inevitabile della privatizzazione.
Passiamo ora alla seconda condizione dell’autogoverno: la vigilanza civica, ossia la capacità dei cittadini di rendersi conto di possibili abusi da parte dei loro rappresentanti, agenti governativi e amministratori. La vigilanza civica è una disposizione in parte cognitiva e in parte affettiva. Essere vigili significa essere cognitivamente attenti alla possibilità di abusi. Ciò richiede che gli abusi siano individuabili. La vigilanza è, però, anche una forma di attenzione a ciò che ci circonda. Questo rende uno stato di vigilanza diverso da un semplice stato di veglia. Posso essere sveglio senza prestare attenzione, e prestare attenzione richiede una forma di cura, una disposizione affettiva ad interessarsi alle cose che ci circondano.
La privatizzazione mina la capacità di vigilanza civica sia rendendo gli abusi di potere molto più difficili da smascherare, sia promuovendo l’apatia civica. Quest’ultima risulta dal fatto che la privatizzazione nasconde il volto del governo, occludendo il suo ruolo dietro una miriade di attori privati attraverso i quali il governo viene a fornire beni e servizi ai suoi cittadini. Quando i cittadini non vedono le istituzioni pubbliche come le principali fornitrici dei benefici che ricevono hanno meno ragioni per interessarsi e sviluppare un attaccamento ad esse. Il loro legame affettivo con la cosa pubblica si indebolisce. In contesti in cui il volto del governo è ampiamente privatizzato, la disposizione dei cittadini a vigilare sull’operato del loro governo tende a diminuire e l’apatia civica a crescere. Ecco, dunque, che la privatizzazione inficia anche la seconda condizione dell’autogoverno democratico.
Arriviamo ora all’ultima condizione: l’uguaglianza di opportunità di influenzare le scelte politiche, non solo tramite il diritto al voto ma anche tramite la capacità e opportunità effettiva di partecipare alla formazione e all’elaborazione dell’opinione pubblica. Molti fattori possono contribuire ad erodere questo principio di eguaglianza democratica ma il modo più frequente, specialmente nelle società caratterizzate da una distribuzione ineguale di risorse economiche, è attraverso la conversione di tali risorse in influenza politica. La privatizzazione facilita questa conversione fornendo ad imprese e società private dotate di ingenti capitali incentivi ad usare una parte significativa del loro patrimonio economico per influenzare politiche pubbliche.
Inoltre, la crescente dipendenza dei governi dagli attori privati, dipendenza di cui parlavamo prima, rafforza ulteriormente il potere di questi ultimi di fare pressione sui primi e di conseguenza indebolisce la capacità dei governi stessi di resistere alle richieste degli attori privati. Questo naturalmente genera corruzione e clientelismo. Ma
anche quando non genera corruzione, la privatizzazione inficia l’equa distribuzione delle opportunità di influenza politica in altri modi. D’altronde, più il governo diventa dipendente dagli appaltatori privati, più questi ultimi possono fare pressione sul governo per perseguire politiche che la maggioranza dei cittadini non vuole, minacciando altrimenti di ritirare risorse, servizi e informazioni rilevanti. La privatizzazione crea dunque una condizione strutturale di dipendenza tra pubblico e privato che rende l’esercizio di influenza economica indebita da parte di privati particolarmente efficace.
Poiché non può esserci autogoverno democratico senza controllo direttivo, vigilanza civica e pari opportunità di influenzare il processo politico, e poiché la privatizzazione corrompe alla radice tutte e tre queste condizioni, abbiamo ragione di pensare che privatizzandosi lo Stato democratico rischia di contraddire se stesso, abdicando a quelle che sono le condizioni di possibilità dell’autogoverno collettivo e dunque della libertà dei suoi cittadini. Anche quando le privatizzazioni ampliano la gamma dei servizi offerti ai cittadini, esse tendono a compromettere l’indipendenza di questi ultimi, intesa come assenza di dominio – una forma di libertà che può esistere, come abbiamo visto, solamente all’interno di uno Stato democratico appropriatamente costituito.
Limiti costituzionali alla privatizzazione?
In quanto il compito supremo della costituzione di ogni Stato democratico è proteggere l’integrità della democrazia stessa, ogni costituzione dovrebbe contenere limiti espliciti alla privatizzazione di funzioni pubbliche. Ma quali limiti esattamente? In primis, si dovrebbe limitare la scelta di privatizzare il più possibile a funzioni meramente ausiliarie. Vanno limitate invece le privatizzazioni di funzioni centrali dei servizi pubblici, incluse quelle esternalizzazioni che delegano un tipo di discrezionalità significativa ai privati, ad esempio il potere di decidere di fatto quali servizi sanitari fornire. La ragione è sia che la capacità di controllo direttivo è particolarmente importante quando è in ballo l’esercizio di discrezionalità importanti, sia che la delega di funzioni essenziali a privati rischia di rendere un governo, e la pubblica amministrazione, eccessivamente dipendenti dai privati, con tutte le conseguenze che abbiamo visto tale dipendenza comporta.
In secondo luogo, vanno limitate le esternalizzazioni che delegano servizi che dovrebbero dare visibilità allo Stato e rappresentarlo davanti ai cittadini, inclusi servizi sociali, sanitari ed educativi, poiché oscurare la faccia dello Stato dietro ai privati genera apatia civica, minando le condizioni per una cittadinanza vigile e partecipativa.
Infine, bisogna tenere in conto l’estensione generale della privatizzazione, perché non è importante solamente ciò che si privatizza ma come le privatizzazioni, in aggregato, inficiano a lungo andare il funzionamento delle istituzioni democratiche. Per esempio, il modo in cui la privatizzazione rende lo Stato dipendente dai privati e dunque anche soggetto a manipolazione, manipolazione che in seguito compromette il principio di pari opportunità di influenzare il processo politico, non è tanto una conseguenza del tipo specifico di funzione privatizzata – le società che gestiscono le autostrade o la spazzatura possono fare lobby esattamente come quelle che gestiscono le carceri o i servizi sanitari – bensì una conseguenza della sua estensione.
Il fatto che le privatizzazioni vengano spesso promosse come mezzi per ampliare la libertà di scelta individuale, non toglie il fatto che esse minano un’altra dimensione, più fondamentale, della libertà umana: la libertà di vivere senza essere soggetti a dominio altrui. Per riconciliare questi due aspetti della libertà è necessario porre limiti ai poteri del privato.
[1] Una difesa di questa tesi è sviluppata in C. Cordelli, The Privatized State, Princeton University Press, Princeton 2020, capitolo II. Kant rimane notoriamente ambiguo sulla necessità di una forma di governo democratica. Per molti kantiani il fatto che le leggi possano essere oggetto del consenso ipotetico di tutti i cittadini, invece che il risultato di procedure democratiche, è sufficiente a legittimarle.
[2] P. Pettit, On the People’s Terms, Cambridge University Press, Cambridge 2012.