“Qualcosa che sfiora l’utopia” di Michele Gerace
- 02 Marzo 2023

“Qualcosa che sfiora l’utopia” di Michele Gerace

Recensione a: Michele Gerace, Qualcosa che sfiora l’utopia. Pensare un futuro più giusto, Editoriale Jouvence, Milano 2021, pp. 158, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Alfredo Marini

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È il 1516 quando il filosofo inglese Thomas More, traendo ispirazione dalla celeberrima Repubblica di Platone, pubblica la sua opera intitolata Utopia[1]. Il romanzo narra il viaggio immaginario di Raphael Hythlodaeus sull’isola di Utopia, una Repubblica ideale che ospita una società perfetta fondata dal suo primo re Utopo, il quale l’aveva creata staccandola dal Vecchio Continente e dalle sue turbolente vicende. Nel regno di Utopo l’assenza della proprietà privata ha permesso di edificare una società libera dall’avidità e dalle diseguaglianze, all’interno della quale vigono la libertà di parola, pensiero e tolleranza religiosa.

Nel dare un titolo alla propria opera il filosofo inglese conia un neologismo, utopia, per l’appunto. Il sostantivo, però, ha in sé un’ambiguità semantica in ragione di una duplice origine. La prima accezione deriverebbe dalla latinizzazione della parola greca Εὐτοπεία (eutopeia), significando “ottimo luogo”, la seconda invece deriverebbe dal vocabolo Οὐτοπεία (outopeia) ovvero “non luogo”. La parola custodisce, perciò, due significati molto differenti, essa può riferirsi ad un modello o “luogo migliore”, realizzabile, oppure ad una mera proiezione immaginifica che non trova riscontro nella realtà.

Questa premessa generale offre un primo spunto di riflessione per introdurre Qualcosa che sfiora l’utopia di Michele Gerace, edito nel 2021 da Jouvence. Dunque, cosa è l’utopia? Un concetto limitativo, in alcuni casi portatore di un’accezione negativa e denigratoria? Oppure una destinazione da raggiungere collettivamente senza timore di confrontarsi con il diverso da sé e, perciò, tesa a realizzare una versione migliore di noi stessi, della società e del mondo che ci ospita?

Il lavoro di Gerace avvicina il lettore al pensiero storico, filosofico e politico delle grandi figure del pensiero occidentale ponendo dubbi e domande che inducono a riflettere su come rifondare la società sui pilastri della fiducia e della speranza; indefettibile premessa per la realizzazione di qualsiasi cambiamento.

Secondo il pensiero dell’autore c’è sempre spazio per realizzare cambiamenti positivi, quando questi ultimi sono frutto di aspirazioni comuni e vengono sostenuti con coraggio e spirito di abnegazione. A parere dell’autore deve essere l’uomo, sulla scorta del rapporto che ha con sé stesso e con la comunità in cui vive, ad attivare il motore della Storia alimentandolo con le proprie passioni e aspirazioni. Un rapporto, quello con sé stesso in primis e con la società, in secondo luogo, che Gerace analizza in maniera minuziosa – anche alla luce dell’avvento delle nuove tecnologie – giungendo alla conclusione secondo cui sia necessario ristrutturare i pilastri fatiscenti su cui attualmente quest’ultimo poggia.

Tornare a relazionarsi con l’altro, aprirsi alle differenze in un confronto che non teme lo scontro, dare forma all’amore per mezzo dell’arte per ricominciare a comunicare, a comporre le divergenze e custodire e arricchire quei messaggi che servono a realizzare le rivoluzioni di cui abbiamo bisogno in quanto umanità; questo è il percorso che Gerace descrive per permettere all’individuo e alla società di ritrovare sé stessi e la propria missione.

«Ciò che conosciamo e ciò che ancora non conosciamo si sfiorano all’orizzonte di una civiltà che è collaborazione e presupposto di unità di una cittadinanza di una Repubblica che possiamo immaginare grande come il mondo» (p. 33), tramite il richiamo al pensiero della fisica e attivista Ursula Franklin, Gerace delinea tra le pagine della sua opera la destinazione verso cui l’umanità deve necessariamente incamminarsi.

L’autore parte dalla consapevolezza del fatto che l’attuale crisi delle istituzioni politiche e dell’ordine internazionale trovi la propria origine, anzitutto, in una crisi di coscienza della nostra società[2]. Il problema che sta alla base della crisi contemporanea – utilizzando le parole di Gerace – risiederebbe «nella fragilità della società come conseguenza della riduzione di pensiero, dello smarrimento della nostra identità cui segue la paura della diversità» (p. 112) e che, dunque, ci bloccherebbe.

Residua però un dato di fatto, cioè l’ineliminabile ricerca – comune a tutti gli individui – di piccole e grandi patrie, quei luoghi a cui sentiamo di appartenere o a cui vorremmo appartenere.  Questi luoghi chiamati “patrie” spesso sono stati accostati ad utopie prima di tramutarsi in ordinamenti strutturati e reali. L’autore nel riflettere su quali debbano essere le patrie di cui l’umanità ha bisogno si riferisce all’Europa federale e ad una Repubblica mondiale. Entrambe attualmente sono identificate come utopie, sia nell’accezione positiva che limitativa del termine, ma come ricorda bene Gerace: «le utopie costano fatica» (p. 112). Costano fatica, in quanto richiedono uno sforzo di consapevolezza da accompagnare alla temerarietà di esporsi al possibile fallimento, vale a dire rischiare di non riuscire a tradurre il pensiero in azione, la potenza in atto, l’immaginazione in realtà. Le utopie, perciò, costano fatica soprattutto se paragonate alle distopie le quali «per loro natura sono raccontate per essere scansate o negate» (p. 116).

A ben vedere, ricorda l’autore, lungo il corso della Storia non è stato difficile osservare come molte di queste idee siano poi riuscite a raggiungere i propri scopi elevandosi, addirittura, a principi capaci di indirizzare le coscienze di intere comunità umane per lungo tempo. Potrebbe essere anche questo il caso, con riferimento agli Stati Uniti d’Europa e all’unione del Mondo in una Repubblica universale? L’autore riconosce indubbiamente la grande difficoltà intrinseca alla convivenza tra popoli su scala europea e mondiale, definendola per l’appunto «qualcosa che sfiora l’utopia», per poi rivolgersi soprattutto ai più scettici sottolineando quanto le ragioni per cui dovremmo rinunciare a lavorare per la realizzazione di un’idea di futuro siano, alla fine, le medesime per le quali dovremmo sempre ostinarci a perseguirla. Ma come è possibile realizzare un’idea di futuro? Quale dovrebbe essere il percorso che l’individuo e la comunità dovrebbero intraprendere a tale scopo?

Immanuel Kant, nel tracciare i contorni dei concetti filosofici dell’essere e del dover essere, offre uno spunto di riflessione importantissimo, vale a dire la comprensione di quanto sia fondamentale per l’essere umano prendere coscienza delle cose per come sono e per come vanno. È questo, sottolinea Gerace, il primo passo per analizzare la realtà, ripensarla e tentare di cambiarla. A tal proposito l’autore sintetizza il presente concetto avvalendosi di un esempio particolarmente interessante con cui cattura l’attenzione del lettore. L’esempio di cui si parla è quello della nave spaziale generazionale.

Cosa accadrebbe nel caso in cui una nave spaziale dovesse partire dalla Terra oggi per giungere alla volta di un nuovo pianeta da colonizzare tra mille anni? Di certo l’equipaggio che partirebbe oggi dal nostro pianeta non sarebbe lo stesso che andrebbe a calpestare il suolo dell’ambita meta. Lungo il viaggio morirebbero e nascerebbero diverse generazioni e, ad un certo punto, ci si troverebbe nella situazione paradossale in cui le generazioni nate sulla navicella non ricorderebbero più il motivo che spinse i propri avi a lasciare la Terra. Di conseguenza, i nati durante il viaggio non riuscirebbero a trovare il senso della loro esistenza in quel momento e, nel caso in cui questi dovessero appartenere alla generazione destinata a toccare il nuovo pianeta, essi non riuscirebbero a comprendere l’importanza della meta poiché avrebbero perso la memoria di ciò che spinse gli avi a muoversi. Con questa bellissima metafora Michele Gerace accosta l’esistenza delle generazioni vissute sulla navicella a quella dell’umanità e dei suoi individui sulla Terra.

Riflettendo con attenzione su quanto è stato appena detto potremmo notare come la nostra esistenza sia condizionata da chi ci ha preceduto e quanto le nostre scelte andranno a condizionare l’esistenza di chi verrà dopo di noi. Se nella metafora che Gerace ci offre le generazioni possono essere accostate agli individui e all’umanità, la navicella potrebbe essere paragonata agli ordinamenti entro i quali viviamo la nostra esistenza di cittadini. Chi è che volle costituire l’ordinamento in cui viviamo? Per quale ragione i nostri predecessori vollero costituirlo e cosa li spinse a farlo?

L’autore, dunque, fa notare come l’attuale crisi della società e dell’individuo risieda nella inconsapevolezza relativa al motivo per il quale ci troviamo qui, ora, e conseguentemente nella correlata incapacità di poter immaginare il futuro, poiché la traiettoria delle nostre azioni dipende dalla memoria e dalla consapevolezza che abbiamo del passato. Gerace, in tal modo, ci fa cogliere quanto la comprensione del “mondo per come è” sia cruciale per immaginare il mondo per come lo vorremmo in futuro.

Dunque, nell’analisi preventiva che bisognerebbe condurre sul mondo per come è, l’autore assume che gli uomini siano esseri non scontabili a priori. Gerace, a questo punto, osserva come la società e la politica non siano mero specchio degli individui, al contrario, esse sono frutto ed emanazione diretta degli individui e per questa ragione non determinabili a priori. Da questo punto di vista l’autore afferma, perciò, come la memoria sia uno strumento utile alla conoscenza del presente e alla proiezione del futuro che, per sua natura, è indeterminabile. Partendo dall’assunto che siano infinite e indeterminate le possibilità che si aprono davanti a noi quando immaginiamo il futuro, occorre capire quale possa essere lo strumento grazie al quale trasformare l’immaginazione in realtà. A parere dell’autore è lo sguardo lo strumento necessario. Mediante lo sguardo gli individui riescono a ritrovarsi su un orizzonte comune, cioè su di una linea che non si traduce con l’omologazione delle idee, ma con la capacità di attirare l’attenzione delle persone sullo stesso progetto. Nel momento in cui ci si ritrova su di un comune orizzonte, afferma l’autore, è possibile tentare di realizzare l’immagine di futuro che si ha.

Gerace discute anche il rapporto tra comunità, individuo e libertà; a suo parere l’individuo non dovrebbe risultare subordinato alla comunità, né viceversa. In questo contesto di reciproca parità, bisogna precisare, che egli vede l’individuo come il prius, l’elemento primigenio rispetto alla comunità (posterius). Se da un lato l’individuo risulterebbe precedere la comunità, dall’altro lato esso non può viverne al di fuori. Non potrebbe esistere, perciò, uno sviluppo integrale dell’individuo senza la comunità, la quale permette il fiorire di individui diversi all’interno di un idem sentire (con riferimento al concetto ecumenico e non tribale di identità).

Avviandosi alle conclusioni, risulta chiaro come gli Stati Uniti d’Europa siano un orizzonte reale per cui battersi nella consapevolezza che «la società delle nazioni è finita» (p. 119), è che l’Europa unita – riprendendo il pensiero del Manifesto di Ventotene – rappresenta il primo passo per la realizzazione di una federazione mondiale. A parere dell’autore è necessario trovare un nuovo modo di stare al mondo per riuscire a governare la complessità del nostro tempo, la quale si caratterizza – come diceva Piero Calamandrei – «da una vicinanza che ci riguarda tutti nel mondo». Gerace ritiene che i contestatori dei progetti utopici – sedicenti realisti – ignorino per primi le forze e le dinamiche che muovono la realtà, identificandosi in tal modo come i veri soggetti incapaci di reale e profonda comprensione delle vicende umane. Gerace, come detto in precedenza, sottolinea come sia necessario che l’uomo si avvii verso un percorso di confronto con sé stesso e con la società per ritrovarsi assieme ai suoi simili su un orizzonte comune attraverso il quale immaginare il futuro.

In quest’opera l’autore cerca inoltre un dialogo critico con il lettore tentando di trasmettere il pensiero secondo il quale nulla è già deciso a priori nell’ambito delle vicende umane e che l’utopia altro non è che una possibilità di continua riflessione su sé stessi e sulla direzione in cui dirigersi in futuro. Dunque, il sentiero per la realizzazione dell’utopia è quello dell’impegno personale e collettivo; un impegno che si traduce soprattutto in una partecipazione attiva alla vita politica, primo dovere del cittadino.

La politica, afferma l’autore, deve tornare ad essere vitalità, un meccanismo coinvolgente capace di permettere il confronto e la sintesi; presupposti necessari per la sopravvivenza degli ordinamenti democratici oggi in crisi.  Interrogarsi, come cittadini, sul futuro dell’Unione Europea comprendendo la sua complessità, il suo presente e le ragioni per le quali ci è stata consegnata per non correre il rischio di essere la generazione inconsapevole che viaggia su una navicella spaziale senza sapere il perché. Impegnarsi per trovare un orizzonte comune, per realizzare l’Europa federale e una Repubblica grande quanto il Mondo con cui condividere tutti insieme diritti e doveri, nella nostra unicità di individui immersi nelle proprie comunità.

Con Qualcosa che sfiora l’utopia Michele Gerace invita il lettore all’azione, al confronto con il diverso, a coltivare l’immaginazione e a fare in modo che ognuno possa trovare il senso della propria esistenza offrendo la sua proposta alla Storia; nella consapevolezza che «le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono felice l’uomo»[3].


[1] Il cui titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia.

[2] Michele Gerace, Qualcosa che sfiora l’utopia, p. 112: «La crisi dell’Unione europea, del Mondo per quanto e come lo conosciamo, è una crisi di coscienza perché la società è in crisi, perché noi siamo in crisi».

[3] Václav Havel, Il potere dei senza potere, Itaca Edizioni / La casa di Matriona, Bologna 2013.

Scritto da
Alfredo Marini

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università LUISS “Guido Carli” di Roma, giornalista pubblicista dal 2019, lavora come Junior Legal Counsel presso la società PagoPA S.p.A. Appassionato di Storia, tematiche riguardanti l’Unione Europea, relazioni internazionali, comunicazione e innovazione. Tra il 2019 e il 2022 ha lavorato presso la Presidenza del Parlamento europeo, è stato selezionato dall’Ufficio EPSO della Commissione europea come ambasciatore europeo della carriera, ha lavorato nel settore dell'europrogettazione nell’ambito delle politiche di coesione ed è stato studente della Scuola di Politiche fondata da Enrico Letta.

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