Quale modello di capitalismo per l’Italia? Intervento di Ugo Pagano
- 16 Gennaio 2021

Quale modello di capitalismo per l’Italia? Intervento di Ugo Pagano

Scritto da Ugo Pagano

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Pubblichiamo questo testo tratto dall’intervento, riveduto dall’autore, di Ugo Pagano al seminario svoltosi il 28 dicembre nell’ambito del ciclo “Ripensare la cultura politica della sinistra” promosso da Salvatore Biasco, Alfio Mastropaolo e Walter Tocci e dedicato alle politiche di governo nella società post Covid-19.


Per troppo tempo non si è voluto decidere quale modello di capitalismo dovesse caratterizzare il nostro Paese. Eppure la decadenza dell’economia italiana coincide proprio con il momento in cui l’Italia perde fiducia in quello che era stato il suo modo tipico di fare grande industria e cioè con le privatizzazioni degli anni Novanta. È proprio in quegli anni che inizia la decadenza dell’economia italiana. Fino agli anni Novanta il sistema industriale italiano era stato caratterizzato da un’industria pubblica forte, complementare alle piccole imprese private. La vendita delle industrie pubbliche mise all’ordine del giorno il problema del nanismo delle imprese private italiane e di come si poteva fare in modo che la fine dell’impresa pubblica non coincidesse con la fine della grande industria italiana. Il ruolo svolto dalle imprese pubbliche doveva essere rimpiazzato da grandi imprese private. Si pensava che parte di queste sarebbe stato costituito dalle grandi imprese ex-pubbliche ora privatizzate e si riteneva anche che altre grandi imprese private sarebbero emerse grazie a riforme che ne avrebbero favorito la crescita dimensionale e la loro la trasformazione in imprese manageriali.

I sistemi canonici atti a favorire il passaggio da piccole imprese familiari a grandi imprese manageriali erano, e sono tutt’ora, due.

Il primo è il sistema americano. Esso è caratterizzato da alcune leggi ferree che fanno sì che la famiglia finisca per perdere il controllo dell’impresa quando essa supera una certa dimensione. Ciò avviene attraverso la diluizione della quota della famiglia dovuta all’aumento del capitale azionario di altri soci e la necessità di trovare manager che abbiano la fiducia della maggioranza degli azionisti. Attraverso questa modalità sono nate le public company, le grandi imprese americane manageriali, nelle quali c’è una selezione interna dei dirigenti con meccanismi e regole che rendono possibile una carriera interna all’impresa.

Il secondo sistema è quello tedesco: quando l’impresa supera un certo numero di dipendenti, si formano due consigli di amministrazione. La famiglia si ritira in un consiglio superiore di amministrazione, di cui fanno parte anche i sindacati. Questo consiglio ha compiti di indirizzo generale e nomina il management operativo, che forma un altro consiglio di amministrazione subordinato agli indirizzi strategici di quello composto da proprietari e sindacati. Anche in questo modello si crea un sistema di gerarchie e di carriere interne tipico della grande impresa. La famiglia proprietaria ha spesso compiti di indirizzo strategico insieme ai sindacati ma non interferisce con i compiti esecutivi del management e, mentre nomina i top manager, non interferisce con la carriera manageriale interna alla organizzazione. Spesso la cogestione salva la famiglia da se stessa impedendo a membri non idonei della famiglia di svolgere funzioni manageriali.

L’Italia non ha mai avuto nel settore privato dei meccanismi che rendessero possibile una carriera manageriale indipendente dai legami familiari. Anche nell’unica grande impresa privata italiana, la Fiat, i top manager (quando non appartenenti alla famiglia) sono stati quasi sempre selezionati al di fuori dell’impresa usando i meccanismi di selezione di altre grandi imprese. Quando le medie e grandi imprese private italiane hanno dovuto assumere dei manager di alto livello si sono affidate ai meccanismi di selezione delle grandi imprese tedesche e americane o dell’impresa pubblica italiana.

Sempre negli anni Novanta crollò il mito della piccola impresa. Il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale portò ad un nuovo gigantismo industriale. Le piccole imprese continuarono ad avere un ruolo ma ancora di più in sinergia con le grandi imprese. Si perse così fiducia anche nel nostro modello basato su piccole imprese private. Proprio mentre le grandi imprese pubbliche venivano in gran parte privatizzate cominciava a svanire il mito del “piccolo è bello”.

Le imprese di proprietà dello Stato furono trasformate da enti pubblici in società per azioni e, in tutti i casi, le azioni furono vendute in borsa per fare cassa. Vi fu tuttavia una forte divaricazione nelle strategie di privatizzazione delle diverse imprese.

In alcuni casi si creò, magari involontariamente, un nuovo modello nel quale le imprese pubbliche continuarono ad avere una forte partecipazione minoritaria dello Stato. Le imprese erano così sottoposte a un controllo duale. Lo Stato continuava a scegliere il management e al tempo stesso la borsa monitorava la loro efficienza. Si formò quindi un doppio sistema di controllo (mercato azionario e Stato) tuttora tipico di gran parte del sistema delle grandi imprese italiane. Le imprese che hanno adottato questo sistema (Eni, Enel, Fincantieri, ecc.) hanno raggiunto dei buoni risultati.

In altri casi le imprese privatizzate sono passate inizialmente sotto il controllo familiare (Telecom, Ilva, Autostrade, ecc.) riconfermando tutti i limiti del sistema di gestione familiare della grandi imprese che caratterizza l’Italia. Abbiamo così ottenuto un vero “paradosso dalle privatizzazioni”: fatte per superare l’inefficienza dell’impresa pubblica hanno confermato tutti i limiti della grande impresa privata italiana. E tuttavia alla radice di questo sorprendente paradosso c’è una causa abbastanza ovvia: se non si crea un modello alternativo di capitalismo nel settore privato, l’unico modello per fare grande impresa in Italia resta sostanzialmente l’impresa pubblica.

Vi sono elementi di crisi comuni a tutti i Paesi a capitalismo avanzato, ma c’è una questione specificamente italiana da prendere in considerazione. La crisi del sistema italiano è legata soprattutto all’incapacità di creare grandi imprese. A fronte di questa situazione sarebbero necessari per lo meno due indirizzi di politica industriale. In primo luogo, occorre non demonizzare ma anzi aiutare le impresa pubbliche a essere innovative e dinamiche – come hanno fatto la Cina, Singapore e la Francia, tutti Paesi che non sembrano vergognarsi delle loro imprese pubbliche. In secondo luogo, per le imprese private occorrerebbe scegliere un sistema atto a favorire la loro crescita dimensionale e una migliore qualità del loro management. Se si perseguissero questi due obiettivi si potrebbe chiudere un capitolo molto negativo per la sinistra italiana che è stata abbagliata da una serie di falsi miti: la preferenza alla piccola impresa nel momento in cui si affacciava il nuovo gigantismo industriale, l’idea che le imprese pubbliche fossero necessariamente disfunzionali proprio mentre cominciavano ad aggredire i mercati globali le imprese pubbliche cinesi e infine l’idea (e anche l’ideologia di tanti economisti) di una necessaria importazione di un superiore modello americano, ben poco compatibile con il nostro modello imprenditoriale in cui come in Germania, sono presenti famiglie e sindacati forti.

Non si può continuare a non scegliere o a far finta di scegliere lasciando la scelta al singolo imprenditore. La scelta del modello adottato per costruire grandi imprese è necessariamente una scelta sistemica. La scelta del modello americano nacque da scontri, spesso roventi, tra le grandi famiglie capitaliste e una società che, non sopportando la monopolizzazione del sistema economico, reagì con leggi adeguate a contrastare il potere delle grandi dinastie capitalistiche. In Germania la scelta avvenne in modo ancora più traumatico come reazione alla tragica alleanza dei grandi industriali con il nazismo. In entrambi i casi le scelte furono sistemiche e obbligarono a seguire un particolare modo di organizzare le grandi imprese.

Con la riforma Draghi l’Italia ha fatto finta di scegliere demandando la scelta al singolo imprenditore: ogni grande impresa ha potuto seguire il modello tedesco o il modello americano o ancora lo status quo. E non è affatto sorprendente che lo status quo prevalga come sarebbe successo in Germania e Stati Uniti se non fossero stati imposti dei precisi vincoli legislativi. Il nostro modello va riformato a livello sistemico. Si tratta di una decisione non più rimandabile. Questa riforma non può essere fondata su un atto di buona volontà delle imprese. Si deve tradurre in norme e in processi, vincolanti per le grandi imprese, che tengano conto di tutta la complessità della loro gestione. Non possono essere certamente solo rappresentati gli interessi delle grandi famiglie ma devono anche essere adeguatamente rappresentati gli interessi dei lavoratori e della comunità in cui l’impresa si inserisce. Solo così il nostro sistema economico potrà diventare più efficiente e più vicino ai requisiti richiesti da una società democratica.

Scritto da
Ugo Pagano

Professore ordinario di Politica economica all’Università di Siena e Direttore del Dottorato congiunto in Economia delle Università di Firenze, Pisa e Siena. Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Lelio Basso. Laureato all’Università di Siena, ha conseguito il dottorato di ricerca in Economia presso l’Università di Cambridge, dove è poi è stato docente e membro del Pembroke College. Autore di numerose pubblicazioni su riviste internazionali.

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