Recensione a: Guido Pescosolido, La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia, Donzelli, Roma 2017, pp. 170, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Fabio Milazzo
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Per quanto la questione meridionale non sia di fatto mai sparita dalle attenzioni di storici e studiosi – non soltanto meridionalisti – fin dall’Unità, la faccenda è ben diversa per quello che riguarda il discorso politico. All’interno di questo la questione meridionale, invece, appare e scompare carsicamente più sull’onda di particolari congiunture emotive e di studiate strumentalizzazioni politiche, che di una strategia di medio e lungo periodo volta a risollevare la «condizione economica, sociale, civile e politica del Mezzogiorno nel contesto dello sviluppo storico nazionale» (p. 3).
Per molti versi il discorso pubblico ha risentito di questa attenzione spesso strumentale e sviluppato un proprio modo di relazionarsi alla questione, basata più sulle sollecitazioni «scandalistiche che hanno pervaso tanta parte della cultura giornalistica e delle forze politiche secessioniste e antinazionali» (p. 3), che sulle risultanti di «una verità storica scientificamente documentata e controllata» (p. 3). Il risultato è il successo di narrazioni divisive, dalla chiara impronta polemica e antistorica (nel senso che ontologicamente si configurano come alternative alle verità storiche).
Alla luce di tutto ciò libri come La questione meridionale, di Guido Pescosolido, ordinario di Storia Moderna all’Università «La sapienza» di Roma, sono doppiamente necessari: sia perché programmaticamente si rivolgono a un «pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori» (p. 3); sia perché lo fanno in maniera documentata e controllata, cioè intersoggettivamente verificabile. E non si ribadirà mai abbastanza quanto bisogno ci sia oggi di libri scritti con metodo scientifico, vale a dire secondo una procedura rigorosa e accertabile, soprattutto per trattare temi fortemente divisivi che, ancora dopo 150 anni, riescono a scaldare gli schieramenti e a sollecitare gli animi.
Tra questi un valore tutto particolare deve essere riconosciuto alla «storia di quello che a tutt’oggi rimane l’unico grande problema irrisolto tra quanti nel 1861 il neonato Regno d’Italia si trovò ad affrontare» (pp. 3-4): il divario economico Nord-Sud. E giustamente, in tale ottica, Francesco Barbagallo ha intitolato il volume che ha scritto sul tema La questione italiana, a sottolineare come il problema riguardi la nazione tutta e non solo una parte di essa[1].
Le scansioni fondamentali della questione meridionale secondo Pescosolido
Il libro di Pescosolido tira le fila di un discorso a cui l’Autore lavora da tempo e che solo recentemente è stato sviluppato in un altro volume: Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia [Rubbettino, 2017]. Qui egli, attraverso un’articolata massa di dati, informazioni e rimandi, sottolinea la complessità della faccenda e, soprattutto, l’impossibilità di considerarla solo una questione economica, essendo essa al contempo effetto di nodi sociali, geo-politici e civili di lungo periodo. Alla luce di ciò l’Autore, già nell’Introduzione del volume, fissa alcuni punti fermi a cui è giunto nella sua decennale riflessione:
Posti questi punti fermi, che hanno il merito una volta esplicitati di inquadrare la narrazione di Pescosolido e l’ermeneutica di fondo che la organizza, l’Autore afferma che a parer suo c’è stato un momento «in cui lo Stato italiano avrebbe avuto tutte le possibilità di annullare il divario Nord-Sud» […]. E quel periodo è stato quello successivo al miracolo economico, a partire cioè dalla seconda metà degli anni sessanta col rinnovo del finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno» (p. 6). Tesi forte, non scontata, se consideriamo quanto la Cassa abbia assunto nel discorso politico e nell’immaginario collettivo il valore paradigmatico di strumento di spreco e di malaffare. Ma è proprio la lunga consuetudine di Pescosolido con i dati e le informazioni riguardanti il rapporto Nord-Sud a consentirgli tesi come questa che, come lui stesso ammette, sono soggettive e, per certi versi, arbitrarie ma argomentabili. Fu infatti durante gli anni del miracolo economico – sostiene l’Autore – che non soltanto il Settentrione, ma l’Italia tutta «raggiunse l’obiettivo di divenire una società autenticamente industriale» (p. 7) e ciò mise il sistema-Paese nell’irripetibile condizione di uno slancio economico «non drogato dal debito pubblico, dall’inflazione e poi dalla svalutazione, come quello che invece fu realizzato negli anni ottanta-novanta del secolo scorso» (p. 7).
Ma negli anni Settanta l’Italia «prese un’altra strada, e non a causa delle crisi petrolifere che colpirono come l’Italia tutti gli altri paesi industrializzati, ma a causa soprattutto del mutato clima nelle relazioni industriali e nelle linee strategiche adottate da movimenti sindacali e grandi forze politiche» (pp. 7-8). Il risultato di ciò fu «un’espansione dei salari, dei consumi, del welfare, della spesa pubblica, nettamente superiore agli incrementi di produttività realizzati in tutti i campi della vita privata e pubblica» (p. 8). Tesi scomoda questa, seppur retrospettivamente giustificabile alla luce della situazione successiva. Pescosolido, nella sua disamina, ritiene anche altri i fattori che hanno impedito all’Italia di cogliere il momento giusto per ridurre il divario e portarlo su livelli da paese industrializzato normale: il fallimento delle classi dirigenti meridionali, dimostratesi incapaci di gestire proficuamente i fondi messi a disposizione dalla Cassa per il Mezzogiorno prima, dall’Europa poi; l’azione dei Tar, istituiti nel 1971, e ritenuti responsabili di rallentamenti costanti e di ostinata opposizione a «qualunque procedimento amministrativo» (p. 8); e ancora la riforma del Titolo V e il successivo inasprimento delle tensioni istituzionali tra Stato, regioni ed enti locali.
Dagli anni Settanta in avanti la situazione è peggiorata e, venute meno le condizioni ottimali per migliorare la condizione del Sud, è tutto il Paese ad essere andato incontro a un progressivo peggioramento economico e finanziario. Soprattutto in riferimento a un’Europa all’interno della quale è l’Italia stessa ad essere diventata questione, tanto da essere posta di continuo davanti allo spauracchio di un’amministrazione controllata.
Le responsabilità della situazione sono diverse e anche in relazione a ciò Pescosolido va dritto al punto: se la politica e le classi dirigenti non sono state in grado di sfruttare i fondi, le risorse a disposizione e le congiunture favorevoli, anche la società civile nel suo insieme si è dimostrata incapace di arrestare il ristagno e la decadenza. Attestare le molteplici colpe e le plurime responsabilità se da una parte rischia di favorire una generale deresponsabilizzazione, dall’altra ha l’indubbio merito si segnalare sul piano analitico la complessità dei fattori in gioco, che non possono essere cancellati o ridotti in nome di una illusoria e semplicistica comprensione della questione. Come si risolve allora la questione italiana? Secondo l’Autore innanzitutto rilanciando gli investimenti e la crescita produttiva, diminuendo la disoccupazione, bloccando la partenza verso l’estero di ricercatori, studiosi e giovani brillanti, ma anche adottando politiche adeguate per ridurre il numero di cittadini sotto il livello di povertà. Questo perché – è la tesi centrale del volume – solo quando l’Italia avrà consolidato la sua crescita in termini assoluti, anche il Mezzogiorno si troverà nelle condizioni per ridurre lo svantaggio nei confronti della macro-area settentrionale.
La condizione attuale
Nel volume, dopo aver analizzato le radici di «un problema antico e irrisolto» (pp. 17-26), aver mostrato la genealogia e gli sviluppi dei due diversi livelli di arretratezza che riguardano il Nord e il Sud d’Italia, nei loro rispettivi termini di paragone (pp. 27-64), l’Autore affronta – in un capitolo particolarmente interessante per la sua chiarezza e solidità (pp. 65-76) – i termini e le cause di un divario aggravatosi in due snodi economici e politici particolarmente traumatici per l’economia del Mezzogiorno: l’estensione al Sud Italia, a partire dal 1861, «del regime doganale liberista che significò l’abbattimento dall’oggi al domani dell’80% della barriera protettiva rispetto alla concorrenza esterna» (p. 66); il passaggio da una politica fiscale blanda, quale era quella borbonica, a «una che tassava molto e spendeva ancor di più» (p. 66).
Eppure, da soli, i due snodi non spiegano la costruzione del divario, anzi –come evidenzia l’Autore – questi due elementi vennero pian piano metabolizzati dal Sud che riuscì, in un secondo momento, a trarne benefici, in particolare per lo sviluppo dell’agricoltura (p. 70), tanto che l’introduzione della tariffa protezionistica del 1887 (p. 83) penalizzò alla fine proprio l’agricoltura meridionale più dinamica e avanzata (p. 84). E fu in questa congiuntura che la scelta politica di favorire, in nome degli interessi della Nazione, lo sviluppo dell’industria a Nord, penalizzò l’imprenditoria agricola meridionale più dinamica, di fatto sancendo la sudditanza del Meridione nei confronti dell’industria italo-settentrionale (p. 85). Infatti «il Mezzogiorno fu costretto […] ad acquistare i prodotti industriali del Nord a prezzi più alti rispetto a quelli dei prodotti stranieri sottoposti al dazio» (p. 85). Ciò determinò, per la prima volta dall’Unità, un periodo di flessione per il Pil del Mezzogiorno che solo nel 1896 sarebbe tornato ai livelli del 1887 (p. 85). Non si può ovviamente ridurre l’intera vicenda del divario a queste contingenze, ma è nella storia degli effetti di queste scelte strategiche che va ricercato il fissarsi di un destino i cui sviluppi sono ben noti.
Guido Pescosolido sviluppa gli argomenti che abbiamo passato in rassegna in 12 capitoli, seguiti da una conclusione che tira le fila del discorso e che sottolinea come la storia del divario Nord-Sud non sia una storia conclusa ma neanche una vicenda unica, infatti «dislivelli territoriali di non grandi dimensioni esistono in effetti in tutti i paesi sviluppati dell’Occidente» (p. 163), questo per dire che un livellamento assoluto è assurdo, oltre che non auspicabile, poiché questa condizione «si può avere solo in condizioni di estrema povertà» (p. 163). Ma non è una storia conclusa perché dopo la crisi del 2008 il divario, che abbiamo detto essere entro certi limiti comune, «resta di gran lunga il più consistente dell’Occidente (p. 163) e per questo pone una serie di urgenti interrogativi alla società italiana, ma innanzitutto alla sua componente politica, inaggirabili e urgenti. È la ragione per cui, secondo l’Autore, «occorre realizzare sostanzialmente e compiutamente riforme politiche-istituzionali a livello nazionale (magistratura, rapporto Stato-regioni, ordine pubblico, scuola, cultura) e regionale (assistenza sanitaria, servizi sociali), producendo uno sforzo veramente deciso di moralizzazione e miglioramento professionale della classe dirigente meridionale» (p. 164), sul cui livello sono concordi buona parte dei meridionalisti di ieri e degli analisti di oggi. Inoltre bisogna avere il coraggio politico di rilanciare «l’intervento pubblico non con intenti clientelistico-assistenziali, ma ricreando nel Mezzogiorno una capacità di offerta di beni e servizi affidata non allo Stato imprenditore, ma a un’industria privata messa in condizioni di operare in un contesto attrattivo e sicuro […]» (p. 164).
In conclusione un volume utile, sorretto da alcune interpretazioni e prese di posizioni nette, che non mettono in ombra la chiarezza espositiva e la lucidità con cui viene affrontato l’argomento. Un ulteriore utile tassello per la comprensione della questione a beneficio non solo degli studiosi ma, più in generale, di tutti gli interessati all’argomento.
[1] Sul libro di Barbagallo mi sia consentito il rimando alla recensione da me scritta per Pandora Rivista: “La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi” di Francesco Barbagallo, «pandoravista.it», 18 ottobre 2017.