Recensione a: Raffaele Alberto Ventura, Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Einaudi, Torino 2020, pp. 248, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Alessandro Aresu
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Provo istintiva simpatia per Raffaele Alberto Ventura. Non solo per l’attenzione che ha dedicato al mio lavoro sul capitalismo politico e a quello di Simone Pieranni sulla potenza digitale cinese in una riflessione su La Stampa.
Ventura è interessante per il modo con cui svolge la sua professione intellettuale, secondo tre principali canali: stare fuori dall’accademia ma traendo spunti anche da dibattiti universitari; contribuire a imprese culturali europee come Le Grand Continent; cazzeggiare su Internet.
Queste tre dimensioni si completano, e si ritrovano nel libro Radical Choc, nei suoi riferimenti bibliografici, negli spunti, nelle dimensioni che esplora. Tra le citazioni filosofiche e letterarie del testo, spiccano due riferimenti: Ibn Khaldun, “erudito autodidatta” ospite frequente degli scritti di Ventura; Lino Aldani, importante e dimenticato scrittore italiano di fantascienza, che viene citato in alcuni momenti fondamentali del testo, che sono forse i passaggi letterariamente più belli.
Il libro è l’ideale completamento di una “trilogia del collasso” i cui volumi precedenti (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti) sono apparsi per Minimum Fax a partire dal 2017, e in parte il collegamento si ha attraverso un saggio di Ventura presente nella raccolta The Game Unplugged (Einaudi 2019).
Radical Choc intende raccontare l’ascesa e la caduta dei competenti. Il termine “competenti” nel dibattito italiano è utilizzato con un’accezione orgogliosa o denigratoria. Talvolta sfocia nella comicità involontaria, o forse volontaria, come negli annunci di un “governo dei competenti” prossimo venturo da cui taluni depositari della patente di competenza tendono a dissociarsi con indignazione.
Il libro comincia dal paesaggio della pandemia, in cui «è parso di rivivere la crisi di legittimità che aveva travolto la scienza economica dopo l’esplosione della bolla dei subprime in America» (p. VI). Fin dall’inizio, delinea l’obiettivo: «non avrebbe senso scrivere un libro per mettere in discussione che i competenti sono in grado di produrre dei saperi utili; lo abbiamo invece scritto per riflettere sullo scarto tra quello che agli esperti viene chiesto e quello che possono fare» (p. VII). Questo tema è sviluppato attraverso tre concetti: la produzione di sicurezza come riduzione del rischio attraverso apparati e saperi; l’idea che la competenza produca rendimenti decrescenti, non all’altezza degli investimenti collettivi né delle aspettative; la “disrupzione” della ragione, che caratterizza la reazione all’indebolimento del paradigma di produzione della sicurezza.
Il mondo alle prese con il coronavirus illustra il ruolo della tecnologia come amplificatore di rischi. Ciò che ci connette, ci colpisce. Ci rende vulnerabili. La società della sicurezza odierna è anche una società del rischio: qui Ventura riprende Ulrich Beck, “il più importante intellettuale pandemico”, per dirla con Adam Tooze. La nostra società, scrive Ventura, «non può permettersi di fermarsi, altrimenti non riuscirebbe a intervenire sui problemi che ha precedentemente creato: essa è costretta ad accelerare per inseguire se stessa, inanellando sempre nuovi problemi e nuove soluzioni, all’infinito – o per meglio dire, finché riesce a finanziare la sua corsa» (p. 8).
La legittimità dei poteri, e delle competenze che li fondano, sta dunque nella capacità di mantenere le promesse. Sta nella capacità di edificare promesse su promesse. Compito di una “classe professionale-manageriale” sempre più centrale nelle dinamiche delle società novecentesche, in cui si tengono insieme il pubblico e privato e diversi generi di competenze.
In che contesto si muove la «classe professionale-manageriale» descritta da Ventura? Nel vortice della burocratizzazione, perché «alla legge ferrea dell’oligarchia si sostituisce la legge ancora più rigida della burocratizzazione» (p. 63).
Qui il libro percorre una delle sue tracce più interessanti, dal punto di vista narrativo e teorico, attraverso un personaggio piuttosto folle ma di grande interesse come Bruno Rizzi, il quale in La Bureaucratisation du Monde (1939) riteneva «che il vecchio capitalismo fosse destinato in tutto il mondo a scomparire, sostituito da un nuovo ordine burocratico». Ventura percorre con efficacia le tracce di alcuni tra i principali lettori di Rizzi, come Trockij, Burnham, Debord, per cogliere la storia degli effetti del suo pensiero, esplicita ed implicita. La burocratizzazione del mondo in cui vive la “classe professionale-manageriale” è una tecnostruttura che tuttavia produce disordine, nel suo tentativo di ordinare e gestire.
La burocratizzazione del mondo coopta costantemente i suoi critici, più o meno consapevolmente. Ma conosce alcune frontiere insuperabili, come l’espansione delle grandi potenze, sempre alla ricerca di “frontiere infinite”, e dunque impossibili da mantenere. Questa produzione di ordine non riesce a corrispondere alla domanda crescente di sicurezza su cui essa stessa si basa. La delusione economica e la delusione tecnologica si toccano: «Investiamo sempre di più per ottenere sempre meno. Il dispositivo che secondo la dottrina keynesiana doveva regolare il ciclo economico, lo Stato, è entrato in una pesante crisi fiscale, che lo ha reso sempre più dipendente dai mercati finanziari. La produttività marginale del capitale ha continuato a diminuire insieme a quella del debito pubblico: per ogni euro o dollaro supplementare preso in prestito, la tecnostruttura ha generato sempre meno benefici per la collettività» (p. 184).
Lo “scacco” populista verso i competenti è per Ventura, in questi termini, un fenomeno secondario rispetto ai rendimenti decrescenti prodotti dalla competenza: «Amministrazione, conoscenza, legittimità: sono i tre prodotti principali dell’attività della classe competente, tre forme della sicurezza che quest’ultima deve garantire. Amministrare sempre più spazi e aspetti dell’esistenza, conoscere sempre più fatti e rischi del mondo, raccontare in modo sempre più convincente lo scambio su cui si basa l’equilibrio sociale. Ma la classe competente ha nella legge dei rendimenti il suo più acerrimo nemico» (p. 192).
Non mi soffermo su tutti gli aspetti toccati dal testo, che lascio scoprire al lettore. Vale la pena però di sottolineare un tema promettente toccato dal libro: la deviazione della “classe competente” verso la consulenza. Da un lato, Ventura ricorda che la grande impresa del primo Novecento si impone come una sorta di “stato socialista” (pp. 100-101) e poi come essa stessa una tecnostruttura: è al complesso pubblico-privato americano della grande impresa strettamente connessa col pubblico che pensa John Kenneth Galbraith negli anni Sessanta. Non esiste però ancora un’opera che fornisca un affresco sul paesaggio umano e sociale della consulenza. Sulle sue miserie e sulle sue grandezze. Sulla sua presa vampiresca nei confronti dei governi. Sullo svuotamento del centro propulsivo del capitalismo che è stata la grande impresa, accompagnato da un esercito di slide da adattare a seconda del committente e dell’incarico. Il vortice della consulenza assorbe la classe disagiata e i suoi figli più capaci, con la promessa dell’ambizione e della realizzazione economica. Prima di riconoscere rendimenti decrescenti, quando è troppo tardi.
Infine, una caratteristica essenziale del libro è anche un suo limite, o un’opportunità. Il paesaggio descritto, compreso quello finale della limitazione del “mondo della sicurezza”, è prettamente occidentale: europeo, anzitutto, e in parte statunitense. Pensiamo invece alle culture asiatiche, e in particolare al calderone che si ritrovava nell’ideologia politica propugnata dal demiurgo di Singapore Lee Kuan Yew negli anni Novanta. All’interno di quelle culture, seppur coinvolte anch’esse da rischi globali, è difficile pensare a un congedo dalla competenza, anche per come viene rappresentata nel libro: la saldatura tra formazione, burocrazia, tecnologia e sviluppo, in un contesto in cui l’individuo ha un valore limitato rispetto alla collettività, è molto meno intaccata. Lo scacco tra produzione di sicurezza e promesse non è un fattore così determinante. La soluzione “tecnopopulista” non è necessaria. Senz’altro ci sono luoghi-cerniera dove certe contraddizioni sono più evidenti, come Hong Kong, ma lo sono per la loro natura peculiare. Resta il fatto che una parte del globo molto rilevante per le dinamiche economiche e geopolitiche dei prossimi decenni, risulta meno coinvolta, rispetto a noi, dalle dinamiche di quello scacco. Ma anche per questo, il lavoro di Ventura ci riguarda intimamente.
Postilla sui competenti italiani
Nel 1974, Bruno Visentini, giurista del Partito Repubblicano, più volte deputato e ministro, nonché presidente di Olivetti, lanciò dalle colonne del Corriere della Sera il dibattito italiano sul rapporto tra tecnica e politica. Anche se il suo articolo è ricordato come esordio della controversia sul “governo dei competenti”, il discorso di Visentini era più lineare: «La funzione e l’arte del politico non possono essere sostituite dal semplice assolvimento delle funzioni tecniche. L’azione politica si proietta verso l’avvenire, con valutazioni di valore e con funzioni di scelte coerenti con indirizzi globali e di sintesi. Il tecnico è invece inevitabilmente e doverosamente legato al particolarismo analitico della sua competenza, con il rischio – come ben sanno coloro che hanno professionalità tecnica e impegno e piacere in essa – di essere indotto ad attribuire carattere di finalità al fatto tecnico e di considerare esaurito in esso il suo impegno». Né Visentini credeva in una sostituzione dei politici da parte dei tecnici: «Se i cattivi politici potessero essere sostituiti dai tecnici, il problema sarebbe, in un certo senso, meno difficile. La vera difficoltà sta nel fatto che ai politici incapaci occorre poter sostituire i politici capaci».
La determinazione di questa “capacità” non è mai facile da caratterizzare e porta a infinite polemiche. Che cos’è la competenza politica, qual è la sua natura profonda? Che cosa la chiarisce? Non aiuta l’indebolimento dei processi di formazione, né la controversia sulla loro legittimazione. Competenza politica è sempre anche comprensione dei processi della “burocratizzazione del mondo”, altrimenti si tratta di un impeto rivolto verso il vuoto. Ma deve essere anche capacità di leggere i fatti sociali e lo scenario internazionale, e di farlo in termini differenti dalla mera competenza scientifica.
La più brillante analisi della tecnocrazia in Italia è stata svolta da Natalino Irti, in un meraviglioso libretto dal titolo di chiara derisione montiana (Del salire in politica. Il problema tecnocrazia) pubblicato nel 2014 da Aragno e ripreso recentemente dal nostro maggiore giurista-filosofo in un articolo sul Sole 24 Ore.
Spaziando dall’arte al diritto negli anni Trenta, Irti ha indicato la distinzione cruciale: «Se competenza è sempre un sapere particolare, un sapere fare questo e non quello, allora non esiste una competenza generale, una competenza delle competenze, a cui spetti il giudizio sulle competenze particolari». Il compito della politica non può essere soppresso, perché ha a che fare col riconoscimento del conflitto tra competenze, con l’importanza di dirimerne la cacofonia prima che diventi pura violenza. I tecnocrati, invece, coloro che compiono il salto, «a ben vedere, non sono altro che tecnici impazienti, presi dal vortice della politica e dalla volontà di scegliere i fini».
Anche la ricerca dei fini deve riconoscere il dramma dei suoi rendimenti decrescenti, mentre cerca faticosamente di portare l’orizzonte sempre più in là. Evitando gli equivoci dei “governi dei competenti”.