Scritto da Alberto Prina Cerai
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Note su: Rapporto ISPI 2019, Scenari Globali e l’Italia: La fine di un mondo – La deriva dell’ordine liberale, a cura di Alessandro Colombo e Paolo Magri, conclusione di Giampiero Massolo.
Il quinto Rapporto ISPI (edizione 2019), redatto il febbraio scorso e pubblicato free-source sui circuiti del prestigioso istituto, è una guida densa ed esaustiva che si propone di fotografare la realtà internazionale, nella quale numerosi aspetti – principalmente politico-economici – vengono affrontati per fornire una valutazione e riflessione sulla politica estera italiana, chiamata a districarsi nell’ormai complesso e mutevole scenario geopolitico globale. All’introduzione, curata dal Direttore Paolo Magri e dal Professor Alessandro Colombo, seguono una serie di contributi di esperti e analisti, suddivisi in una parte dedicata ai quadranti regionali di più significativo interesse (e retaggio storico-politico) per il nostro Paese, oltre che ad una profonda e doverosa analisi del contesto occidentale e transatlantico.
Un mondo, quello delle liberal-democrazie, che continua a manifestare segnali poco incoraggianti. Sia dal punto di vista dei rendimenti economici, sia per quanto riguarda l’assalto sovranista e populista in alcune delle sue tradizionali roccaforti. Sin dalle prime pagine il lettore è indotto a riflettere sulle profonde radici di quello che viene definito come un «deconsolidamento» o «recessione» della democrazia[1]. Un processo che ha inizio già negli anni Settanta, con i primi tentativi di analisi e proposte di governance che vengono alla luce con i rapporti della Commissione Trilaterale[2]. Guardare alle lezioni di quegli anni, come prisma teorico per interpretare gli smottamenti che il Rapporto ISPI registra puntualmente nella tenuta dell’ordine internazionale liberale, è un esercizio utile. Lo shock degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica di fronte all’11 Settembre e alla crisi finanziaria del biennio 2007-08, seppur di matrice prettamente endogena al sistema, non poté essere sostanzialmente meno intenso di quello di statisti, uomini d’affari e osservatori che si ritrovarono ad affrontare le crisi petrolifere e il crollo del sistema monetario di Bretton Woods, segnali di un mondo già all’epoca sempre più interdipendente[3].
Né meno affannosa fu la ricerca di strategie per governare una crisi che nascondeva una transizione a dir poco epocale. Al tempo persisteva ancora il paradigma della Guerra Fredda come concetto normativo degli affari mondiali, ma scontava un retroterra ideologico (la lotta manichea tra capitalismo e comunismo) sempre più in contraddizione con la realtà dei rapporti di forza mondiali: l’emergere di nuove potenze, come Germania, Giappone e il risveglio della Cina, e attori non statali che sfuggivano, o tentavano di evadere con l’ambizione di assicurarsi spazi d’azione e legittimazione autonomi, la costrizione della struttura bipolare e l’ingerenza delle due superpotenze[4]. Di fronte a quella sfida, gli Stati Uniti (epicentro dell’ordine liberale) intrapresero – coerentemente o meno – un profondo ripensamento delle fonti della loro egemonia e degli strumenti per perpetuarla nel mutato contesto economico, che nel medio-lungo periodo li avrebbe posti in una posizione nuovamente favorevole per sfidare la leadership sovietica[5]. Fu una corretta valutazione della transizione in atto e infine una strategia vincente. Al netto di quello che seguì, con la svolta neoliberale degli anni Ottanta e le sue ripercussioni oltre che le criticità del modello di sviluppo che tuttora impera.
Tuttavia, le crisi indussero una profonda introspezione che si tradusse in una correzione strutturale dell’ordine sorto nel 1945, per ovviare tanto alle sue contraddizioni interne quanto riflettere una gerarchia internazionale non più strettamente declinabile nella competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi, dopo più di un decennio dalla crisi finanziaria, a che punto siamo? Da quel turning point mosse concrete per una governance globale concertata sembrano non pervenire, mentre continuano a manifestarsi scosse d’assestamento di quell’ordine internazionale liberale che pare introflettere su sé stesso. A partire dalla crisi dei suoi pilastri, valori e principi.
Gli Stati Uniti, che si voglia o meno, rappresentano la cifra della modernità occidentale. Leggere la parabola politico-economica americana significa, in qualche modo, riflettere sullo status e sul presente sempre più incerto della democrazia latu sensu. L’elezione di Donald Trump nel 2016 pare aver rinforzato la tesi di coloro che sostengono che il presunto declino americano – in termini relativi rispetto all’ascesa economica del resto del mondo – abbia intaccato anche la dimensione politica, culturale nonché ideologica. E che così l’internazionalismo bipartisan si sia dissolto sotto i colpi della polarizzazione partitica, rendendo di fatto democratici e repubblicani sempre più discordi sul ruolo globale degli Stati Uniti. Un «declinismo» che tende a riaffiorare nel dibattito americano (e non) specie lungo la scia di crisi sistemiche, come fu dopo lo sciagurato avventurismo militare dell’amministrazione Bush Jr[6]. Tuttavia, riflettere sul fenomeno Trump solo dalla prospettiva americana risulta essere quantomeno riduttivo, soprattutto considerando l’afflato transnazionale dei populismi e sovranismi. Una dimensione che forse soltanto gli storici del futuro potranno restituire appieno. I suoi effetti, al contrario, sono già rintracciabili nella crisi dell’ordine liberale internazionale che la politica estera del tycoon repubblicano non ha fatto altro che aggravare. Un bilancio provvisorio che – come emerge dal rapporto ISPI – vede l’amministrazione Trump inserirsi in un lungo divorzio «dell’endiadi egemonia-multilateralismo che aveva contrassegnato la politica estera degli Stati Uniti al momento del passaggio dal sistema bipolare all’universo liberale degli anni Novanta»[7]. Una separazione ora estremizzata, nella retorica e nei mezzi, dal nazionalismo di Trump e stridente con l’approccio anti-eccezionalista e pragmatico di Obama, l’unico Presidente insieme a Carter a promuovere un «lessico post-imperiale»[8]. Infatti, è proprio un’analisi di ampio respiro – e non contingente – che ci mostra come la crisi del multilateralismo rifletta le diverse reazioni e strategie delle amministrazioni americane all’inevitabile erosione dell’egemonia americana: da quella “redistributiva” di Bush Sr., Clinton e Obama (promuovendo la distribuzione di oneri e doveri nella gestione dell’ordine) alla convinzione di Trump che il multilateralismo non sia altro che «una trappola per moltiplicare gli impegni»[9]. Approcci e discorsi che, in modi diversi e seguiti da risultati ambigui, hanno tentato di affrontare e non subire la realtà di un’arena globale sempre più multipolare.
Un mondo sempre meno a immagine e somiglianza degli Stati Uniti e, di converso, più sospettoso della liberal-democrazia, della sua resilienza. È chiaramente un’esagerazione ritenere che la democrazia, in quanto tale, sia in crisi. Lo sono, dunque, più i suoi contenuti? È una crisi strutturale o una crisi identitaria? Forse entrambe. Assistiamo, in breve, ad una «progressiva divaricazione tra democrazia e liberalismo», risultato di una «contro-rivoluzione» che vede ormai l’affermarsi di regimi illiberali – democratici nella forma, autoritari nei contenuti – legittimatisi come baluardi anti-establishment e alfieri dei “perdenti” della globalizzazione[10]. Populismi e sovranismi che hanno capitalizzato, in termini elettorali, processi di lungo periodo: la «crisi fiscale» che «vede da un lato una riduzione dei tassi di crescita e, dall’altro, un costante aumento delle spese statali», un circolo vizioso destinato ad aumentare «la pressione tributaria e dunque a sottrarre risorse all’accumulazione»[11]. Infine, la «crisi di governabilità» degli stati democratici indotta dallo scollamento tra cittadini e classe politica e, sul piano esterno, «la relazione problematica tra democrazia e ordine internazionale», sottoposto ad una torsione tra l’affermazione dei diritti umani e il principio di sovranità[12].
Una dinamica che, forse, è anche il riflesso della fine di quell’era americana caratterizzata dagli Stati Uniti come centro gravitazionale del sistema capitalista occidentale. Un ordine economico che ha costruito la sua identità politica rispecchiandosi nell’Atlantico e nella «comunità d’interessi» tra le due sponde, come scrisse lo storico della NATO Lawrence S. Kaplan. Ed è proprio quest’ultima, pilastro dell’ordine post-1945, a dimostrare l’eterna convivenza tra crisi d’identità e costante rilevanza di uno strumento che aveva vinto la Guerra Fredda, ma sembrava aver perso la pax democratica, con l’espansione a Est e gli interventi fuori-area. Eppure, il presagio della sua obsolescenza «era più giustificabile negli anni Novanta, quando lo strapotere degli Stati Uniti era incontrastato e le minacce sull’Europa molto meno preoccupanti»[13]. Ora, con una Russia più assertiva e il caos mediorientale, è evidente che lo iato tra la retorica di Trump – impregnata dalla costante propaganda elettorale – e la strategia dell’amministrazione sembra risolversi a favore di una «foreign policy community americana» del tutto contraria ad un ridimensionamento dell’impegno statunitense nella difesa dell’Europa.
L’Unione Europea, altro pilastro dell’ordine internazionale e massima espressione dei suoi principi liberal-democratici, sta affrontando una fase delicata. Scritto qualche mese prima delle elezioni europee, il rapporto ISPI dedica una sezione ad analizzare le concause della deriva sovranista e populista che sfida il progetto d’integrazione, non mancando di intuire come tali forze si stiano spostando su «posizioni maggiormente riformiste», volte a ridurre il peso sovranazionale «per dare [più] voce agli Stati membri»[14]. Tra i vari fattori che hanno contribuito alla rivolta illiberale vi sono gli effetti distorsivi della globalizzazione – dalla fallace governance finanziaria, alle disuguaglianze crescenti passando per le politiche di austerità che non hanno mantenuto fede «alla promessa di integrare welfare e libero mercato»[15]; la paura e un senso d’insicurezza diffuso (spesso strumentalizzato a fini elettorali); i primi segnali della disruption tecnologica, specialmente nella tribalizzazione della politica e nella polarizzazione dell’elettorato; e infine la crisi d’identità politica dell’Europa, che riflette una generale sfiducia nel liberalismo, soprattutto per l’incapacità delle élite di comprendere «il ruolo di delle identità culturali e il loro legame con le identità politiche nella costrizione di istituzioni legittime»[16].
Se l’impasse in atto a Bruxelles tende a limitare le capacità di governance dell’Unione Europea, la percezione sul ruolo di Washington, come scrive Leopoldo Nuti, non pare più rassicurante e sembra suggerire che l’amministrazione Trump voglia perseguire una «rottura radicale con il passato». Gli Stati Uniti, un tempo garanti dello status quo, «sarebbero divenuti essi stessi una potenza revisionista, intenta a scardinare le regole di un sistema internazionale che non ritengono più confacente ai loro interessi»[17]. E la manifestazione più eclatante di tutto ciò non può che essere la guerra dei dazi che, oltre a essere concepita come strumento negoziale contro la Cina e l’Unione Europea per via dei disavanzi commerciali, ben incarna la fiducia trumpiana nel bilateralismo e la sua crociata contro le regole del WTO. Un atteggiamento pericoloso che pare concretizzare l’ipotesi di una ridefinizione di «accordi plurilaterali» anche senza gli Stati Uniti, i quali «risulteranno più marginali e il loro ruolo nell’economia globale diminuirà ulteriormente»[18].
Sfruttando questa congiuntura favorevole, la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jimping – tramite strumenti e strategie differenti – non potranno che abbracciare l’attacco di Trump all’«universalismo liberale» a favore di una «politica globale dominata dalle grandi potenze»[19]. In questo scenario, la nuova strategia e l’identità russa risultano in forte contraddizione: da un lato si intravede un orientamento geoeconomico verso Oriente – seppur in un rapporto asimmetrico, in termini economici e demografici, con la Cina – mentre la storia culturale della Russia continua a specchiarsi con l’Occidente tanto inviso. Lungo le nuove Vie della Seta Pechino ambisce a tradurre il suo leverage economico in egemonia politica, nonostante l’imponente progetto eurasiatico – e parimenti la leadership di Xi Jinping – siano messi alla prova dalla guerra commerciale in atto con l’America di Trump. La risoluzione, o meno, di tale disputa è un «tema essenziale» per comprendere «le prospettive del mondo intero», segnato dalla fortissima interdipendenza che trascende le stesse «relazioni tra Washington e Pechino», condizionandone ambizioni e strategie[20].
Chiude l’analisi dei quadranti geografici il Medio Oriente, tornato al centro di una partita a scacchi tra potenze regionali. Anche in questo caso, la storia sembra persistere. Nel tardo 1978 il consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, Zbigniew Brzezinski, adottò l’idea che «un’arco di crisi», esteso dal golfo di Aden a Chittagong nell’Oceano Indiano, fosse divenuto la fonte di «massima vulnerabilità» per gli interessi energetici occidentali. Considerato il vuoto di potere e la possibile interferenza sovietica, per scongiurare tale epilogo solo due strade sembravano percorribili: una presenza militare americana permanente o il consolidamento di una rete di alleanze comprendenti Turchia, Israele, Egitto e Arabia Saudita[21]. Per l’implementazione – fallimentare – della prima opzione, si sarebbe dovuto attendere l’11 Settembre e l’esportazione militarizzata della democrazia da parte di Bush Jr. Oggi, l’amministrazione Trump sembra prediligere una grand strategy dominata dal contenimento dell’Iran, sfruttando l’antagonismo con il regime saudita e mostrando scarso interesse a stabilizzare una regione scossa dalla guerra civile siriana e dal permanere di crisi in Libia, Yemen e Iraq. Con la rinnovata agency di potenze esterne come Russia e Turchia, il mosaico in ultima analisi rimane estremamente complesso, condannando il Medio Oriente a «essere terra di disordine, forse la maggiore al mondo»[22]. Una stabilità, quella dell’economia mondiale, che pare ormai non essere più ostaggio delle turbolenze politiche dei paesi dell’OPEC come negli anni Settanta. Tuttavia, sono tre i problemi del XXI secolo che emergono dall’analisi di Franco Bruni: dalla crisi finanziaria non sembra esserci stata una ripresa consistente della crescita globale; il clima d’incertezza dato dal «disorientamento geopolitico», disincentivando la cooperazione internazionale, finisce per sottrarre i paesi dall’assumersi la responsabilità di riformare la governance della globalizzazione, già trascurata dopo la crisi del 2008-09; in aggiunta alla fragilità strutturale del sistema finanziario si insinua lo spettro della «crescita dell’indebitamento», dato che nell’ultimo decennio «il rapporto fra debito globali e PIL […] è cresciuto più di 20 punti»[23]. L’auspicio è un ritorno allo spirito che animò il G20 all’indomani della crisi, di maggior cooperazione e multilateralismo, riproponendo temi cruciali – welfare, lavoro, diritti e ambiente.
Nella seconda parte, due brevi e importanti paragrafi vengono spesi per riflettere sulla politica estera ed economica italiana nel quadro regionale ed europeo. Il primo contributo, firmato da Ugo Tramballi, traccia un primo resoconto dell’operato del governo giallo-verde che proprio in queste settimane ha visto la fine della sua corsa. Prigioniera di una retorica anti-sistema e in perenne debito di legittimità con il voto del 4 marzo 2018, la triade esecutiva Conte-Di Maio-Salvini non è riuscita, come in parte atteso, a costruire un’azione in politica estera coerente ed efficace, poiché appunto soffocata da un contratto di governo e un’economia fragili, oltre che costretta a confrontarsi con la realtà del vincolo esterno. Riducendo «i confini geopolitici dentro i quali definire l’interesse nazionale» tra questione migratoria e confronto con Bruxelles sui temi economici, il governo Conte non ha fatto altro che perseguire il «consenso elettorale interno»[24]. Il dossier sulla Libia, il rapporto con la Russia e le dinamiche di Lega e 5Stelle con i partiti euro-scettici hanno invece dimostrato scarsa autorevolezza, oltre che «il limbo nel quale vive oggi la politica estera italiana fra atlantismo ed europeismo da un lato, spinte populiste e richiami dall’Est dall’altro»[25]. Un disorientamento che si riflette anche nel rapporto economico-politico del nostro paese con l’UE, ben ricostruito nell’ultimo contributo. Dalla discussione sul contratto di governo, formulazione programmatica dei due partiti di maggioranza, fino agli episodi più caldi che hanno segnato il 2018 con la negoziazione della legge di bilancio tra Roma e Bruxelles, tra rinvii e richiami a una maggiore responsabilità monetaria. In definitiva sarebbe auspicabile, sentenzia Franco Bruni, che «il modo più importante e urgente di perseguire l’interesse nazionale [sia di] occuparsi intensamente delle trattativa sull’approfondimento dell’Eurozona […] e influenzarla opportunamente»[26].
Concludendo, entro la cornice di crisi delle pratiche diplomatiche (multilaterali) e della struttura di sfondo (l’ordine liberale internazionale) con i quali eravamo abituati a orientarci nel mondo post-bipolare, forse è tempo di abbandonare vecchie certezze e cogliere le opportunità di riforma di istituzioni cardine per evitare un definitivo collasso. Il rapporto ISPI ha il merito, in questo senso, di diffondere questa consapevolezza – l’urgenza di ridiscutere le priorità e gli imperativi strategici di lungo periodo, di abituarci ad un mondo sempre più competitivo e sempre meno interpretabile attraverso un solo prisma ideologico. Abbiamo bisogno di una «leadership che non subisce, chiudendosi […] i fatti del mondo, ma cerca di interpretarli e di trarne vantaggio per la collettività»[27], esposta in futuro a sfide tecnologiche e ambientali dalla portata globale.
[1] Alessandro Colombo e Paolo Magri, Rapporto ISPI 2019 – La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale, 18 febbraio 2019, p. 12.
[2] Ivi., p. 49.
[3] Per un’introduzione si veda Niall Ferguson, Charles S. Maier, Erez Manela, Daniel J. Sargent, The shock of the global: the 1970s in perspective, Cambridge, Harvard University Press, 2010.
[4] Odd Arne Westad, The Global Cold War: Third World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. Il più recente tentativo di rivedere le categorie concettuali della Guerra Fredda come paradigma delle relazioni internazionali del Novecento è Id., The Cold War: A World History, New York, NY: Basic Books, 2017; per una discussione puntuale si veda Mario Del Pero, “Interdependence and Antagonism”, «Diplomatic History», Book Review, 21 agosto 2019, https://doi.org/10.1093/dh/dhz029
[5] Daniel J. Sargent, A Superpower Transformed: The Remaking of American Foreign Relations in the 1970s, New York, Oxford University Press, 2015.
[6] Ivo H. Daalder, James M. Lindsay, The Empty Throne: America’s Abdication of Global Leadership, New York, Public Books, 2018; una disamina esaustiva del dibattito intorno all’11 Settembre è in Francesco Tuccari, “Ascesa o declino? Gli Stati Uniti nell’era globale,” «Rivista italiana di scienza politica», Vol. XXXV, No. 1, aprile 2005, pp. 135-147.
[7] Ivi., cit. p. 30-31.
[8] https://www.pandorarivista.it/articoli/intervista-mario-del-pero/
[9][9] Ivi., p. 35.
[10] Ivi., pp. 42-43.
[11] Ivi., p. 48.
[12] Ivi., p. 51.
[13] Ivi., p. 61.
[14] Ivi., p. 80.
[15] Ivi., p. 83.
[16] Ivi., p. 90.
[17] Ivi., p. 99.
[18] Ivi., p. 76.
[19] Ivi., p. 103.
[20] Ivi., p. 111.
[21] Sargent, A Superpower Transformed, pp. 286-87.
[22] Ivi., p. 113.
[23] Ivi., p. 129.
[24] Ivi., p. 140.
[25] Ivi., p. 148.
[26] Ivi., p. 152.
[27] Ivi., p. 171.