Scritto da Lorenzo Cattani
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Quando si parla di disuguaglianza vi sono due concetti che sono particolarmente diffusi e che fino ad oggi hanno rappresentato i criteri con cui veniva giudicata la “accettabilità” della disuguaglianza. Il primo concetto è quello della “trickle-down economics”, pietra angolare della politica economica del presidente Ronald Reagan, che ritiene che dando soldi ai ricchi, principalmente tramite esenzioni fiscali, la ricchezza si trasferirà “a cascata” anche ai ceti più bassi. L’idea è che i più ricchi, grazie all’effetto moltiplicatore dei tagli fiscali, potranno creare più posti di lavoro, garantendo quindi una riduzione della disoccupazione. Il secondo concetto riguarda la teoria della “produttività marginale, per cui le disuguaglianze rispecchino il divario fra individui qualificati e non qualificati e che pertanto le differenze fra le ricchezze di questi due gruppi rispecchino il contributo che ognuno di loro ha dato alla società. L’idea di avere società disuguali è quindi accettabile perché se i più ricchi hanno accumulato ricchezze grazie al loro talento e alla loro creatività, bisogna metterli in condizione di continuare ad innovare, creando così ancora più ricchezza che “a cascata” verrà trasferita anche ai gruppi sociali più vulnerabili.
Negli ultimi anni si è formata una letteratura, accademica e non, che ha mostrato come queste due argomentazioni non abbiano trovato riscontro nella realtà. Non è quindi un’esagerazione affermare che dall’approccio della “trickle-down economics” siano stati i più ricchi a trarne i maggiori benefici, nello specifico l’1% più ricco nella distribuzione del reddito.
I due grafici mostrano due diverse problematiche che aiutano però a capire l’entità del problema. Il primo grafico, elaborato dal Congressional Budget Office, si riferisce alla crescita del reddito dopo le tasse nei principali gruppi di reddito negli Stati Uniti. È evidente che il gruppo che maggiormente ha beneficiato della crescita economica negli ultimi anni sia l’1% più ricco e che gli altri gruppi siano stati lasciati indietro. Il secondo grafico invece è probabilmente più conosciuto del primo e mostra molto bene il divario venutosi a creare fra l’aumento della produttività e quello dei salari reali, la cui crescita è rimasta stagnante in praticamente tutte le economie sviluppate[1].
Il rapporto Oxfam si inserisce in questo filone della letteratura sulla disuguaglianza, portando avanti però un’operazione molto interessante focalizzata su quello che è successo nella parte bassa della distribuzione del reddito a livello mondiale. Sotto un certo punto di vista può essere rintracciato un parallelismo con Atkinson quando sosteneva che le diverse fortune delle persone siano intrecciate fra di loro[2], perché il rapporto Oxfam afferma che sia solo grazie alla stagnazione dei redditi più bassi se è stato possibile assistere ad un aumento spropositato della ricchezza dell’1% più ricco. Nel rapporto si sostiene infatti che della ricchezza globale prodotta nell’ultimo anno l’82% sia andato all’1% più ricco mentre il 50% più povero non avrebbe ricevuto alcun beneficio. Secondo un rapporto dell’International Labour Organization, la ricchezza dei miliardari di tutto il mondo solo in un anno sarebbe cresciuta di 762 miliardi di dollari, 7 volte la cifra necessaria per sottrarre alla povertà estrema 789 milioni di persone. Lo stesso rapporto dell’ILO segnala anche che quando si parla di disuguaglianze la differenza fra lavoratori qualificati e non qualificati non sia sufficiente a spiegare le disuguaglianze di reddito, a dimostrazione del fatto che la disuguaglianza è un fenomeno che deve essere analizzato e spiegato tenendo conto della sua complessità, che molto spesso va oltre il regno dell’economia e degli automatismi di domanda e offerta e che spesso e volentieri è influenzato da elementi culturali, politici e sociali.
Ma nello specifico su cosa si concentra il rapporto Oxfam? Di seguito verranno elencate le tematiche che sono sembrate più interessanti. Verranno soprattutto riportati i dati relativi alla condizione dei gruppi più svantaggiati e vulnerabili, tralasciando i dati sui redditi più alti.
Disuguaglianza di genere
Le donne sono indubbiamente uno dei gruppi più colpiti dalla disuguaglianza. Come afferma il rapporto «negli Stati Uniti le donne continuano a guadagnare soltanto il 79% di quanto guadagnano gli uomini e possiedono molto meno» e in molti paesi del mondo le dinamiche di potere in ambito famigliare e sociale limitano significativamente le donne nell’esercitare i propri diritti sui beni di loro proprietà.
La disuguaglianza di genere è fortemente influenzata da quella di reddito e molto probabilmente colmare il divario fra uomini e donne vorrebbe dire fare un importantissimo passo in avanti per ridurre la disuguaglianza, ma non solo. Il Fondo Monetario Internazionale nel 2015 ha pubblicato un paper i cui autori avevano studiato la disuguaglianza di genere in 140 paesi del mondo arrivando alla conclusione che la disuguaglianza di genere non solo sia legata alla disuguaglianza di reddito, ma che possa avere anche conseguenze macroeconomiche[3]. Ridurre la disuguaglianza di genere avrebbe effetti positivi sullo sviluppo e sulla crescita perché, in primo luogo, le donne sarebbero più propense ad investire quote importanti del proprio reddito nell’istruzione dei loro figli: una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, unitamente a guadagni maggiori, avrebbero un effetto importantissimo per le generazioni future dal momento che potrebbero contribuire in maniera cruciale all’aumento della partecipazione scolastica dei bambini. Allo stesso tempo però, il miglioramento della condizione femminile si tradurrebbe anche in crescita economica, poiché aumenterebbe il numero di “talenti” rintracciabili sul mercato del lavoro, garantendo così una migliore allocazione delle risorse, che potrebbe portare ad un aumento della produttività totale e ad un aumento del PIL. Come terza motivazione, avere una forza lavoro con una crescente partecipazione femminile garantirebbe una maggiore stabilità macroeconomica per quei paesi che hanno problemi con una forza lavoro che è invece in diminuzione. Questa stabilità sarebbe molto importante per il sistema pensionistico.
Il problema è che, come rileva il rapporto Oxfam, attualmente le donne sono anche chiamate a svolgere un lavoro di cura che spesso non è nemmeno retribuito, elemento che in moltissimi paesi danneggia l’uguaglianza di opportunità e rende più difficile alle donne l’accesso a strutture educative e sanitarie e che tende a relegarle in settori del mercato caratterizzati da lavori precari, poco retribuiti e molto spesso dannosi per la salute. Per dare una dimensione più concreta del problema, e questo è un punto forte del rapporto Oxfam, vengono forniti i casi di donne vere che lavorano in paesi in cui Oxfam opera e che sono state intervistate riguardo le loro condizioni lavorative. Particolarmente emblematico è il caso di Florida, ragazza di 22 anni operatrice di macchine da cucire che lavora in Bangladesh, in una fabbrica che rifornisce marchi da abbigliamento come H&M. Ogni giorno le viene comunicato un obiettivo che è normalmente irraggiungibile nel normale orario di lavoro 8-17 e che quindi richiede di fare molte ore di straordinario: a quanto pare la giornata lavorativa tipica di Florida è di 12 ore e, come ha dichiarato lei stessa in un intervista eseguita da Oxfam[4]
L’anno scorso ho lavorato fino a mezzanotte per un mese. Dovevamo tenere il ritmo della produzione ed eravamo obbligate a lavorare […] quando poi tornavo a casa dal lavoro dovevo pulire, cucinare e poi tornare al lavoro la mattina seguente. Andavo a letto alle 2 e mi alzavo alle 5:30 tutti i giorni.
Tuttavia, non si deve pensare che queste condizioni lavorative siano tipiche dei paesi in via di sviluppo. Il rapporto Oxfam segnala anche il caso delle dipendenti degli allevamenti di pollame negli Stati Uniti che sono soggette a terribili condizioni lavorative. Il rapporto segnala le dichiarazioni di Dolores, un’ex lavoratrice del settore del pollame in Arkansas che fa capire molto bene come la disuguaglianza di genere sia un serio problema anche nei paesi sviluppati
Eravamo cose senza valore…arrivavamo alle 5 del mattino…fino alle 11 o alle 12 senza usare il bagno…mi vergognavo a dire che dovevo cambiarmi i Pampers
Il rapporto specifica anche che lavori come questo sono anche pericolosi, poiché le lesioni da sforzo ripetuto possono essere così gravi che dopo un solo anno di lavoro le lavoratrici non riescono nemmeno a stendere le dita o tenere in braccio i propri figli.
Working poor
Un’altra argomentazione usata per difendere l’attuale status quo è che negli ultimi anni la povertà estrema è diminuita. In effetti il numero di persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno si è dimezzata fra il 1996 e il 2015, grazie soprattutto alla crescita economica delle economie emergenti e grazie ad un effettivo impegno politico che ha mirato all’eliminazione della povertà estrema. Quello che però non viene ancora discusso abbastanza è che nonostante questi dati, indubbiamente positivi, il 50% della popolazione mondiale continua a vivere con un reddito giornaliero compreso fra i 2 e i 10 dollari. Oxfam riporta il caso delle lavoratrici del settore dell’abbigliamento in Myanmar che nonostante guadagnino 4 dollari al giorno, il doppio della soglia di povertà estrema, hanno comunque difficoltà a mantenersi e molto spesso si indebitano, uno scenario che il rapporto tiene a precisare essere caratteristico di tutto il mondo. Anche in questo caso, questa situazione non può non essere vista alla luce di quanto successo in cima alla distribuzione dei redditi: il World Inequality Report 2018 avrebbe riportato che fra il 1980 e il 2016 l’1% più ricco avrebbe ricevuto 27 cent per ogni dollaro di incremento nel reddito mondiale, contro i 12 cent che invece avrebbe guadagnato il 50% più povero. Sarebbe quindi consigliabile innalzare la soglia di povertà e non limitarsi a giudicarla in base alle condizioni di povertà estrema, perché guardando solo a questo aspetto si rischia di tralasciare la situazione dei milioni di woorking poors presenti in tutto il mondo. Il rapporto Oxfam cita l’esempio della Banca Mondiale che, seguendo le raccomandazioni di Atkinson, avrebbe deciso di fissare la soglia di povertà a 3,20 dollari al giorno per i paesi a reddito medio-bassi e a 5,50 dollari per quelli a reddito medio alto[5]. Il rapporto giunge quindi alla conclusione che nella lotta alla disuguaglianza il ruolo del lavoro dignitoso e dei diritti dei lavoratori, soprattutto delle donne, siano elementi imprescindibili. Secondo il rapporto Oxfam il lavoro sarebbe da considerarsi dignitoso se fornisce:
Bisogna quindi smettere di pensare in termini di “minimo indispensabile” e di passare invece a una logica che miri a fissare degli standard che possano garantire “condizioni dignitose”. Dietro queste affermazioni vi sono anche delle motivazioni di efficienza del sistema: se i lavoratori devono vivere con salari di sussistenza è molto probabile che la domanda di beni e servizi subisca delle contrazioni che farebbero molto male all’economia. Da non ignorare è anche il fatto che i bassi salari possono anche dare il via a prestiti personali non garantiti che, come afferma il rapporto, «causano indicibili ristrettezze a milioni di persone e nel 2008 hanno messo in ginocchio l’economia globale».
Come fare quindi per risolvere questo problema e passare in concreto dalla logica del “minimo indispensabile” a quella delle “condizioni dignitose”? Il rapporto indica nei salari minimi e nella contrattazione collettiva due strumenti importanti che possono dare ai lavoratori gli strumenti per vivere dignitosamente e permettere, ad esempio, ai lavoratori danesi di Burger King di guadagnare 20 dollari all’ora contro i gli 8,90 di quelli statunitensi. Il problema però è che in molti paesi la contrattazione collettiva non esiste e il salario minimo anche se esiste è fissato a livelli molto più bassi rispetto a quelli di un salario dignitoso. Da un lato quindi bisogna rinforzare il ruolo dei sindacati, che negli ultimi anni hanno conosciuto un declino costante nel loro potere contrattuale, soprattutto per quei paesi con un settore informale molto sviluppato (degli esempi importanti sono quelli del Malawi, del Senegal e dell’Algeria che hanno creato sindacati per il settore informale o hanno esteso le tutele sociali anche ai lavoratori informali), mentre dall’altro vanno stabiliti salari dignitosi che garantiscano cibo nutriente, acqua pulita, alloggio, abbigliamento, istruzione, cure sanitarie, riscaldamento, cura dell’infanzia e trasporti, oltre a consentire di accantonare una quota di risparmio.
Conclusioni sul rapporto Oxfam: che cosa si può fare?
Quando si parla di disuguaglianza e di come ridurla la soluzione, come afferma Atkinson, non può essere “Pareto efficiente”, l’ottimo paretiano si realizza quando l’allocazione delle risorse è tale che non è possibile apportare miglioramenti paretiani al sistema, cioè non si può migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro. Ridurre la disuguaglianza vuol dire che alcuni strati della società staranno peggio di prima: purtroppo limitare la disuguaglianza non comporta soluzioni “win-win”. Il rapporto Oxfam presenta alcune possibili soluzioni che partono tutte da un punto di partenza coerente con quanto detto, cioè che se si vuole fare un passo concreto per combattere la disuguaglianza bisogna necessariamente ridurre la ricchezza estrema. Da un lato bisogna che i governi smettano di perseguire la strada dei tagli fiscali e che inizino a privilegiare imposte che gravino di più sui ricchi, come ad esempio imposte sul patrimonio o sulle successioni, che limitino le rendite, dall’altro lato dovranno impegnarsi a ridisegnare la spesa pubblica in modo che da questa ne scaturiscano servizi più universali. Per quanto riguarda le imprese invece, bisognerebbe limitare i profitti degli azionisti e impedire che gli amministratori delegati percepiscano compensi pari al massimo a 20 volte di quelli dei dipendenti medi. Non va sottovalutato il ruolo della “massimizzazione del valore dell’azionista” perché negli ultimi anni è stata fonte di grande sperequazione nei guadagni delle aziende: basti pensare che in Vietnam, ad esempio, per migliorare le condizioni di vita di tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento in modo da portarli ad un livello salariale dignitoso servirebbero circa 2,2 miliardi di dollari all’anno, circa il 30% della somma che le cinque principali aziende del settore versano ai loro azionisti. Unitamente a questi provvedimenti il rapporto suggerisce di implementare soluzioni a favore dell’organizzazione dei lavoratori, fissando ad esempio standard giuridici che tutelino il diritto allo sciopero, e di eliminare il divario retributivo di genere[6].
Le proposte avanzate dal rapporto Oxfam sono in continuità con quanto prodotto finora dalla letteratura sulla disuguaglianza, tuttavia il vero problema sarà costruire consenso attorno a queste proposte. Purtroppo viviamo una fase in cui il Welfare State è stato limitato significativamente e in cui riforme fiscali e investimenti pubblici che garantiscano una crescita inclusiva sono tutt’altro che scontati. Il pregio del rapporto Oxfam è quello di presentare al lettore la condizione dei redditi più bassi, mostrando dei casi concreti in cui è possibile capire quanto sia urgente trovare una soluzione per ridurre la disuguaglianza. La cultura politica è necessariamente la sfera da cui non si potrà prescindere per far sì che queste idee si tramutino in azioni e riforme concrete.
https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2018/01/Rapporto-Davos-2018.-Ricompensare-il-Lavoro-Non-la-Ricchezza.pdf
[1] Il grafico prende in considerazione il periodo dal 1999 al 2011, ma questo trend è rintracciabile anche per periodi di tempo più lunghi.
[2] Atkinson, A. (2015) Disuguaglianza: che cosa si può fare, Raffaello Cortina.
[3] Il paper può essere reperito gratuitamente al seguente link https://www.imf.org/en/Publications/Staff-Discussion-Notes/Issues/2016/12/31/Catalyst-for-Change-Empowering-Women-and-Tackling-Income-Inequality-43346
[4] Il documento da cui è stata estrapolata è What she makes: power and prosperity in the fashion industry, che può essere consultato al seguente link http://whatshemakes.oxfam.org.au/wp-content/uploads/2017/10/Living-Wage-Media-Report_WEB.pdf
[5] Joliffe, D. Prydz, E. (2016), Estimating international poverty lines from comparable national thresholds, Journal of Economic Inequality, 14, pp 185-98.
[6] Secondo un rapporto del McKinsey Global Institute, se le donne venissero trattate come gli uomini si potrebbe “liberare” una ricchezza aggiuntiva compresa fra i 12 e i 28 trilioni di dollari a livello mondiale.